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Per la critica del capitalismo

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Guglielmo Carchedi
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Professore Università di Amsterdam

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L’arte del fare confusione

Guglielmo Carchedi

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6. L’approccio della forma valore

Secondo quest’approccio, il concetto marxiano di lavoro astratto è problematico perché per definizione non è quantificabile prima dello scambio e perché è impossibile ridurre il lavoro complesso a quello semplice e il lavoro più intensivo a quello meno intensivo. Per Reuten (1988), per esempio, il lavoro astratto “si costituisce al momento” dello scambio, “è fondato” sullo scambio (p.52). L’impossibilità di calcolare il valore prima dello scambio rende questa nozione inutile per la trasformazione dei valori in prezzi. Tale ‘impossibilità’ ovviamente esiste solo nei pensieri di questi teorici. La soluzione al primo di tali pseudo-problemi è stata data nella sezione 4 mentre il mio saggio precedente ha trattato della duplice riduzione. Tuttavia, avendo deciso che vi è un problema nella nozione marxiana del lavoro astratto, questa scuola propone un’altra, la sua, ‘soluzione’. Per l’approccio della forma valore, il fattore comune che rende possibile lo scambio non è il lavoro astratto (per le ragioni appena menzionate) ma il denaro. L’argomento è che, nella circolazione delle merci, da merce a denaro e di nuovo a merce, (in simboli, M-D-M) è il denaro che è il fattore comune, il fattore che rende paragonabili valori d’uso differenti. Quindi, il lavoro astratto, e così il valore, nasce nell’atto dello scambio e attraverso lo scambio (piuttosto che realizzarsi socialmente in una quantità differenti, come in Marx) quando il denaro entra sul palcoscenico. [1] Questo ‘risolve’ il cosiddetto problema della trasformazione perché, se il valore non esiste prima dello scambio, non ci si deve preoccupare della differenza tra il valore prima dello scambio (valore non trasformato) e valore dopo lo scambio (valore trasformato). Quindi, in uno sforzo (uno in più) di risolvere un problema non esistente, l’approccio della forma valore cancella il valore (il lavoro astratto, cioè il valore contenuto) e mantiene solo la forma sociale del valore, la moneta. [2] Ma ciò tura un buco inesistente mentre apre una vera e propria falla.

La nozione che il denaro è il fattore comune che rende possibile lo scambio è sbagliata. Come già sottolineato da Marx, se il ciclo merce-denaro-merce (M-D-M) è suddiviso nella vendita, M-D, e nella compera, D-M, si può vedere che ci deve essere qualcosa di comune sia al denaro che alla merce che rende quello scambio possibile. In effetti, M-D-M è possibile solo se le sue parti costitutive, D-M e M-D, sono possibili. Quest’elemento comune deve essere una sostanza quantificabile affinché quei due elementi possano essere scambiati in proporzioni definite. L’unico elemento comune sia alle merci sia alla moneta metallica è il lavoro astratto contenuto sia nelle merci sia nella moneta metallica. Solo dopo aver compreso questo punto possiamo introdurre la moneta simbolica. La moneta (come moneta e non come metallo prezioso) rappresenta lavoro astratto, valore, piuttosto che crearlo. Quindi il lavoro astratto, valore, deve esistere al livello della produzione, altrimenti lo scambio non sarebbe possibile. Non vi è modo che questa scuola possa evadere questa critica.

Ma vi è anche una seconda critica. Se il lavoro nella sfera della produzione non producesse valore e se diventasse valore solo nella sfera dello scambio, a chi si dovrebbe attribuire la produzione del valore? Ai lavoratori nella sfera dello scambio, cioè agli impiegati commerciali, ai venditori, ecc? Questo non solo è direttamente opposto all’opinione di Marx, è anche stato dimostrato essere erroneo (vedi sopra). Se non sono i lavoratori, allora i creatori di valore non possono che essere i capitalisti. Come vedremo, questa conclusione, presente implicitamente nell’approccio della forma valore, è raggiunta apertamente dai due Autori che saranno discussi nella prossima sezione e di cui uno (Arthur) viene da questa scuola.

Infine, questa posizione ci lascia senza una teoria di prezzi: se i prezzi non sono una modificazione, attraverso lo scambio, del valore incorporato nelle merci durante la loro produzione, che cosa sono? Su questo punto cruciale tale approccio è muto. Possiamo adesso capire perché Reuten può giungere al punto di teorizzare la possibilità di “considerare l’utilità come la sorgente del valore e ciononostante misurare il valore in termini di tempo di lavoro” (sezione 3). Ciò comporta che il lavoro possa essere la sostanza del valore e che l’utilità sia la sua misura. Cioè comporta la sovrapposizione della teoria neo-classica dei prezzi su Marx. Questo fornisce una teoria dei prezzi all’approccio della forma valore ma anche, e allo stesso tempo, il colpo di grazia a Marx.

 

7. L’importanza di tutto ciò per la situazione italiana.

Nel 2000, Bertinotti e Gianni pubblicarono Le idee che non muoiono. È cosa unica e meritoria che il segretario di un partito comunista occidentale dimostri un interesse in questioni, come la teoria del valore e il dibattito sulla trasformazione, che sembrerebbero essere così distanti dalle preoccupazioni quotidiane e dalle attività pratiche. Il libro ha riacceso la discussione su questi argomenti che, come già sottolineato, sono della massima importanza teorica (e quindi, indirettamente, pratica). Questo va a credito degli Autori. Tuttavia, nonostante i molti punti condivisibili, la scelta teorica che essi fanno per quanto riguarda la teoria del valore pone molti punti interrogativi. Dato che Bertinotti è il segretario dell’unico partito in Italia con un impatto nazionale che si rifà apertamente all’esigenza di ricostruire un movimento antagonista al capitalismo, le sue idee su questi temi meritano un esame accurato. Solo il capitolo 5, ‘Il Valore’ sarà esaminato qui di seguito.

Una valutazione di questo capitolo non è cosa facile perché gli Autori, mentre sottoscrivono l’opinione che l’analisi economica di Marx non può essere accettata “come è”, non rendono esplicite le loro riserve. Strettamente correlato a questo punto, Bertinotti e Gianni, piuttosto che specificare senza esitazioni la loro posizione teorica, sembrano essere d’accordo con diversi Autori le cui idee nel migliore dei casi sono parallele e nel peggiore dei casi si escludono a vicenda. Solo in due occasioni essi fanno una scelta chiara. La prima è la loro opinione che “la legge del valore si presenta come una legge di equilibrio generale: anzi è la legge dell’equilibrio” (p.129). La critica a questa posizione è stata proposta più sopra e non sarà ripetuta qui. Basti sottolineare che si è dimostrata la reciproca incompatibilità tra la nozione d’equilibrio e il contenuto radicalmente antagonistico del marxismo. La seconda è il loro concetto di lavoro astratto e sfruttamento. Per quanto riguarda queste due nozioni, gli Autori che sembrano aver esercitato la maggior influenza su Bertinotti e Gianni sono Chris Arthur e Riccardo Bellofiore. [3] È quindi necessario discutere questi ultimi, anche se brevemente; [4] naturalmente, questi due autori non possono essere ritenuti responsabili per Le idee che non muoiono. Lo scopo, piuttosto, è quello di rendere chiare alcune caratteristiche dell’approccio di Arthur e Bellofiore e quindi delle nozioni di Bertinotti e Gianni per quanto riguarda il valore e lo sfruttamento, dato che non è chiaro se questi ultimi siano coscienti delle conseguenze delle loro posizioni.

Recentemente, Chris Arthur, precedentemente un esponente di rilevo dell’approccio della ‘forma valore’, ha cambiato radicalmente la sua orientazione teorica. Credo che la novità di maggior rilevo sia la tesi che, contrariamente a Marx, non sia il lavoro che è produttivo di (plus) valore ma il capitale. Su questo punto Arthur è stato influenzato grandemente da Napoleoni; Consideriamo quindi quest’ultimo, anche se necessariamente in forma sintetica.

Napoleoni inizia accettando che il ‘problema’ della trasformazione è un problema logico reale e che Marx non fu capace di ‘spiegare lo scambio’, cioè i prezzi (di produzione). Questo, ovviamente, non è vero. Inoltre, Napoleoni accetta la soluzione sraffiana, quindi accettando tutte le inconsistenze e assurdità sottolineate in precedenza. Ma tralasciamo. Egli quindi abbandona la teoria del valore lavoro e si pone il compito di “definire un concetto di sfruttamento adatto alla realtà capitalistica senza alcuna relazione con la teoria del valore lavoro” (1991, p.231, traduzione mia, G.C.). Egli indica due problemi nella nozione di Marx della produttività. Il primo è quello del lavoro produttivo. Questo problema é chiaramente un’invenzione di Napoleoni. Per Marx, il lavoro è produttivo non solo se è impiegato dal capitale ma anche se trasforma valori d’uso: “Il valore è indipendente dal particolare valore d’uso che di quel valore è portatore; ma deve essere incorporato in un valore d’uso di qualche tipo” (Marx, 1967a, p.188, traduzione mia). Anche il lavoro improduttivo è lavoro impiegato dal capitale ma esso tratta i valori d’uso senza trasformarli: “I lavori ... che non si metamorfizzano nei prodotti” devono essere trattati come “lavoro salariato che non è allo stesso tempo lavoro produttivo” (Marx, 1976, p.139, traduzione mia, G.C.). Queste sono le definizioni di Marx. Per Napoleoni, d’altra parte, “Marx... rigetta... il suggerimento che il valore d’uso è importante per il concetto di lavoro produttivo... l’unico aspetto importante è se il lavoro è impiegato dal capitale oppure no” (1991, p.232, traduzione mia, G.C.). Avendo cambiato la definizione, Napoleoni prosegue asserendo che “Marx non seguì coerentemente il suo criterio, anche se egli stesso lo stabilì. La deviazione più significativa avviene quando Marx tratta del lavoro impiegato dal capitale commerciale ... in questo caso il lavoro è definito come non produttivo” (ibid., traduzione mia, G.C.). Conclusione: “Questo è uno dei primi problemi che sorgono al riguardo della teoria marxiana del lavoro produttivo” (ibid., traduzione mia, G.C.). Visto come si fa a trovare incoerenze in Marx?

Il secondo ‘problema’ nella nozione ‘marxiana’ della ‘produttività’ è che, se lo scopo è di scoprire la specificità del capitalismo, bisogna concludere che il lavoro non è produttivo. Piuttosto, è il capitale che è produttivo. L’evidenza testuale di Napoleoni è la seguente: “Siccome il lavoro vivo è incorporato nel capitale... siccome appare come un’attività che perviene al capitale, non appena il processo lavorativo incomincia, tutte le capacità produttive del capitale sociale si presentano come le capacità produttive del capitale” (Marx, 1994, enfasi mia, G.C., traduzione mia). “Quindi, abbiamo ancora una volta l’inversione della relazione [tra capitale e lavoro, G.C.], la cui espressione abbiamo già caratterizzato come feticismo quando abbiamo considerato la natura della moneta” (ibid. enfasi nell’originale, traduzione mia). Di nuovo, Marx non avrebbe potuto essere più chiaro. Non appena il lavoro è incorporato nel processo lavorativo capitalista, il capitale appropria le “capacità produttive del lavoro ... quindi anche la scienza e le forze della natura, [che] appaiono come capacità produttive del capitale” (Marx, 1994, p.123, enfasi mia, traduzione mia, G.C.). Dunque, le capacità produttive sono del lavoro, esse appaiono come se fossero del capitale, ma siccome il lavoro è impiegato dal capitale e deve riprodurre il capitale, il capitale stesso deve forzare il lavoro ad erogare plus lavoro. In breve: “Il capitale quindi è produttivo: 1) come la costrizione a erogare plus lavoro; 2) come l’assorbimento in se stesso e l’appropriazione delle forze produttive del lavoro sociale e le forze sociali della produzione in generale, come la scienza” (Marx, 1994, p.128, traduzione mia, G.C.). Chiaramente, il capitale è produttivo nel senso che è necessario per la produzione del plusvalore come forza costrittiva, non come forza produttiva. Se le forze produttive fossero distaccabili dal lavoro (come sono, diciamo, le macchine), esse potrebbero essere appropriate dal capitale e usate dal capitale indipendentemente dal lavoro. Il capitale sarebbe quindi produttivo. Ma le forze produttive del lavoro sono insite al lavoro e quindi l’appropriazione delle forze produttive del lavoro non può che significare l’appropriazione del prodotto del lavoro, il (plus)valore. [5]

Nonostante la chiarezza cristallina di queste citazioni, per Napoleoni “l’applicazione del termine ‘produttività’ del capitale non è il risultato dell’uso metaforico del termine stesso” (1991, p.233, traduzione mia, G.C.), cioè il capitale è veramente produttivo. Ora, Napoleoni come può capovolgere il significato di questo brano? Semplicemente capovolgendo la nozione di feticismo di Marx. Feticismo è una percezione invertita della realtà. Per Marx, “una data relazione sociale tra uomini... assume, ai loro occhi... la forma fantastica di una relazione tra cose” (Marx, 1967a, p.72, traduzione mia, G.C.). Nel Marx di Napoleoni, “è la relazione tra cose che stabilisce la relazione tra persone” (1991, p.233, traduzione mia, G.C.). Questo è esattamente l’opposto di quello che dice Marx. Una volta che la nozione di feticismo di Marx è stata rimpiazzata da quella di Napoleoni, diventa molto facile concludere che, siccome le forze produttive del lavoro sono diventate le forze produttive del capitale (la ‘relazione tra cose’), i capitalisti sono produttivi e i lavoratori non lo sono (la ‘relazione tra persone’).

In breve, ciascuno può scegliere liberamente i propri errori. Napoleoni ha scelto di accettare la validità dell’approccio sraffiano (che è stato dimostrato essere minato nel suo nucleo centrale) e di abbandonare la teoria del valore lavoro. Questa è una sua libera scelta. Quello che non è ammissibile e contrario a tutte le regole dell’indagine teorica è che egli ha scelto di cambiare definizioni di Marx di una chiarezza cristallina e di introdurne altre come se fossero quelle di Marx al fine di dimostrare l’esatto opposto delle tesi di Marx. Se ben allenati, i teorici ‘marxisti’ possono fare i salti mortali.


[1] “Per Marx non vi è altra misura del valore che la moneta” (Reuten, 1999, p.108). Ciò non solo è contrario all’evidenza testuale, è anche sbagliato. Si veda più avanti.

[2] Le variazioni sul tema sono innumerevoli. Per esempio, Fleetwood (2001) sostiene che la teoria del valore lavoro “non dovrebbe essere il tipo di teoria che è per natura quantitativa” (p.73). Se la dimensione quantitativa sparisce, sparisce anche il ‘problema’ della trasformazione. Ma questo è un prezzo molto alto per sbarazzarsi del ‘problema’, dato che riduce la teoria di Marx ad una costruzione puramente filosofica senza alcun uso economico. Il punto è che la procedura della trasformazione di Marx è perfettamente coerente e che quindi deve essere anche per natura quantitativa.

[3] Un altro Autore che é citato con approvazione da Bertinotti e Gianni é Colletti. Bertinotti sembra essere d’accordo con Colletti che “il lavoro astratto... [è] un’astrazione prodotta dalla realtà dello scambio” (p.128). Se questo è il caso, la critica all’approccio della forma valore deve essere applicata.

[4] Nonostante le loro differenze, vi é una grande affinità tra Arthur e Bellofiore, come si vedrà nelle prossime pagine. Questa è un’ulteriore ragione per trattare questi due Autori nella stessa sezione.

[5] Naturalmente, il risultato di quest’appropriazione è anche che il processo lavorativo è modellato dal capitale. In esso, le mansioni sono costantemente sottoposte ad un processo di dequalificazione e riqualificazione, frammentazione e ricomposizione, ecc. (si veda Carchedi, 1977). Ciò, come sottolinea Bellofiore, è di grande importanza sia teorica che pratica e sarebbe un grave errore sottostimarlo in una lotta per le riforme. Tuttavia questo non è il punto di questa discussione.