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La transizione difficile

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Annamaria Crescimanni
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Professoressa di Teoria dell’inferenza Statistica, Fac. di Scienze Statistiche, Università “La Sapienza”, Roma; membro del Comitato Scientifico di CESTES-PROTEO

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L’integrazione europea e l’organizzazione scolastica e formativa

Annamaria Crescimanni

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Insomma un giovane fa un percorso di studio che inizia ormai intorno ai 3- 4 anni, arriva a 19 anni all’Università, ma se si accontenterà del corso triennale, non sarà ritenuto in grado di soddisfare bisogni culturali, visto che si è deciso che di cultura si può parlare a partire dal secondo ciclo specialistico.

Pazienza se, come si prevede, solo pochi giovani accederanno alle lauree specialistiche: del resto il sapere- alto è per le èlite. Ancora più difficile accedere ai Master, piuttosto costosi, a meno che non si vinca una borsa di studio, ulteriormente più difficile accedere ai corsi di dottorato, questi retribuiti.

La parola d’ordine proposta dal Ministro Berlinguer, ma probabilmente coniata nel contesto della commissione europea dell’istruzione (e infatti usata tutt’ora), “sapere per saper fare” sintetizza un concetto fondamentale, di per sé condivisibile. Indubbiamente non si può negare che lo scopo finale è questo, il problema è nell’equilibrio e nell’ordine dato a questa realizzazione.

Il percorso della modificazione della funzione docente non è ancora terminato e speriamo che qualcuno, in uno dei paesi della comunità, abbia la voglia e l’autorevolezza di riporre la questione di fondo, sottintesa nell’azione di formazione: formare nell’interesse di chi? Del giovane e dell’intera società o del settore produttivo?

Del resto nelle raccomandazioni ufficiali non si invita certo ad un impoverimento dell’offerta didattica, questa è stata però anche la logica conseguenza dei nuovi obiettivi didattici.

Certo meraviglia come docenti universitari che, anche esagerando, non avrebbero mai consentito di riconoscersi in un ruolo di formazione direttamente utile, tanto è vero che si erano nella stragrande maggioranza rifiutati di applicare la sostanza della legge del 1990 che istituiva i Diplomi Universitari, ora abbiano collaborato o almeno attuato senza opporre resistenza, una riforma, cui in via di principio e in stragrande maggioranza, si dichiaravano totalmente alieni.

Meraviglia che nelle loro discussioni gli addetti ai lavori, i docenti, nel richiamarsi alla parola d’ordine “saper per saper fare”, esaltati dal fare si vadano dimenticando (le eccezioni contano poco) che per saper fare bene si deve aver capito le ragioni profonde dell’azione, si siano dimenticati che l’istruzione diventa cultura solo se lo studente, con l’aiuto del docente, riesce ad organizzare in un insieme coerente le informazioni accumulate.

Eppure loro sanno, o sapevano, che la scuola ha un fine concreto ma di una concretezza ideale e non meccanica e che questo deve valere anche per le scuole che intendono produrre una formazione tecnica o direttamente professionale.

Perché occorre abituare i giovani alla critica, all’analisi e alla sintesi; perché la scuola deve preparare i nuovi “intellettuali”.

Questo comunque non è lo scopo che unisce i governi degli ultimi tempi e, che lo si voglia o no, non è più lo scopo dei professori delle scuole e delle università.

Ancor meglio ce lo prospetta il testo della legge del febbraio 2002, che delega al governo la riforma dei cicli scolastici e che prefigura che nel sistema della formazione professionale, a partire dai 15 anni e fino ai 18, il giovane studente (- lavoratore) alterni periodi nella scuola a periodi di lavoro. Certo alla fine di questo lungo tirocinio sarà pronto per il lavoro, senza perdita di tempo e denaro da parte dell’azienda. Fosse questo lo scopo finale?

 

4. L’offerta didattica dei diversi paesi della Comunità europea

Non vi sono dubbi che una entità statuale si riconosce anche nell’omogeneità della struttura scolastica e che l’offerta didattica in Europa non lo è ancora, è quindi indiscutibilmente necessaria una politica volta alla sua omogeneizzazione. Per convincersene basta leggere il rapporto “Le cifre chiave dell’istruzione in Europa” disponibile sul sito web eurydice.org. Eurydice, nata nel 1980 è parte di Socrates e tra l’altro gestisce la banca dati Eurybase che, contenendo informazioni sui sistemi educativi dei paesi interessati (30, con la Turchia), consente di verificarne le diversità.

Per quanto riguarda la struttura didattica dell’istruzione nel suo insieme non si tratta di differenze sostanziali tanto è vero che il riferimento alla Classificazione Internazionale Tipo dell’Educazione (CITE) dell’Unesco consente la riconduzione ad un percorso equivalente che prevede: CITE 0= pre- primaria, CITE 1= primaria, CITE 2= secondaria, CITE 3= secondaria superiore, CITE 4= post- secondaria, CITE 5= superiore di 1° livello, CITE 6= superiore di 2° livello, CITE 7= superiore avanzato.

Quanti sono giovani della cui formazione stiamo ragionando? A di là dei valori assoluti, tenendo anche conto del fatto che il tasso di natalità in Europa è in diminuzione a partire dagli anni 60, i dati mostrano una positiva tendenza al prolungamento del tempo degli studi, oltre la scuola dell’obbligo.

Nella comunità europea, alunni e studenti sono il 22% della popolazione totale (83 milioni nel ’97) e il 57% dei giovani al di sotto dei trent’anni, qualche cosa di più se si guarda all’insieme dei 30 paesi coinvolti. Il 55% di essi sono nell’età dell’obbligo scolastico, il 15% nell’istruzione superiore (università, politecnici...).

È il caso di notare che l’Italia che è tra i paesi con le più alte percentuali di iscritti ai corsi universitari, è però anche tra quelli con le più basse percentuali di laureati, sicuramente minori del necessario. Non sono gli unici dati negativi per il nostro Paese, i nostri valori sono spesso sotto la media europea e questo testimonia della necessità di affrontare seriamente il problema, senza crogiolarsi nell’enumerare i grandi risultati dei pochi che raggiungono la formazione eccelsa, perché la maggioranza di loro la hanno raggiunta per meriti individuali.

Ad esempio, sempre nel 1997 in media solo il 31%, ma oltre 40 per Italia ( anche Lussemburgo e Portogallo) dei giovani tra i 20 e 29 anni non era in possesso di diploma di istruzione secondaria superiore (la percentuale era di 53 per le persone tra i 50 e i 59 anni).

Senza dimenticare che questi giovani che abbandonano lo studio non troveranno facilmente un’attività lavorativa.

Quasi il 25% dei giovani europei che hanno lasciato gli studi e cercano un lavoro, non lo trovano. Nella distribuzione dei valori, Danimarca, Paesi Bassi e Austria hanno quelli più favorevoli, viceversa Francia, Italia, Lussemburgo e Grecia i peggiori.

5. Istruzione scolastica

Per la maggioranza dei paesi la scuola primaria obbligatoria comincia a sei anni e costituisce un livello separato, anche se formalmente in alcuni casi non vi è distinzione tra ciclo primario e secondario inferiore e in altri vi è addirittura un unico ciclo complessivo. La sua durata va da un minimo di quattro anni (Austria e Germania) a un massimo di sei (la maggioranza).

Intorno ai dieci anni si frequenta un anno terminale di istruzione primaria e si ha comunque un incremento del numero di ore di lezione.

Anche le materie obbligatorie sono in genere le stesse in tutti paesi, anche se il tempo dedicato può essere diverso. Anche in questo caso possiamo fare una nota per l’Italia. Spesso si lancia l’allarme per la poca riuscita dei nostri giovani nelle gare di matematica, bene occorre sapere che l’Italia è tra quanti dedicano meno tempo ad essa, sin dal tempo della scuola elementare.

Restano aperte alcune questioni perché manca una soluzione di netta prevalenza. Uno dei temi riguarda l’opportunità o meno della ripetizione dell’anno scolastico per gli alunni in difficoltà. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, la prevedono come fatto eccezionale (e ogni anno qualcuno ne chiede un uso più generalizzato), in Francia e Spagna la ripetizione di un anno si può avere solo al termine del ciclo, mentre in Gran Bretagna, Svezia e Norvegia vige la promozione automatica.

Una seconda questione che ha soluzioni diverse, è quello dell’utilizzo di esami formali per il controllo dell’efficacia didattica, alcuni paesi prevedono un esame di controllo ogni due anni, altri solo alla fine dei cicli, altri ancora, anche in questo caso, non sempre.

L’obbligo scolastico non termina alla stessa età. L’Italia sta per uniformarsi (almeno sembra) ai paesi in cui termina a 15 anni, anche se la maggioranza conclude a 16.

Non sempre la fine della scuola dell’obbligo coincide con il termine del ciclo secondario inferiore. Mentre anche la secondaria inferiore e comunque l’organizzazione dell’istruzione sino ai 13 anni è piuttosto simile, lo stesso non vale per la secondaria superiore.

In questo caso le differenze nell’organizzazione scolastica, valgono sia per quanto riguarda il monte ore, sia le materie di studio, dovendo l’offerta didattica coprire le necessità di diversi indirizzi di studio, si esaltano anche le differenze di impostazione generale tra i paesi.

Una prima ramificazione fondamentale, presente ovunque, distingue tra indirizzo orientato all’accesso alla istruzione superiore (indirizzo generale) e indirizzo orientato professionalmente (anche questo però consente ugualmente di proseguire gli studi).

Nella maggioranza dei casi (tra cui l’Italia) a prevalere è la frequenza dell’indirizzo professionale. Come si comprende a questo livello di studio non si tratta più di differenze nei tempi di studio delle stesse materie, ma di curricoli anche totalmente diversi.

Profondamente diversi possono comunque essere anche i corsi di studio interni all’indirizzo generale.

Una particolarità rilevante, riguarda la non obbligatorietà delle materie. Il caso estremo si ha nel Regno Unito e in Irlanda dove gli studenti, a partire da sedici anni, non hanno materie obbligatorie, mentre in altri paesi i giovani hanno delle ampie opzioni (Belgio, Germania, Olanda), totalmente assenti in Grecia e Italia. Si ricorderà lo sconcerto e la polemica prodotta (più per l’improvvisazione che per la sostanza della novità) dall’utilizzo dello strumento in un documento di riforma.

Pur differenziandosi la struttura organizzativa, la scuola secondaria in generale termina al compimento del diciannovesimo anno di età.

Indubbiamente la commissione europea per l’istruzione, pur rispettando le specificità locali, dovrà trovare dei criteri per uniformare di più l’offerta didattica in tema di scuola media superiore.

 

6. Istruzione superiore

Gli studenti iscritti a corsi di istruzione superiore sono 12 milioni, il loro numero è in aumento in Europa e nei singoli paesi; ancor più in termini relativi tenendo conto del calo demografico, globalmente è raddoppiato negli ultimi 30 anni.

Solo in Grecia le decisioni relative ai limiti di posti e criteri di selezione vengono prese a livello centrale. Negli altri paesi queste sono decise dai singoli istituti, eventualmente all’interno di vincoli decisi centralmente, questo ora, con la riforma universitaria, succede anche in Italia, mentre Belgio e a Austria non pongono vincoli al libero accesso.

Pur avendo l’Unione Europea attivato delle forme di sostegno alla mobilità degli studenti (Erasmus) e benché al successo di questa azione sia data grande enfasi, pubblicitaria, solo il 2% di essi studia per un periodo breve, in un altro stato membro o in un paese della comunità allargata. Una indagine apposita, della stessa comunità, ha evidenziato che a goderne sono prevalentemente i giovani di ceto più elevato.

Nell’Unione Europea, il 22% dei giovani tra i 30 e 34 anni è in possesso di un diploma di istruzione superiore. Ciò non vale all’interno dei diversi paesi: in Belgio e Svezia quasi il 30%, Italia a Austria e Portogallo meno del 15. Come già detto, almeno per quanto riguarda l’Italia, al di sotto delle esigenze del paese, anche se potremo attenderci a breve termine un qualche miglioramento del dato, visto che hanno cominciato ad essere istituiti, in modo generalizzato a partire dal 1996, i corsi universitari triennali (CITE 5).

7. La politica europea per l’istruzione-formazione superiore

Non ci sono dubbi che se si vorranno uniformare i titoli di studio, pur salvaguardando le specificità locali, occorrerà occuparsi della scuola media superiore Bisogna però riconoscere che, per quanto riguarda l’istruzione superiore, vi è già stata una consistente attiva.

Rispetto all’Università, la politica comunitaria viene enfatizzata con la dichiarazione congiunta dei ministri competenti di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, avvenuta a Parigi, il 25 maggio del 1998, in occasione della celebrazione della fondazione dell’Università della Sorbona.

Nell’anno successivo, il 1999, è stata sottoscritta una nuova dichiarazione a Bologna. Questa volta firmata dai 30 paesi associati in una comune politica per l’istruzione.

La Comunità europea rivendica la necessità che: “il sistema europeo dell’istruzione superiore acquisti nel mondo un grado di attrazione corrispondente alla nostra straordinaria tradizione scientifica e culturale”.

In particolare nella prima di queste dichiarazioni, intitolata “L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa”, risulta subito esplicita la nuova filosofia.

Testualmente si dice: “Noi dobbiamo ai nostri studenti ed alle nostre società in generale un sistema di istruzione superiore nel quale a ciascuno siano offerte le migliori opportunità per individuare il proprio campo d’eccellenza”.

Spesso il richiamo agli interessi dei singoli costituisce una strada per porre in secondo piano, se non negare, gli interessi collettivi. Anche in questo caso sembra proprio che si voglia soddisfare un interesse di parte.

Si nega l’opportunità di una definita formazione comune, privilegiandone una indicata come meno mirata, proprio perché si riconosce che ciò può rendere più facile la mobilità (ossia lo spostamento) dello studente, futuro lavoratore.

La formazione diviene “flessibile”, perché in prospettiva deve assicurare un rapido adattamento del lavoratore all’eventuale mutare delle esigenze del mercato produttivo.

Indubbiamente in questo modo si soddisferà anche il suo bisogno di lavoro, ma soprattutto si potrà assicurare una pronta adesione alle convenienze del datore di lavoro. E infatti, proprio per favorire la mobilità del lavoratore si decide anche che, tra i compiti delle università, debba esserci quello dell’istruzione permanente: istruzione lungo tutto l’arco della vita.

Questo del resto viene detto esplicitamente in diverse riunioni del Consiglio europeo: “promuovere la mobilità è uno degli obiettivi fondamentali delle disposizioni del trattato relative all’istruzione, alla formazione professionale e alla gioventù”.

Quello che si vuole costruire è un sistema universitario unico, in funzione di un unico mercato del lavoro, che in quanto tale assicuri, per le forze imprenditoriali, un agevole utilizzo di forza lavoro omogeneamente, ma non troppo specificatamente formata, in funzione di ciò occorre “... sviluppare un quadro per l’insegnamento e l’apprendimento che rafforzi la mobilità” prima dello studente, poi del lavoratore.

È nella dichiarazione di Bologna che, in funzione di ciò, viene concordata una strategia comune ed un piano di riforma organico che prevede la riorganizzazione dello studio universitario secondo i due cicli principali.

Il primo, in genere di durata triennale, costituente titolo di qualificazione nel mercato del lavoro e anche titolo per l’accesso al secondo livello, specialistico e in genere di durata biennale. A questi potranno seguire corsi di dottorato e Master, ossia corsi più o meno brevi su argomenti specifici.

Inutile dire che, questa struttura organizzativa, allungando fortemente i tempi per la formazione “eccellente” e quindi anche il suo costo, ne precluderà l’accesso a molti studenti.

Una successiva riunione dei ministri dell’istruzione superiore a Praga e alcune riunioni del Consiglio europeo, hanno attivato specifici programmi di supporto e finanziamento locale finalizzati alla realizzazione delle scelte politiche prese.

Come per la scuola, anche per l’università, a partire dall’esigenza di rafforzare le politiche in materia di istruzione e formazione permanente e di mobilità, si introduce, in realtà in modo generalizzato, il ricorso all’esperienza delle imprese, del mondo dell’istruzione e delle parti sociali.

In questo modo ci si propone di “rendere l’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”.

Al di là delle parole, come in questo caso, a volte un po’ presuntuose e roboanti, globalmente rispetto all’istruzione si dà l’avvio ad una riforma dei cicli scolastici e della struttura universitaria nettamente orientata agli interessi del mondo imprenditoriale e capitalistico - forza ispiratrice dell’intero disegno riformatore - cui per la prima volta almeno in Italia, viene riconosciuto al riguardo un esplicito ruolo decisionale e di controllo, che comprende l’attivazione e l’orientamento disciplinare dei corsi universitari, nonché la valutazione dell’attività di docenza.

In coerenza con ciò, in Italia ci si propone di trasformare gli operatori del mondo dell’istruzione in manager e le strutture scolastiche e universitarie in aziende; nel contempo si aumenta drasticamente il costo dell’istruzione a diretto carico delle famiglie, attraverso cospicui aumenti delle tasse universitarie.