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Tendenze della competizione globale

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Pablo Ghigliani
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Ricercatore Istituto studi sociali de L’AIA

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Crisi nella periferia e movimento dei lavoratori: il collasso argentino

Pablo Ghigliani

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Come segnala Katz, il pagamento di interessi sul debito “hanno triplicato i costi amministrativi del governo, rappresentano fondi sei volte maggiori della previdenza sociale e 23 volte più risorse dei piani di occupazione [1].”

I trasferimenti di reddito ai quali alludiamo sono multipli. Tra questi, dobbiamo menzionare il programma di privatizzazioni a prezzi ridicoli e con generose concessioni tariffarie, l’esistenza di un sistema fiscale assolutamente regressivo, la persistenza di evasione fiscale da parte dei grandi capitalisti per circa 20.000 milioni di dollari annui, e la perdita di altri 4.000 milioni all’anno a causa dell’eliminazione dei contributi padronali al sistema di previdenza sociale [2].

Infine, l’establishment ha spiegato la crisi con una sfortunata combinazione di circostanze avverse per l’esportazione: il ribasso dei prezzi, la caduta della domanda brasiliana, e il rialzo del prezzo del dollaro che ha rivalutato la moneta argentina deteriorando, quindi, la competitività dell’economia [3].

L’importanza congiunturale di questi fattori non può essere negata però essi non sono una novità per l’Argentina, e pertanto non possono spiegare una recessione tanto prolungata. Per di più, essi alimentano il mito “esportatore”. Nel momento di maggior crescita economica del decennio, tra il 1991 e il 1994, le esportazioni avevano un peso limitato e il deficit della bilancia commerciale era pronunciato. Tra il 1991 e il 1997, mentre le esportazioni aumentarono di due volte, le importazioni aumentarono sette volte. Nell’insieme, esse rappresentano meno del 10% del Pil per cui la loro capacità di influire sull’economia argentina è limitata. Per di più, nel primo ciclo di espansione economica (1991-1994) la fluttuazione della domanda brasiliana aveva influito sulle esportazioni argentine incidendo sulla sua scarsa performance. E nel secondo ciclo di espansione, nonostante il graduale emergere delle difficoltà menzionate, l’aumento delle esportazioni fu rapido e significativo. Pertanto, la congiuntura ha annullato l’effetto anticiclico che le esportazioni avrebbero potuto avere a condizioni più favorevoli, però di per sè non può spiegare la crisi.

La critica anti-liberale, da parte sua, ha fatto della “convertibilità” uno dei suoi obiettivi favoriti [4]. Si tratta di una spiegazione semplice. Da un lato, a causa del legame col prezzo del dollaro, la sopravalutazione della divisa argentina ha reso più care le esportazioni e provocato difficoltà nella bilancia commerciale. Dall’altro, rinunciando per legge alla possibilità di implementare una politica monetaria anticiclica, lo Stato è rimasto senza risposte di fronte alla recessione o alla crisi del sistema finanziario.

Al di là del mito “esportatore”, proprio anche di questa tesi, il problema è che, di nuovo, prima si identifica un fenomeno, in questo caso una politica monetaria, e poi si passa in rivista la sequenza dei disequilibri che esso genera facendola passare per una spiegazione. In realtà il fenomeno identificato serve solo a capire le caratteristiche assunte dalla crisi quando essa si sviluppa. Niente di più, niente di meno. Tanto il vincolo con una divisa forte (la convertibilità o la dollarizzazione) quanto la libera fluttuazione dei cambi sono due maniere per rinunciare alla sovranità monetaria e alla esistenza di forme intermedie di regolazione del tipo di cambio, che è un prodotto delle esigenze e delle pressioni del capitale finanziario. Mentre in Argentina la adozione della convertibilità sarebbe stata l’uscita dalla crisi iperinflazionistica del 1989-90 però la colpevole della crisi attuale, nell’Ecuador la combinazione di svalutazione e dollarizzazione sarebbe stata la soluzione della sua crisi [5]. Però in realtà nessuna alternativa monetaria ha protetto la periferia, come dimostrato dai casi messicano, asiatico, brasiliano, russo, ecuadoriano, turco e argentino. Ma non è neanche stata l’unica causa dei suoi disastri.

Vi sono anche coloro che sottolineano che la causa della crisi risiede nella esistenza di contraddizioni interne al blocco dominante. Questo punto di vista identifica due gruppi con progetti opposti che differenziano gli interessi del capitale locale da quelli del capitale straniero. Questa frattura spiegherebbe le dispute attorno ai progetti di dollarizzazione e svalutazione che si sono risolte per adesso con l’abbandono della convertibilità e la conseguente svalutazione del peso [6]. Questi autori scoprono che dal 1995, i gruppi locali incominciano a vendere le loro partecipazioni azionarie nelle imprese privatizzate al capitale straniero, col quale si era inizialmente associato. Così ritorna la eterogeneità e la lotta entro coloro che sono proprietari di attività fisse (il capitale straniero) e la borghesia locale che colloca il denaro proveniente da tali vendite nel circuito finanziario internazionale. Per i primi, la dollarizzazione avrebbe implicato il mantenimento del valore delle loro attività e la possibilità di continuare con la remissione di dollari a buon mercato alle case madri. La svalutazione invece avrebbe beneficiato i secondi per tre motivi: perché i dollari provenienti dalla vendita di azioni delle imprese privatizzate sono stati collocati nel circuito finanziario internazionale; perché queste divise possono essere facilmente reinvestite approfittando della valorizzazione di attività fisse di numerose imprese indebitate; e perché sono proprietari di imprese esportatrici che hanno aumentato la loro competitività.

Il problema appare quando si attribuisce a questa divisione lo stato di causa. Pare più adeguato parlare di strategie differenti di fronte ad una crisi già incominciata -il suo inizio coincide con una forte crisi prodotta dal disastro messicano- dato che la complessità dell’articolazione degli affari dei capitalisti rende difficile questa separazione in maniera tanto netta. D’altro lato, mentre appare evidente che la svalutazione favorisce in linea di principio le esportazioni, l’alto indebitamento con l’estero in dollari della maggioranza delle imprese e la forte dipendenza della produzione locale dalla importazione di investimenti, di beni intermedi e di macchinari, fa sì che i suoi effetti siano contradditori. Questi esempi potrebbero essere moltiplicati. Per di più questo tipo di tensioni si manifestano in maniera classica quando cade il tasso di profitto e si acuisce la lotta per la sopravvivenza. Ancora più importante, entrambe le frazioni mantengono intatta la loro convergenza riguardo la necessità di approfondire la pressione fiscale, di andare avanti con la riforma degli stati provinciali, e soprattutto di precarizzare sempre di più le condizioni del lavoro.

All’interno della sinistra ci sono state tre spiegazioni comuni. La più semplice dà la colpa al FMI, alla banca Mondiale o al debito con l’estero13. Questa è una spiegazione insufficiente e congiunturale che alimenta l’illusione che si possano evitare le crisi con giuste politiche economiche o se si mette fine alle pratiche usuraie dell’imperialismo; essa ignora così le tendenze insite nel capitalismo.

In secondo luogo vi è la spiegazione che attribuisce la crisi alla depressione del mercato interno, causata dalla caduta della domanda dei settori popolari. La distribuzione regressiva del reddito, i crescenti indici di povertà, l’aumento della disoccupazione, il basso livello salariale, sono i suoi indicatori preferiti. Tuttavia le critiche delle teorie sottoconsumiste sono ben conosciute, e come è stato segnalato, “per quanto riguarda specificamente il ciclo economico in Argentina, non si vede una caduta delle vendite dei prodotti di consumo (beni non durevoli) prima dell’inizio delle due recessioni”  [7].

Infine, vi sono coloro che danno la colpa ai movimenti del capitale finanziario e alla speculazione. È indubitabile che il capitale finanziario abbia raggiunto un grado di autonomia molto accentuato e che esistano crisi finanziarie relativamente indipendenti che influiscono sulla sfera produttiva. Però la profondità della crisi della produzione in Argentina non può essere attribuita ad un effetto derivato dalla speculazione. È una crisi nella quale c’è in gioco la capacità del capitale di ricreare sia le condizioni che permettono la produzione e realizzazione del plusvalore che la marcia dell’accumulazione. E non vi è produzione e realizzazione di plusvalore nel sistema finanziario perché non c’è valorizzazione del capitale indipendentemente dalla produzione. Al di là del grado di autonomia raggiunto dal capitale finanziario, tale capacità dipende sempre dalla generazione e appropriazione del plusvalore prodotto dai lavoratori da parte della classe dominante. È in questa dinamica di produzione e appropriazione del plusvalore prodotto dai lavoratori che si debbono cercare le cause delle crisi capitaliste. È questa dinamica che conduce, attraverso le innovazioni tecnologiche, all’acuirsi delle contraddizioni inerenti al capitalismo tra la quantità di valore prodotto e il numero crescente di valori d’uso nei quali tale valore si oggettivizza, ciò che si ripercuote negativamente sul tasso di profitto. Questo processo conduce ad un aumento della ‘fame di plusvalore’ che prende forme sempre più brutali nei paesi tecnologicamente arretrati e che si traduce nell’aumento dello sfruttamento della classe operaia [8]. È giunto quindi il momento di analizzare le ripercussioni del processo che abbiamo analizzato sui lavoratori.

 

6. L’offensiva contro il lavoro

L’aumento della disoccupazione è stato il fenomeno più visibile e d’impatto dei primi anni ’90. Se nel 1991 la disoccupazione riguardava il 6% della popolazione economicamente attiva (PEA), nel 1994 questo tassoera raddoppiato. Se inizialmente questo aumento non ha realizzato un aumento degli indici di povertà, verso la metà degli anni ’90 la relazione tra disoccupazione, caduta del salario reale, e povertà era diventa evidente. La seguente tabella sintetizza un insieme di indicatori che mettono in evidenza la grandezza del deterioramento generale delle condizioni di vita:

Gli alti indici di disoccupazione furono la conseguenza di una serie di fattori di cui i più importanti sono la riduzione dell’occupazione provocata dalle privatizzazioni (in nessun caso minore del 40%), la ristrutturazione delle imprese, la chiusura di migliaia di piccole e medie imprese, e la diminuzione dell’occupazione statale.

La disoccupazione -assieme alla sottooccupazione e al deterioramento salariale- e la concomitante ricerca dell’impiego si sono tradotte in un’enorme pressione sul mercato del lavoro. Nel 1999, il 40% della popolazione economicamente attiva era in questa situazione. Questa minaccia pendente sul lavoratore occupato ha facilitato la sua disciplina, sottomissione e flessibilità permettendo il successo dell’offensiva capitalistica che si è espressa in un ribasso dei salari, in un incremento dei ritmi e delle ore di lavoro, sul piano legislativo con contenuti di precarizzazione e nella flessibilizzazione dei processi di lavoro.

Una delle espressioni più chiare è stata l’evoluzione della distribuzione del reddito che ha evidenziato indirettamente l’incremento della appropriazione di plusvalore da parte del capitale. Questa distribuzione diseguale rende manifesta anche la poca incidenza che ha il salario come componente della domanda nel mercato interno sotto le nuove condizioni di accumulazione. In questo contesto, il reddito diventa sempre più regressivo. Mentre nel 1975 ai salariati andava il 43% del totale del reddito, nella situazione menzionata la percentuale è scesa al 20%.

Questo processo ha trovato una sua espressione anche sul piano legale e legislativo col quale i capitalisti hanno perseguito tre obiettivi fondamentali. Primo, la diminuzione dei costi del lavoro attraverso le riduzioni dei contributi padronali alla previdenza sociale e ai costi di licenziamenti e di infortunistica. Secondo, la flessibilizzazione della distribuzione del tempo di lavoro. Terzo, la decentralizzazione dei contratti collettivi e l’erosione della resistenza sindacale.


[1] Claudio Katz (2001b), “La crisis económica argentina: interpretaciones y propuestas”, in Sociedade de Economia Politica, Brasil, junio 2001.

[2] Becerra, L. - Bonnet, A. - Florido, A. - Gigliani, G. - Katz, C. - Marchini, J. - Teszkiewicz, A. (2002): “Argentina: propuesta para el debate de un grupo de economistas”, 30 de enero.

[3] Joseph Stiglitz, “Lecciones del desastre argentino”, El grano de arena, Correo de información ATTAC n°124, 23-2-2002.

[4] Paul Krugman, “Don’t Laugh at Me, Argentina. Serious lessons from a silly crisis”, July, 1999; Gerard Coffey, “Argentina: poltical contagion poses bigest risk for U.S.”, January, 2002; Mark Weisbrot, “How the IMF Messed Up Argentina”, The Washington Post, 3-1-2002; Robert Kuttner “EE.UU. exacerbó el colapso económico de Argentina”, The Boston Globe,
7-1-2002.

[5] Come sottolinea un articolo recente, la dollarizzazione continua ad essere un’opzione in Argentina. “Argentines’ love of dollar threatens economic fortune”, Financial Times, 21-2-2002.

[6] Daniel Azpiazu - Eduardo Basualdo (1999), “El papel de las privatizaciones en el proceso de concentración y centralización económica”, Documento de Trabajo, nª 6, Flacso; Eduardo Basualdo (2001), “Entre la dolarización y la devaluación: la crisis de la Convertibilidad en la Argentina”, en Nac&Pop.

[7] Rolando Astarita (2000), “Ciclos económicos en la Argentina de los ’90”, in Revista Herramienta, nª 16. Per la critica delle teorie sottoconsumistiche si veda Guglielmo Carchedi (2001), op. cit., “Frontiers of Political Economy” (1991), London, Verso.

[8] Michel Husson, “Contra el fetichismo financiero”, Razòn y Revoluciòn, nª 5, 1999. Astarita (2000), op.cit., ha suggerito anche che non c’è una relazione diretta tra il flusso del capitale estero e le crisi argentine degli anni 90. Per quanto riguarda la dinamica della crisi capitalista, si veda Carchedi (1991 - 2001) e (1999): “A Missed Opportunity: Orthodox Versus Marxist Crises Theories”, en Historical Materialism, n º 4.