Una definizione, un assioma e un teorema
Come ho già notato, una volta sfrondata della metafisica, la
concezione marxiana dello sfruttamento si riduce alla proposizione secondo cui
il salario è minore della produttività media dellavoro.È possibile fondare
una solida teoria dello sfruttamento su questa proposizione? Sostengo non solo
che è possibile, ma anche che ne può risultare un’analisi molto più
pregnante e illuminante di quella ortodossa.
Comincerò con una “definizione di sfruttamento
capitalistico”: C’è sfruttamento capitalistico del lavoro nella
produzione quando il contributo produttivo dei lavoratori è maggiore del loro
salario. La definizione non specifica alcunché riguardo alla distribuzione
dei diritti di proprietà. Così è possibile applicarla al capitalismo in
generale. In Screpanti (2001a, 2001b) mostro che, per caratterizzare un modo di
produzione come capitalistico, è sufficiente postulare che il reddito da lavoro
si configura come salario e che il capitale si valorizza tramite la produzione e
l’investimento di un plusvalore. Il capitalista estrae dai lavoratori un
contributo produttivo. Se tale contributo lo mette in grado di guadagnare dei
profitti, e quindi di valorizzare il capitale, dico che c’è sfruttamento
capitalistico. La definizione implica che un qualche soggetto diverso dai
lavoratori ha il controllo del loro contributo produttivo e che tale soggetto
sia un capitalista, cioè che operi per la valorizzazione e l’accumulazione
del capitale.
Sorge immediatamente il problema di stabilire in cosa
consiste il contributo produttivo del lavoro. Sulla base dell’argomentazione
controfattuale presentata nel paragrafo precedente, ritengo che si possa
postulare il seguente “assioma della produttività”: Il contributo
produttivo del lavoro coincide con la produttività media del lavoro.
Si consideri un’azienda in cui si produce grano per mezzo
di grano e lavoro. Ci sono tre dipendenti, uno dei quali produce 20 quintali di
grano l’anno, un altro 15 quintali e un altro 10. La produttività media del
lavoro è (20+15+10)/3=15. Si supponga che ogni lavoratore sia remunerato con un
salario pari a 10 quintali di grano l’anno. Allora l’assioma della
produttività e la definizione di sfruttamento consentono di concludere che i
lavoratori sono sfruttati [1]
capitalisticamente e precisamente che sono sfruttati a un saggio del 50%, cioè
al saggio (15-10)/10=1/2.
Il modello grano-grano è una semplificazione. Più in
generale si può studiare un’economia in cui si producono molte merci per
mezzo di se stesse e lavoro. Nel qual caso la produttività del lavoro, il
salario e il saggio di sfruttamento saranno misurati in termini di prezzi. Lo
sfruttamento può essere provato astraendo dalla merce scelta come unità
di misura. Inoltre il saggio di sfruttamento può essere misurato con precisione
in termini di prezzi ed è indipendente dalla merce scelta come misura.
Si può formulare il seguente “teorema dello sfruttamento
capitalistico”: Si verifica sfruttamento capitalistico dei lavoratori
quando il salario è inferiore alla produttività media del lavoro. La
dimostrazione del teorema è immediata e può essere ottenuta da un semplice
ragionamento basato sulla definizione di sfruttamento e sull’assioma della
produttività.
Certo, è un teorema che sembra un po’ tautologico, ma chi
può pretendere di più dalla logica? D’altra parte gli assiomi sono veri per
assunzione, e non si può fare nulla per convincere chi non vuole essere
convinto. L’importante è che non siano contraddittori, perché in tal caso
non convincerebbero neanche chi vorrebbe esserlo. Così tutto fa leva su un
punto di vista particolare, ché tale è sempre quello che sostiene la
convinzione della validità degli assiomi. Ebbene sostengo che l’assunzione
del punto di vista della classe operaia è sufficiente per giustificare la
postulazione dell’assioma della produttività e il teorema che ne consegue.
Il saggio di sfruttamento
Nell’esempio fatto nel paragrafo precedente il saggio di
sfruttamento, σ, è
misurato in termini di grano, e risulta essere pari a σ = (45-30)/30 = 15/10-1, dove 45 è il prodotto netto, 30 il monte-salari, 15
la produttività media del lavoro e 10 il salario per addetto. Più in generale,
se si producono molte merci, il prodotto netto viene calcolato in termini delle
quantità di beni prodotti, y, moltiplicate per i loro prezzi, p,
ed è py. Il monte-salari viene calcolato come il salario monetario, w,
moltiplicato per il numero dei lavoratori occupati, L, ed è wL.
Perciò il saggio di sfruttamento in prezzi è pari a
π=py/L è la
produttività del lavoro in prezzi e Lc=py/w il lavoro “comandato”
dal prodotto netto, cioè quello che può essere acquistato, al salario
corrente, spendendo l’intero prodotto netto. Il secondo rapporto della formula
è ottenuto dal primo dividendo numeratore e denominatore per L; il terzo
è ottenuto dividendo per w.
Il fattore di sfruttamento, 1+σ=Lc/L,
può essere interpretato come un rapporto tra il lavoro comandato dal prodotto
netto e quello in esso contenuto. Si noti che, nonostante sia derivato da un
rapporto tra redditi monetari, si presenta come un rapporto tra due quantità di
lavoro. È maggiore di 1 se i capitalisti guadagnano un profitto e i lavoratori
percepiscono un salario inferiore alla produttività del lavoro. Quando accade
ciò, vuol dire che la quantità di lavoro che può essere comandata dal
prodotto netto è maggiore di quella richiesta per produrlo. Questa misura dello
sfruttamento ha qualche vantaggio rispetto a quella usata da Marx. Il saggio di
sfruttamento marxiano è un rapporto tra due quantità di lavoro incorporato e
quindi, come s’è visto, diverge da una misura in termini di prezzi. La misura
in lavoro comandato/incorporato invece è sempre uguale a quella in termini di
prezzi.
Tuttavia le variabili espresse in lavoro comandato e
incorporato, pur essendo tecnologicamente omogenee, sono concettualmente differenti.
Infatti quella che appare al numeratore di Lc/L è una quantità di
lavoro comandato ex post, cioè dopo che il processo produttivo si è
chiuso, mentre quella che appare al denominatore è una quantità di lavoro
comandato ex ante, cioè prima della chiusura del processo produttivo. Il
lavoro contenuto può essere inteso, sia come la quantità di lavoro che il
capitalista ha comprato prima dell’avvio del processo produttivo, sia come il
numero di lavoratori su cui il capitale esercita il comando nel processo
produttivo. In tal modo il fattore di sfruttamento può essere interpretato come
un moltiplicatore dell’accumulazione. Quando è maggiore di 1 si può dire che
c’è un potenziale di valorizzazione e accumulazione del capitale, ovvero un
potenziale di incremento del comando capitalistico sul lavoro. E si può dire
che ciò accade perché i capitalisti possono comandare al termine della
produzione più lavoro di quanto ne hanno comandato nella produzione stessa,
più lavoro per avviare un nuovo processo produttivo di quanto ne è stato usato
nel vecchio processo. Ciò è reso possibile dal fatto che i lavoratori non
possono trattenere per sé l’intero reddito che producono. Ci può essere
valorizzazione e accumulazione del capitale perché c’è sfruttamento.
Si noti che vale l’uguaglianza π/w=Lc/L.
Il fattore di sfruttamento può anche essere interpretato come il rapporto tra
il valore del prodotto netto nel capitalismo, nel quale gli scambi avvengono ai
prezzi, e il valore del prodotto netto in Utopia, in cui gli scambi si
verificano ai valori-lavoro. Questo rapporto dunque implica un raffronto
controfattuale. Quando è maggiore di 1 vuol dire che la produttività del
lavoro è maggiore del salario, che il capitalismo riesce ad estrarre dai
lavoratori più reddito di quanto questi ne consumano per produrre il prodotto
netto. Per questa ragione il valore del prodotto nel capitalismo è maggiore di
quello che si avrebbe in Utopia.
Quando il fattore di sfruttamento è uguale a 1 non c’è
valorizzazione del capitale, il saggio di profitto è nullo, i salari coincidono
col prodotto netto, il lavoro comandato dal reddito coincide con quello in esso
contenuto e le merci si scambiano ai valori-lavoro. Nel qual caso non c’è
sfruttamento. I lavoratori staranno meglio in questa società piuttosto che in
una in cui le merci si scambiano ai prezzi di produzione. Non è una questione
di giustizia. È solo il fatto che, quali che siano le preferenze nel consumo e
le preferenze sociali dei lavoratori, essi possono fare o comprare in Utopia
tutto quello che possono fare o comprare nel capitalismo e qualcosa di più.
Alcune implicazioni istituzionali
Tornando alla formula dello sfruttamento, può essere utile
riflettere su ciò che le sue diverse espressioni dicono, oltre che su certe
cose che non dicono. Si potranno così afferrare alcune caratteristiche
fondamentali del capitalismo.
In primo luogo quella formula dice qualcosa sull’assetto
istituzionale di questo modo di produzione. Chiarisce che i lavoratori sono
sfruttati attraverso il pagamento di un salario, che sono lavoratori dipendenti.
1+σ infatti può essere interpretato come un fattore di
sfruttamento sulla base dell’assioma della produttività. Può essere espresso
come π/w, cioè come un rapporto tra la produttività del
lavoro e il salario. Quando la prima variabile è maggiore della seconda c’è
sfruttamento in forza di quell’assioma. Così si viene a sapere che il
salario, e quindi il contratto di lavoro, è un’istituzione
fondamentale del capitalismo.
Marx è stato tra i primi ad afferrare il ruolo svolto dal
sistema del salario nel creare le condizioni del dispotismo del capitale in
fabbrica. Il meccanismo di estrazione del plusvalore poggia su un rapporto di
potere. I lavoratori sono pagati per il valore d’uso del lavoro che offrono,
non per il contributo produttivo del loro lavoro, né per il lavoro che in
Utopia viene incorporato nel valore del prodotto netto. E in effetti la formula
dello sfruttamento chiarisce che il prodotto netto: 1) non è una quantità di
lavoro incorporato; 2) non è ciò che viene pagato ai lavoratori.
La formula dice che ci può essere sfruttamento capitalistico
nella produzione se e solo se la produttività del lavoro è superiore al
salario. Ma la produttività è determinata nel processo di produzione, non nel
mercato. Così si viene anche a sapere che, per l’emergere dello sfruttamento,
è necessario che il processo lavorativo sia sottratto al controllo dei
lavoratori e sia controllato dai capitalisti. Lo sfruttamento è possibile, non
perché i lavoratori vendono una merce il cui valore è superiore a quello della
forza lavoro, ma perché i capitalisti hanno il controllo del processo
lavorativo e possono quindi regolarlo in modo da estrarne un plusvalore. Il che,
a sua volta, è reso possibile da un’istituzione transattiva che attribuisce
ai datori di lavoro un potere di comando sui lavoratori. Tale istituzione è il
contratto di lavoro (Ellerman, 1992; Screpanti, 2001a, 2001b), un contratto che
i lavoratori accettano di stipulare in cambio di un salario.
Ma cos’è che i lavoratori effettivamente danno ai
capitalisti in tale scambio? Be’, è un impegno all’obbedienza. I
lavoratori vendono la rinuncia alla propria libertà per un certo numero di ore
al giorno. “L’operaio libero [...] vende se stesso, e pezzo a pezzo.
Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore
offerente” (Marx, 1945, p. 19). Ciò che Marx chiama “valore d’uso
della forza lavoro”, e che identifica con ciò che i lavoratori danno in
contropartita del suo “valore di scambio”, è in realtà la prerogativa all’uso
dei lavoratori stessi nel processo lavorativo, una prerogativa che pertiene al
capitalista in forza del contratto di lavoro. La possibilità che la
produttività del lavoro sia maggiore del salario si fonda sul controllo
capitalistico della produzione e non sullo scambio di mercato. Nel “mercato”
viene fissato il prezzo che i lavoratori accettano per il loro impegno all’obbedienza,
mentre la produttività del lavoro è determinata nel processo produttivo in
forza del potere di comando che i capitalisti hanno acquistato col contratto di
lavoro.
In secondo luogo la formula dello sfruttamento non dice nulla
riguardo alla distribuzione dei diritti di proprietà, ed è compatibile con
molte diverse forme capitalistiche, dalla proprietà privata a quella statale,
dal capitalismo di mercato a quello di piano. Non dice niente neanche sull’esistenza
di un saggio di profitto uniforme, ed è quindi compatibile sia con un sistema
di mercato concorrenziale, sia col monopolio e l’oligopolio, sia infine con l’accentramento
burocratico.
Le decisioni d’investimento e di allocazione delle risorse
possono anche essere prese da un organo politico centrale. Quello che conta è
che non vengano prese dai lavoratori. Altrimenti non si può parlare di
sfruttamento del lavoro. Il prodotto netto è controllato da chi ha il controllo
del processo produttivo e, se il contratto di lavoro sottrae quest’ultimo
dalla portata dei lavoratori, vi sottrae anche il primo. D’altronde se i
lavoratori controllassero il prodotto e la sua distribuzione, la loro
remunerazione non si configurerebbe più come salario, bensì come divisione
democratica del valore aggiunto. In conclusione la presenza del salario nella
formula dello sfruttamento fornisce un’altra informazione essenziale, e cioè
che, qualunque sia il regime di proprietà e la forma di mercato, i lavoratori
non hanno il controllo dell’output.
In terzo luogo la formula dello sfruttamento dice che non è
necessario che il plusvalore venga consumato dai capitalisti. È sufficiente che
siano loro a decidere quanto consumarne e quanto investirne. I lavoratori
sarebbero pur sempre sfruttati, visto che le decisioni di spesa del plusvalore
resterebbero fuori della loro portata. La formula dice qualcosa sull’esistenza
di un plusvalore, non sulla maniera in cui questo viene speso. Lo sfruttatore
priva i lavoratori, non solo della libertà di scelta del modo di produrre, ma
anche della libertà di scelta del modo di usare il plusvalore (Van Parijs,
1995, p. 139).
Infine la formula, benché non dica niente sui modi di spesa
del plusvalore, dice però che esso costituisce un potenziale d’accumulazione
e di valorizzazione del capitale. Infatti il fattore di sfruttamento, in quanto
rapporto tra lavoro comandato dal prodotto netto e lavoro in esso contenuto,
rappresenta una misura del fattore d’accumulazione massimo. Il quale sarà
tanto più grande quanto più basso è il salario relativo, quanto minore è la
quota di prodotto di cui si riappropriano i lavoratori. Insomma la
possibilità dell’accumulazione è intrinseca al sistema del salario. Non
solo i lavoratori come classe accettano le catene della produzione capitalistica
sottoscrivendo un contratto di lavoro, ma accettano di lavorare al possibile
rafforzamento delle proprie catene ogni volta che subiscono una riduzione della
quota salari. Dunque la formula dello sfruttamento fa capire che l’accumulazione
del capitale, in quanto possibilità intrinseca del capitalismo, è una sua
caratteristica essenziale. Se il capitale è un rapporto di produzione, non lo
è a causa della proprietà privata dei mezzi di produzione; lo è a causa della
propria connaturata tendenza all’autovalorizzazione e all’accumulazione.
[1] Qui lo sfruttamento è riferito all’insieme dei
lavoratori, non al singolo. Se fosse definito su base individuale, il lavoratore
meno produttivo risulterebbe non essere sfruttato. Ma si assume che tutti e tre
i lavoratori siano necessari per l’adempimento dei compiti produttivi.