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Per la critica del capitalismo

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Ernesto Screpanti
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per Proteo (6)

Professore, Università di Siena

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Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (II)
Ernesto Screpanti

 

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Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governo dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo (II)

Ernesto Screpanti

Questo saggio viene presentato in due parti; la prima qui di seguito, mentre la seconda parte sarà pubblicata sul prossimo numero di Proteo

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Dunque questa è l’istituzione fondamentale del capitalismo in generale. E deve essere presente in tutte le forme particolari di capitalismo. È una condizione necessaria per l’estrazione di plusvalore nel processo produttivo. A tale proposito tre questioni vanno messe in chiaro.

Innanzitutto, la condizione è necessaria per l’estrazione del plusvalore nel processo produttivo, non per lo sfruttamento tout court. Anche i rapporti di scambio di mercato, come si è visto, possono essere usati per sfruttare. In tutti i casi in cui si dà scambio ineguale c’è sfruttamento di mercato. Ma questa non è una forma di sfruttamento tipica del capitalismo, sebbene sia ampiamente diffusa in tutti tipi di capitalismo verificatisi storicamente. Può darsi, infatti, anche in un sistema di socialismo di mercato, quando ad esempio una cooperativa operaia ne domina un’altra con cui ha un contratto d’appalto.

In secondo luogo, non è una condizione sufficiente per lo sfruttamento nel processo produttivo. Infatti può accadere che, in presenza di particolari rapporti di forza tra le classi, i lavoratori riescano ad attivare forme di contropotere in fabbrica che annullino il profitto d’impresa. Oppure che i manager e i quadri siano così inefficienti che la produttività del lavoro non riesca a superare il salario.

In terzo luogo, non è una condizione sufficiente perché lo sfruttamento sia di tipo capitalistico. Se il sovrappiù non è usato per sostenere l’accumulazione del capitale, non si può più parlare di capitalismo. Per prendere di nuovo l’esempio di un sistema socialista, è possibile che una cooperativa assuma dei lavoratori salariati e li sfrutti estraendo dal loro lavoro un sovrappiù che verrà consumato dai soci cooperatori.

Cosa si vende quando si vende “lavoro”?

Potrebbe sembrare una domanda banale. E gli si darà una risposta banale se si accetta il luogo comune secondo cui il lavoro o la “forza-lavoro” è una merce: si vende appunto una merce. Eppure resta il dubbio - per dirlo con Karl Polanyi (1944) - che la descrizione del lavoro come merce è un travisamento della realtà e che il mercato del lavoro è un sistema di rozze finzioni. D’altra parte ci si potrebbe domandare: quale merce ci vende l’idraulico a cui chiediamo di ripararci il tubo del lavandino? Ed è possibile che sia la stessa cosa che lui ha acquistato dal suo lavorante quando lo ha assunto con un contratto che lo impegna a eseguire le operazioni che lui gli ordinerà di compiere durante l’orario lavorativo? E mettiamo che la nostra riparazione sia stata effettuata fisicamente dal lavorante, sotto la direzione del suo datore di lavoro. Qual è il lavoro che paghiamo: quello dell’idraulico o quello del lavorante?

Le difficoltà nascono forse dal fatto che il termine “lavoro” è suscettibile di diversi usi. Spesso con esso ci si riferisce a una serie di operazioni di trasformazione di oggetti, vale a dire a ciò che più propriamente si chiama “attività lavorativa”. Evidentemente l’attività lavorativa non è una merce. All’idraulico non chiediamo di venderci operazioni consistenti nello svitare delle ghiere, togliere un tubo, tagliare un altro tubo, montarlo sotto il lavandino ecc. Gli chiediamo semplicemente la riparazione del tubo. Gli chiediamo cioè di venderci un servizio. Per procurarci questo servizio l’idraulico dovrà compiere delle azioni, dovrà cioè prendere delle decisioni concernenti una particolare attività lavorativa, eseguire o far eseguire da altri quelle decisioni e produrre degli effetti di trasformazione di oggetti che siano conformi a uno scopo, nella fattispecie la predisposizione di un tubo funzionante. L’“azione lavorativa è un insieme di decisioni relative a un’attività lavorativa che producono degli effetti conformi a uno scopo. L’azione lavorativa è una cosa diversa dall’attività lavorativa: primo, perché implica delle decisioni; secondo perché comporta degli effetti conformi a uno scopo. Ma neanche essa è una merce. Dall’idraulico non compriamo le sue decisioni o la sua facoltà decisionale. Compriamo solo i servizi procurati da un’azione, cioè gli effetti di decisioni. Questi sono i “servizi lavorativi”.

Si è ora in grado di dare una prima risposta a quella domanda. Quando si compra “lavoro” con un contratto d’opera si comprano in realtà i servizi del lavoro, cioè gli effetti di particolari azioni lavorative. Ciò che si paga in cambio è il valore dei servizi del lavoro. E l’attore che ha titolo al pagamento è il decisore dell’azione che ha prodotto i servizi, non l’esecutore delle sue decisioni. Quando paghiamo l’idraulico noi paghiamo proprio l’idraulico, cioè i suoi servizi, indipendentemente dal fatto che le sue decisioni siano state eseguite da lui o da un suo dipendente. In questo tipo di contratto il principio di equivalenza è rispettato se il valore del servizio venduto coincide col costo dell’azione compiuta per produrlo. Tale costo può includere, oltre a quello delle materie prime e dei mezzi di produzione usati nell’azione, il salario pagato al dipendente e il valore del rendimento del “capitale umano” dell’idraulico. In entrambi i casi non c’è sfruttamento del venditore se il principio di equivalenza viene rispettato: l’idraulico non è sfruttato dall’utente o viceversa.

Ma cosa dire del suo dipendente? Cosa vende lui al suo datore di lavoro? Col contratto di lavoro non vengono vendute né attività lavorative né azioni lavorative né servizi del lavoro; non viene venduto lavoro in nessun senso. Non l’attività lavorativa, perché, sebbene il lavoratore sarà tenuto a compiere delle attività, il contratto non specifica le operazioni che dovrà svolgere; infatti il lavoratore può essere impiegato in molte diverse mansioni, in molte diverse operazioni e, in presenza di un’innovazione, perfino in attività che non potevano essere note al momento della stipula del contratto. Non azioni lavorative, perché il lavoratore dipendente è pagato per eseguire decisioni altrui, cioè non per prendere decisioni, non per compiere azioni lavorative. Non servizi del lavoro, infine, perché questi sono i risultati di azioni lavorative e quindi sono prodotti dai decisori delle azioni.

Il contratto di lavoro in realtà istituisce la facoltà del datore di lavoro di decidere in merito all’attività lavorativa. E la istituisce obbligando il lavoratore a svolgere delle operazioni sotto il comando di quello. Esso genera la capacità del datore di lavoro di compiere azioni lavorative pur senza svolgere attività lavorativa, ma semplicemente dirigendo l’attività dei lavoratori.

Dunque il lavoratore salariato non vende una merce. È per questo che il salario che riceve non si configura come il prezzo di una merce. Non è il prezzo delle attività lavorative svolte, perché queste possono essere molteplici, eterogenee, variabili e anche ignote al momento in cui viene stabilito il salario; il quale, poi, non varierà al variare delle operazioni svolte dal lavoratore. Né è il prezzo delle azioni lavorative, poiché queste sono compiute dal datore di lavoro e non dal lavoratore. Non è infine il prezzo dei servizi del lavoro, poiché questi, in quanto effetti conformi a uno scopo, sono prodotti dall’azione lavorativa, e quindi appartengono al datore di lavoro, non al lavoratore. Come già osservato, il salario si configura come un premio per l’obbedienza; e l’obbedienza non è una merce.

Non si può dire comunque che il principio di equivalenza sia trasgredito nella fissazione del salario. Il punto è che esso non è applicabile; e per il semplice motivo che non è in gioco la determinazione del valore di una merce. Tuttavia quel principio resta in vigore nella determinazione del valore dei prodotti del “lavoro”; il quale infatti dovrà coincidere col valore dei servizi lavorativi. E siccome tali servizi sono prodotti dall’azione lavorativa, la loro remunerazione pertiene al datore di lavoro. Se questi è in grado di prendere decisioni che esaltano la produttività del lavoro, il valore così generato appartiene a lui. Il lavoratore non ha titolo ad appropriarsi i frutti della propria attività, poiché questa produce valore solo nella misura in cui si trasforma in azione lavorativa, ma in quanto tale non è più di pertinenza del lavoratore.

Ad ogni modo, il fatto che il principio di equivalenza venga rispettato nella determinazione del valore dei servizi del lavoro non significa che non esiste sfruttamento del lavoratore salariato. Significa però che questo tipo di sfruttamento può esistere solo in quanto il salario non è commisurato agli effetti ottenuti per mezzo dell’attività lavorativa. Né il fatto che il plusvalore prodotto nell’impresa capitalistica sia legittimamente appropriato dal capitalista significa che il lavoratore non è sfruttato. Lo sfruttamento capitalistico non ha niente a che vedere con la legittimità dei diritti di proprietà che possono essere vantati sulle merci, come aveva ben capito Marx. Esso può invece esistere perché il contratto di lavoro sottrae la remunerazione del lavoratore al principio di equivalenza; perché il salario viene fissato indipendentemente dal valore dei servizi del lavoro, questi ultimi venendo attribuiti all’azione del datore di lavoro.

Per capire la natura del rapporto sociale istituito col contratto di lavoro può forse essere utile risalire alle sue origini, quella locatio operarum la cui esistenza è accertata già dalla fine del I secolo a. C. La concretezza e il materialismo della filosofia giuridica romana ci consegnano dei concetti di istituzioni negoziali che sono abbastanza esenti dalle incrostazioni ideologiche apportate dalla mentalità moderna, e ciò può aiutarci a capirne l’essenza. Il problema di cosa si vende quando si vende lavoro si presenta nel diritto romano nei termini della definizione della natura dell’obbligazione assunta dal locator operarum: è un’obbligazione a dare o a facere?

Locare significa “collocare”, “porre”, “mettere a disposizione”, e generalmente si riferisce all’obbligo di consegnare una cosa al conductor, che da parte sua si obbliga a restituirla e a pagare una merces, una remunerazione, per il suo uso. La figura più consueta è dunque quella della locatio rei, la locazione di una cosa, un terreno, un’abitazione, un mezzo di produzione ecc., nella quale il locatore assume l’obbligo di dare. Diversa è la locatio operis, il contratto d’opera, in cui viene ceduto uno specifico servizio lavorativo, e in cui il lavoratore assume l’obbligo a facere delle specifiche azioni lavorative. La locatio operarum però, la locazione di lavoro in generale, ovvero della capacità generica di compiere opere, è un’altra cosa, in quanto in essa non vengono stabilite ex ante le opere specifiche che devono essere eseguite.

Secondo un’interpretazione che sembra convincente (Martini, 1958), l’obbligazione assunta dal lavoratore nella locatio operarum è un’obbligazione a dare (come nella locatio rei) e non a facere (come nella locatio operis). Uno degli argomenti più forti a sostegno di questa interpretazione, oltre a quello già accennato per cui è impossibile definire ex ante la natura specifica delle opere da fare, è basato sull’osservazione che lo stesso concetto di locatio operarum viene usato per la locazione degli schiavi, locatio operarum servi, o più semplicemente locatio servi, nella quale chiaramente il locatore, padrone di uno schiavo, dando in affitto una cosa, lo schiavo appunto, in cambio di una remunerazione, assume l’obbligo di cedere l’uso di un uomo: l’obbligo di dare, dunque, e non di compiere o far compiere un’opera, di facere qualcosa.

Non diversamente deve essere intesa l’obbligazione assunta con la locatio operarum di un uomo libero: si tratta sempre della cessione dell’uso di un uomo. La differenza risiede nel fatto che nel primo caso il locatore dà in affitto l’uso di un altro uomo, mentre nel secondo dà in affitto l’uso di se stesso. Infatti la locatio operarum di un uomo libero si configura anche come locatio sui, locazione di se stesso. Non si tratta comunque di una differenza sostanziale, poiché, se anche è vero che nella locatio servi compaiono tre individui mentre nella locatio sui ne compaiono due, resta il fatto che il terzo individuo, quello che è oggetto della transazione, si presenta non come soggetto giuridico, ma come oggetto: il servo, o meglio il suo uso, è l’oggetto del contratto di locazione. Allo stesso modo l’oggetto della transazione nel contratto di lavoro dell’uomo libero è l’uso del lavoratore stesso. In entrambi i casi dunque agiscono solo due soggetti giuridici, l’oggetto della transazione configurandosi in realtà come una cosa, la cosa che si è assunto l’obbligo di dare.

Ma in cosa consiste questa cosa? Non si tratta evidentemente della proprietà del “capitale umano” incorporato nello schiavo o nell’uomo libero, che legalmente resta parte della dotazione patrimoniale del padrone o dell’uomo libero. Si tratta in realtà della potestas, del potere o autorità che il padrone può esercitare sull’attività dello schiavo e l’uomo libero sulla propria, cioè della capacità di decidere riguardo all’attività del lavoratore oggetto della transazione. Cedere l’uso del lavoratore significa precisamente cedere la prerogativa di determinarne l’attività con un’azione di comando. E ciò resta vero nel caso della locatio servi come in quello della locatio sui. In entrambi i casi il lavoratore locato è tenuto all’obbedienza verso il conduttore. In entrambi i casi il locatore, in quanto proprietario dello schiavo o di se stesso, rinuncia alla prerogativa di esercitare comando sullo schiavo o su se stesso.

Ora è forse più facile rispondere alla domanda “cosa si vende quando si vende lavoro?” Basta riflettere sulla profondità dell’osservazione di Seneca secondo cui “lo schiavo è un salariato perpetuo”, o di quella di Cicerone (1962, pp. 265-6) secondo cui “ignobili e vili sono i guadagni dei salariati, dei quali si paga il lavoro e non l’arte: poiché il salario è il prezzo della loro servitù”. Si vende la libertà. Così come lo schiavo è un salariato perpetuo, il lavoratore salariato è di fatto uno schiavo a tempo definito. [1]


[1] Forse è un segno dei tempi, dell’imbarbarimento del capitalismo contemporaneo o, se si preferisce, di una sua impennata di onestà ideologica, il fatto che sta prendendo piede in esso il rapporto di lavoro interinale, una forma di transazione in cui l’uso del lavoratore dipendente può essere ceduto in affitto a terzi con i quali il lavoratore stesso non instaura personalmente un rapporto contrattuale. In questo tipo di rapporto di lavoro viene a cadere uno di veli ideologici che impediscono di afferrare l’intima connessione esistente tra lavoro servile e lavoro dipendente.