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Per la critica del capitalismo

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Due pagine sulla dialettica...

Stefano Garroni

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In questa contrapposizione fra scuola ricardiana e prospettiva dialettica marxiana, ciò che, di fatto, emerge è il nesso, che lega dialettica e sistematicità del conoscere.

Per comprendere, poniamoci dapprima questa domanda: che cosa significa, dal punto di vista epistemologico, la crisi economica? Una risposta -suggestiva, ma forse anche corretta- è che essa è quel no!, che interrompe il regolare, automatico svolgersi delle leggi di funzionamento del sistema economico dato; in tal senso, la crisi è un’interruzione di continuità, un punto di rottura del sistema, di discontinuità.

La scuola ricardiana -sottolineava Dobb- ha coscienza di quel no!, ma -in quanto momento di discontinuità- lo colloca fuori del sistema ed, infatti, ne ricerca le cause in “interferenze esterne”, rispetto al “libero gioco delle forze economiche”. Questo significa (anche) che nella scuola ricardiana funziona un certo modello di sapere, che è sistematico, ma in senso deduttivo-analitico; in altre parole, se è vero che la tradizione ricardiana non si accontenta di un sapere semplicemente empiristico (ed in questo senso Marx può citare, ad es., Ricardo contro Proudhon), è altresì vero che la sistematicità scientifica è pensata da essa, in modo da escludere la contraddizione, l’opposizione, il no!: si tratta, quindi, di una sistematicità costruita da enunciati, che pretendono d’essere linearmente deducibili l’uno dall’altro.

In Marx -nella dialettica-, le cose stanno altrimenti. Il no!, la contraddizione, la crisi son concepiti come appartenenti al ritmo stesso dell’«oggetto»; non nascono, dunque, da una sospensione delle leggi regolanti il sistema, ma piuttosto sono un prodotto di quelle stesse leggi. [1]

Il sistema, a cui l’epistemologia dialettica rimanda, ha la discontinuità al proprio interno, ha il no! come parte di . Se è vero che la forma sistematica ci dice la razionalità dell’«oggetto», ciò va inteso nel senso di una razionalità, che rende conto del regolare e dell’irregolare, del continuo e del discontinuo, del razionale e dell’irrazionale. Non abbiamo più a che fare, dunque, con una sistematicità deduttivo-analitica, ma sì con una sistematicità contraddittoria, dialettica appunto.

2. Non esiste la filosofia, afferma Sartre, ma le filosofie: se ne trova sempre solo una alla volta, "che sia vivente". Questa filosofia vivente

"si costituisce come espressione del movimento generale della società e, finché vive, è lei a servire da ambito culturale ai contemporanei. Quest’oggetto sconcertante si presenta ad un tempo sotto aspetti profondamente distinti di cui opera di continuo l’unificazione." (Sartre, 1963.: Il); la filosofia è "la totalizzazione del Sapere contemporaneo: il filosofo opera l’unificazione di tutte le conoscenze regolandosi su determinati schemi direttivi che traducono gli atteggiamenti e le tecniche della classe in ascesa di fronte alla sua epoca e al mondo" (Sartre, 1963: 17). La filosofia "è innanzitutto una certa maniera per la classe «in ascesa» di prendere coscienza di sé; coscienza che può essere chiara o confusa, diretta o indiretta: ai tempi della nobiltà di toga e del capitalismo mercantile, una borghesia di giuristi, di commercianti e di banchieri ha colto qualcosa di se stessa attraverso il cartesianesimo; un secolo e mezzo più tardi, nella fase primitiva dell’industrializzazione, una borghesia di fabbricanti, d’ingegneri e di scienziati si è oscuramente scoperta nell’immagine dell’uomo universale che il kantismo le proponeva." (Sartre, 1963: 17). Una "filosofia, quando è in piena virulenza, non si presenta mai come una cosa inerte, come l’unità passiva e già compiuta del Sapere; nata dal movimento sociale, è anch’essa movimento e incide sull’avvenire: questa totalizzazione concreta è insieme il progetto astratto di proseguire l’unificazione sino agli estremi limiti; sotto questo aspetto, la filosofia si caratterizza come metodo di investigazione e di spiegazione; la fiducia che ripone in se stessa e nel proprio sviluppo futuro non fa che rispecchiare le certezze della classe che la sostiene. Ogni filosofia è pratica, anche quella che sembra a tutta prima la più contemplativa; il metodo è un’arma sociale e politica: il razionalismo analitico e critico dei grandi cartesiani è loro sopravvissuto: nato dalla lotta, s’è rivolto su di essa per illuminarla; nel momento in cui la borghesia cominciava ad abbattere le istituzioni dell’ Ancien Regime, essa aggrediva i significati scaduti che tentavano di giustificarle. Più tardi ha servito il liberalismo e ha dato una dottrina alle operazioni che tentavano di realizzare «I’atomizzazione» del proletariato." (Sartre, 1963: 18a). "Così la filosofia resta efficace finche rìmane vivente la praxis che l’ha generata, che la sostiene e che essa ìllumina." (Sartre, 1963: 18b). La filosofia "dev’essere ìnsìeme totalìzzazione del sapere, metodo, Idea regolativa, arma offensiva e comunità di lìnguaggio ...questa «visione del mondo» è anche uno strumento che agisce sulle società tarlate..." (Sartre, 1963: 19). "Con la sua presenza reale, una filosofia trasforma le strutture del Sapere, suscita delle ìdee e, anche quando definisce le prospettive pratiche d’una classe sfruttata, polarìzza la cultura delle classi dirigenti e la cambia." (Sartre, 1963: 25).

Di fatto, la figura della filosofia vivente ci è parzialmente nota: già in Dobb, infatti, incontravamo la filosofia come autocoscienza di un’epoca -e questo è, senza dubbio, uno dei significati dell’espressione filosofia vivente (d’ora in avanti, FV); tuttavia, l’illustrazione, che Sartre offre di tale filosofia, ci consente di coglierne aspetti, finora non chiari e di svolgere considerazioni, che la pagina di Dobb non sollecitava. Ma procediamo nel commento.

Dunque, la FV (a) esprime il “movimento generale della società”, (b) dà la propria impronta ai diversi ambiti culturali, unificandoli così all’interno di un certo ‘tono’ (se si può usare una tale espressione), che caratterizza un’epoca, ma anche -e contemporaneamente- (g) quella filosofia si presenta “sotto aspetti profondamente distinti”.

Potremmo dire che FV dà espressione ad un modo determinato di organizzare la relazione dell’uomo con se stesso e con il mondo, dà forma ad una certa attitude [2] dell’uomo verso la propria condizione, contribuendo così a strutturare (e a dotare di senso) l’esperienza, che l’umanità storicamente fa.

Naturalmente, organizzazione, attitude, dotazione di senso non hanno nulla di arbitrario e gratuito; al contrario, costituiscono forme di vita, rese possibili (non necessarie!) da oggettive condizioni d’esistenza ed, a loro volta, esse contribuiscono a definire il quadro, entro il quale si elaboreranno faticosamente la nuova attitude, la nuova organizzazione, insomma, il nuovo senso dell’esperienza, legato all’apparire ed imporsi di nuove condizioni di vita.

Se vale quanto detto, allora è vero che FV non è una creazione primaria, in quanto presuppone l’esistenza di un’ attitude, di un’organizzazione, di un senso storici (insomma, di una forma di vita), che siano già operanti, che costituiscano già -nella pratica- l’esperienza, che l’uomo fa in un momento dato.

Ancora una volta, la filosofia è in ritardo rispetto al proprio oggetto, in quanto di esso è la coscienza, tanto che possiamo dire con E. Weil, che le categorie, nelle quali si articola il pensiero, sostanziano la consapevolezza di sé, che storicamente un’attitude va costruendosi.

Ma, appunto, la filosofia è quel pensiero, che struttura
 dal punto di vista della coscienza- una certa attitude e, dunque, una determinata forma di vita. Questo significa che la filosofia non è un sapere determinato, ma invece, sempre, un sapere totalizzante, perché nasce dalle radici profonde di un’epoca storica, perché esprime. il “movimento generale della società” e, dunque, informa di sé le varie e diverse manifestazioni, in cui si articola una forma di vita. Insomma, la filosofia è, in questo senso, una «visione del mondo», una Weltanschauung.

Ma, come abbiamo visto, FV ha struttura dialettica; il che significa che il suo andamento totalizzante non esclude, ma comprende in sé l’opposto, ovvero, la differenziazione. Ed, infatti, la pagina sartriana ci dice che “quest’oggetto sconcertante (dunque, la dialettica FV) si presenta ad un tempo sotto aspetti profondamente distinti di cui opera di continuo l’unificazione”.

Ogni filosofia -nel senso della dialettica FV- è qualcosa di attivo, di trasformatore: è, dunque, pratica. Ancora una volta, assistiamo al paradossale capovolgersi dell’opposto nel proprio opposto. Esattamente la filosofia -questa coscienza di un’epoca, che ne assicura la traduzione più raffinata sul piano formale (le sue categorie, infatti, sono l’attitude proiettata sul piano della coscienza) è, contemporaneamente, pratica, trasformatrice.

Come si vede, Sartre ripropone quel motivo, che abbiamo già trovato in Marx (ma che si rintraccia anche in Hegel) della realizzazione della filosofia; così facendo Sartre ripropone, inevitabilmente, quel senso
 tutto immanentistico- della razionalità del reale, di cui abbiamo già detto.

3. Per dare una conclusione al nostro schema o disegno sulla dialettica, son necessarie alcune puntualizzazioni. La prima delle quali è la seguente: se affermassimo la possibilità di cristallizzare la dialettica entro alcune forme ben precise e continuamente riproponentesi (le cosiddette sue leggi o forme universali), cadremmo nel paradosso -logico, non dialettico e, per questo, inaccettabile [3]- di patrocinare quella forma di pensiero, che ha accolto entro di sé la storia (dunque, il dinamismo, il cambiamento, la differenza); ma, contemporaneamente, di volerla irrigidire, fissandola in schemi, che pretendono mantenersi identici, quali che siano le diversità di primo acchito. Se cadessimo in questo errore, in realtà, riproporremmo un formalismo, che tenderebbe a ridurre le esperienze alla propria misura, piuttosto che esibire la duttilità necessaria ad esprimerne le diversità formali. Insomma, cadremmo nella contraddizione di pensare non dialetticamente la dialettica.

Affermare che esistono leggi (o forme) universali della dialettica, ancora una volta, suggerisce l’immagine di una realtà, che sta lì di fronte a noi, bell’ e fatta, con le sue leggi proprie e rispetto alla quale non abbiamo altro compito, se non di rispecchiare/tradurre nella nostra mente tale ordine e struttura obiettivi.

A questo punto l’uomo, il soggetto, sarebbe ridotto a mera passività. Esattamente nella stessa misura, in cui il mondo sarebbe segno, invece, di una oggettualità [4], comparabile all’incontrollata e irrevocabile verità religiosa oppure alla ‘positività’ del cosiddetto materialismo volgare [5]. In una parola, la dialettica sarebbe ridotta a scientismo.

Che lo scientismo sia collegato al positivismo o neo-empirismo, lo si ricava molto bene dal già citato M. Dobb, quando descrive il pensiero economico oggi dominante, individuandone quali forme caratteristiche: (a) l’applicazione rigorosa del linguaggio matematico; (b) l’accettazione solo di enunciati o grammaticali o empirici [6] e, infine, (g) il rigetto di tutti gli enunciati, che non rientrino nelle due classi precedenti, in quanto metafisici. Collocata in tale prospettiva, l’economia [7] acquisterà - o pretenderà di acquistare - l’aspetto e l’andamento di una qualunque scienza della natura [8] e di negare, quindi, “il suo carattere essenzialmente sociale e storico” [9]; la conseguenza inevitabile è che dall’orizzonte dell’economia scompaia il mondo dell’esperienza, ovvero, il fitto e complesso intreccio, dato dal rapporto - storicamente mutevole - dell’uomo con il proprio mondo sociale e naturale. Ma scomparsa l’esperienza, in questo senso, non è dubbio che scompaia anche la dialettica.

Non per caso - come ha sottolineato recentemente H. H. Holz
 , l’imporsi dello scientismo comporta, anche, l’imporsi della cosiddetta Lebensphilosophie (filosofia della vita) [10]. Se riconsideriamo, infatti, le tre forme caratteristiche dell’attuale pensiero economico, poste in luce da Dobb, vediamo che questo pensiero non nega affatto la presenza nel ragionalento economico di enunciati, che non rientrino né in (a) né in (b); più semplicemente, si limita a non considerarli scientifici, ma sì speculativi, metafisici.

Nella prospettiva dello scientismo, esiste, dunque, uno spazio per la metafisica, per lo speculativo; si riconosce che nel corpo effettivo di una scienza non compaiono solo enunciati del tipo (a) o (b); ma l’unica conseguenza che se ne trae è di non riconoscere al terzo tipo di enunciati carattere scientifico e, così, sottrarli ad ogni controllo e vincolo da parte della scienza.

Insomma, il discorso economico -per restare al nostro esempio, ma il senso dell’osservazione va, naturalmente, al di là -, in quanto scientifico, si ridurrà agli elementi ed aspetti quantificabili, matematizzabili e, dunque, particolari, parziali ed interni al dominio dell’empirico; in quanto, però, orientato a prospettive generali e non parziali, dovrà nutrirsi di enunciati metafisici, speculativi, insomma, del tipo (g), per riandare alla caratterizzazione fornitaci da Dobb e, quindi, che si sottraggono ai vincoli imposti dalla scienza.

La dialettica -in quanto critica dell’empirismo e, dunque, della convinzione che esistente significhi lo stesso che empiricamente constatabile-, si apre alla possibilità (e necessità) di formulare anche enunciati del tipo (g), ma vincolandoli contemporaneamnete alle esigenze e regole dello scientifico [11].

In questo senso si potrebbe dire che solo un pensiero economico, non irretito nelle maglie dell’empirismo, può seriamente formulare una teoria del valore e, dunque, emanciparsi dall’immediata empiricità del prezzo.

 

Bibliografia

AAVV, Lógica: en forma simple sobre lo complejo. Diccionario, Moscù 1991.

AAVV, Europäische Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften. 4 Bände, herausgegeben von H. J. Sandkühler, Meiner Verlag 1994.

M. Dobb, Economia politica e capitalismo, Torino 1974.

F. Engels, Anti-Dühring, Roma 1971.

S. Garroni, Dialettica e socialità, Roma 2001.

V. Giacché, Finalità e soggettività, Genova 1990.

G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove dell’esistenza di dio, Bari 1970.

J. Ch. Horn, in G.W. Leibniz, Lehrsätze der Philosophie. Monadologie, Würzburg 1997.

L. Kolakowski, Main Currents of Marxism. 1, Oxford 1987

G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Torino 1960.

E. Roll, Storia del pensiero economico, Boringhieri 1967.

J-P. Sartre, Critica della ragione dialettica, Milano 1963.

L. Sichirollo, La dialettica degli antichi e dei moderni. Studi su Eric Weil, Bologna 1997.

F. Valentini, Soluzioni hegeliane, Milano 2001.

E. Weil, Logica della filosofia, Bologna 1985.


[1] Come si ricava anche da L. Kolakowski, 1978: 57, l’intento della dialettica di Hegel è ritematizzare il contingente, in modo che non costituisca più un impedimento al sistema e, contemporaneamente, riconoscerlo, in modo da ottenere un sistema, che esprima la varietà e diversità del reale. Utile anche J. Ch. Horn che -nella sua “Introduzione” a G.W. Leibniz, 1997: VI- scrive: “un principio universale (Weltprinzip) è tale, che si conserva ed opera non nonostante, ma mediante le sofferenze dell’umanità e, dunque, mediante i fatti. Certamente Vico ha fondato la filosofia della storia sul principio verum et factum converturtur; ma questo significa solo che i fatti storici -anche i più spaventosi- servono la verità ...”.

[2] Uso questo termine (attitude=atteggiamento) esattamente allo scopo di richiamare l’interpretazione, che della dialettica fornisce E. Weil, del quale ricordo Logique de la philosophie - uscito a Parigi nel 1950 e, in edizione italiana, nel 1985 presso l’editrice Il Mulino-; e sul quale cito il recente e importante Soluzioni hegeliane di F. Valentini, pubblicato a Milano nel 2001, nonché La dialettica degli antichi e dei moderni. Studi su Eric Weil di L. Sichirollo, pubblicato a Bologna nel 1997.

[3] Su questi temi è utile Lógica: en forma simple sobre lo complejo. Diccionario, scritto dai sovietici A. Guétmanova, M. Panov, V. Petrov e tradotto in spagnolo nel 1991. Si tratta di un documento particolarmente interessante dell’alto livello scientifico, che la cultura divulgativa sovietica seppe raggiungere.

[4] Uso questo termine, distinguendolo da «oggettività», per suggerire una dimensione reificata, dunque, inesplicabile, gratuita e indiscutibile; dimensione nettamente distinta dall’«oggettività», i cui contorni (non irrevocabili) sono invece definiti storicamente della scienze.

[5] Si ricordi il grande rilievo, che Lukàcs dava alla polemica hegeliana contro la «positività», nello stesso momento in cui il marxista ungherese sottolineava l’acuto e largo interesse di Hegel per il pensiero economico (G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, Torino 1960).

[6] Ovviamente, con «enunciato grammaticale» intendo quell’enunciato, che parla delle regole caratterizzanti un certo ambito; con «enunciato empirico», invece, intendo un asserto, di cui possa esser fornito l’equivalente empirico, appunto.

[7] E in generale ciò, che la lingua inglese indica con il termine Morals.

[8] Questo è un lato fondamentale dello scientismo.

[9] E. Roll, 1967: 8.

[10] Cf. Europäische Enzyklopädie zu Philosophie und Wissenschaften, 1994, vol.3: 393.

[11] Nel senso in cui Hegel e Marx parlavano di Wissenschaft, in contrapposizione ad Einzelwissenschaft.