Insomma un giovane fa un percorso di studio che inizia ormai
intorno ai 3- 4 anni, arriva a 19 anni all’Università, ma se si accontenterà
del corso triennale, non sarà ritenuto in grado di soddisfare bisogni
culturali, visto che si è deciso che di cultura si può parlare a partire dal
secondo ciclo specialistico.
Pazienza se, come si prevede, solo pochi giovani accederanno
alle lauree specialistiche: del resto il sapere- alto è per le èlite. Ancora
più difficile accedere ai Master, piuttosto costosi, a meno che non si vinca
una borsa di studio, ulteriormente più difficile accedere ai corsi di
dottorato, questi retribuiti.
La parola d’ordine proposta dal Ministro Berlinguer, ma
probabilmente coniata nel contesto della commissione europea dell’istruzione
(e infatti usata tutt’ora), “sapere per saper fare” sintetizza un concetto
fondamentale, di per sé condivisibile. Indubbiamente non si può negare che lo
scopo finale è questo, il problema è nell’equilibrio e nell’ordine dato a
questa realizzazione.
Il percorso della modificazione della funzione docente non è
ancora terminato e speriamo che qualcuno, in uno dei paesi della comunità,
abbia la voglia e l’autorevolezza di riporre la questione di fondo, sottintesa
nell’azione di formazione: formare nell’interesse di chi? Del giovane e dell’intera
società o del settore produttivo?
Del resto nelle raccomandazioni ufficiali non si invita certo
ad un impoverimento dell’offerta didattica, questa è stata però anche la
logica conseguenza dei nuovi obiettivi didattici.
Certo meraviglia come docenti universitari che, anche
esagerando, non avrebbero mai consentito di riconoscersi in un ruolo di
formazione direttamente utile, tanto è vero che si erano nella stragrande
maggioranza rifiutati di applicare la sostanza della legge del 1990 che
istituiva i Diplomi Universitari, ora abbiano collaborato o almeno attuato senza
opporre resistenza, una riforma, cui in via di principio e in stragrande
maggioranza, si dichiaravano totalmente alieni.
Meraviglia che nelle loro discussioni gli addetti ai lavori,
i docenti, nel richiamarsi alla parola d’ordine “saper per saper fare”,
esaltati dal fare si vadano dimenticando (le eccezioni contano poco) che
per saper fare bene si deve aver capito le ragioni profonde dell’azione, si
siano dimenticati che l’istruzione diventa cultura solo se lo studente, con l’aiuto
del docente, riesce ad organizzare in un insieme coerente le informazioni
accumulate.
Eppure loro sanno, o sapevano, che la scuola ha un fine
concreto ma di una concretezza ideale e non meccanica e che questo deve valere
anche per le scuole che intendono produrre una formazione tecnica o direttamente
professionale.
Perché occorre abituare i giovani alla critica, all’analisi
e alla sintesi; perché la scuola deve preparare i nuovi “intellettuali”.
Questo comunque non è lo scopo che unisce i governi degli
ultimi tempi e, che lo si voglia o no, non è più lo scopo dei professori delle
scuole e delle università.
Ancor meglio ce lo prospetta il testo della legge del
febbraio 2002, che delega al governo la riforma dei cicli scolastici e che
prefigura che nel sistema della formazione professionale, a partire dai 15 anni
e fino ai 18, il giovane studente (- lavoratore) alterni periodi nella scuola a
periodi di lavoro. Certo alla fine di questo lungo tirocinio sarà pronto per il
lavoro, senza perdita di tempo e denaro da parte dell’azienda. Fosse questo lo
scopo finale?
4. L’offerta didattica dei diversi paesi della Comunità europea
Non vi sono dubbi che una entità statuale si riconosce anche
nell’omogeneità della struttura scolastica e che l’offerta didattica in
Europa non lo è ancora, è quindi indiscutibilmente necessaria una politica
volta alla sua omogeneizzazione. Per convincersene basta leggere il rapporto “Le
cifre chiave dell’istruzione in Europa” disponibile sul sito web
eurydice.org. Eurydice, nata nel 1980 è parte di Socrates e tra l’altro
gestisce la banca dati Eurybase che, contenendo informazioni sui sistemi
educativi dei paesi interessati (30, con la Turchia), consente di verificarne le
diversità.
Per quanto riguarda la struttura didattica dell’istruzione
nel suo insieme non si tratta di differenze sostanziali tanto è vero che il
riferimento alla Classificazione Internazionale Tipo dell’Educazione (CITE)
dell’Unesco consente la riconduzione ad un percorso equivalente che prevede:
CITE 0= pre- primaria, CITE 1= primaria, CITE 2= secondaria, CITE 3= secondaria
superiore, CITE 4= post- secondaria, CITE 5= superiore di 1° livello, CITE 6=
superiore di 2° livello, CITE 7= superiore avanzato.
Quanti sono giovani della cui formazione stiamo ragionando? A
di là dei valori assoluti, tenendo anche conto del fatto che il tasso di
natalità in Europa è in diminuzione a partire dagli anni 60, i dati mostrano
una positiva tendenza al prolungamento del tempo degli studi, oltre la scuola
dell’obbligo.
Nella comunità europea, alunni e studenti sono il 22% della
popolazione totale (83 milioni nel ’97) e il 57% dei giovani al di sotto dei
trent’anni, qualche cosa di più se si guarda all’insieme dei 30 paesi
coinvolti. Il 55% di essi sono nell’età dell’obbligo scolastico, il 15%
nell’istruzione superiore (università, politecnici...).
È il caso di notare che l’Italia che è tra i paesi con le
più alte percentuali di iscritti ai corsi universitari, è però anche tra
quelli con le più basse percentuali di laureati, sicuramente minori del
necessario. Non sono gli unici dati negativi per il nostro Paese, i nostri
valori sono spesso sotto la media europea e questo testimonia della necessità
di affrontare seriamente il problema, senza crogiolarsi nell’enumerare i
grandi risultati dei pochi che raggiungono la formazione eccelsa, perché la
maggioranza di loro la hanno raggiunta per meriti individuali.
Ad esempio, sempre nel 1997 in media solo il 31%, ma oltre 40
per Italia ( anche Lussemburgo e Portogallo) dei giovani tra i 20 e 29 anni non
era in possesso di diploma di istruzione secondaria superiore (la percentuale
era di 53 per le persone tra i 50 e i 59 anni).
Senza dimenticare che questi giovani che abbandonano lo
studio non troveranno facilmente un’attività lavorativa.
Quasi il 25% dei giovani europei che hanno lasciato gli studi
e cercano un lavoro, non lo trovano. Nella distribuzione dei valori, Danimarca,
Paesi Bassi e Austria hanno quelli più favorevoli, viceversa Francia, Italia,
Lussemburgo e Grecia i peggiori.
5. Istruzione scolastica
Per la maggioranza dei paesi la scuola primaria obbligatoria
comincia a sei anni e costituisce un livello separato, anche se formalmente in
alcuni casi non vi è distinzione tra ciclo primario e secondario inferiore e in
altri vi è addirittura un unico ciclo complessivo. La sua durata va da un
minimo di quattro anni (Austria e Germania) a un massimo di sei (la
maggioranza).
Intorno ai dieci anni si frequenta un anno terminale di
istruzione primaria e si ha comunque un incremento del numero di ore di lezione.
Anche le materie obbligatorie sono in genere le stesse in
tutti paesi, anche se il tempo dedicato può essere diverso. Anche in questo
caso possiamo fare una nota per l’Italia. Spesso si lancia l’allarme per la
poca riuscita dei nostri giovani nelle gare di matematica, bene occorre sapere
che l’Italia è tra quanti dedicano meno tempo ad essa, sin dal tempo della
scuola elementare.
Restano aperte alcune questioni perché manca una soluzione
di netta prevalenza. Uno dei temi riguarda l’opportunità o meno della
ripetizione dell’anno scolastico per gli alunni in difficoltà. Alcuni paesi,
tra cui l’Italia, la prevedono come fatto eccezionale (e ogni anno qualcuno ne
chiede un uso più generalizzato), in Francia e Spagna la ripetizione di un anno
si può avere solo al termine del ciclo, mentre in Gran Bretagna, Svezia e
Norvegia vige la promozione automatica.
Una seconda questione che ha soluzioni diverse, è quello
dell’utilizzo di esami formali per il controllo dell’efficacia didattica,
alcuni paesi prevedono un esame di controllo ogni due anni, altri solo alla fine
dei cicli, altri ancora, anche in questo caso, non sempre.
L’obbligo scolastico non termina alla stessa età. L’Italia
sta per uniformarsi (almeno sembra) ai paesi in cui termina a 15 anni, anche se
la maggioranza conclude a 16.
Non sempre la fine della scuola dell’obbligo coincide con
il termine del ciclo secondario inferiore. Mentre anche la secondaria inferiore
e comunque l’organizzazione dell’istruzione sino ai 13 anni è piuttosto
simile, lo stesso non vale per la secondaria superiore.
In questo caso le differenze nell’organizzazione
scolastica, valgono sia per quanto riguarda il monte ore, sia le materie di
studio, dovendo l’offerta didattica coprire le necessità di diversi indirizzi
di studio, si esaltano anche le differenze di impostazione generale tra i paesi.
Una prima ramificazione fondamentale, presente ovunque,
distingue tra indirizzo orientato all’accesso alla istruzione superiore
(indirizzo generale) e indirizzo orientato professionalmente (anche questo però
consente ugualmente di proseguire gli studi).
Nella maggioranza dei casi (tra cui l’Italia) a prevalere
è la frequenza dell’indirizzo professionale. Come si comprende a questo
livello di studio non si tratta più di differenze nei tempi di studio delle
stesse materie, ma di curricoli anche totalmente diversi.
Profondamente diversi possono comunque essere anche i corsi
di studio interni all’indirizzo generale.
Una particolarità rilevante, riguarda la non obbligatorietà
delle materie. Il caso estremo si ha nel Regno Unito e in Irlanda dove gli
studenti, a partire da sedici anni, non hanno materie obbligatorie, mentre in
altri paesi i giovani hanno delle ampie opzioni (Belgio, Germania, Olanda),
totalmente assenti in Grecia e Italia. Si ricorderà lo sconcerto e la polemica
prodotta (più per l’improvvisazione che per la sostanza della novità) dall’utilizzo
dello strumento in un documento di riforma.
Pur differenziandosi la struttura organizzativa, la scuola
secondaria in generale termina al compimento del diciannovesimo anno di età.
Indubbiamente la commissione europea per l’istruzione, pur
rispettando le specificità locali, dovrà trovare dei criteri per uniformare di
più l’offerta didattica in tema di scuola media superiore.
6. Istruzione superiore
Gli studenti iscritti a corsi di istruzione superiore sono 12
milioni, il loro numero è in aumento in Europa e nei singoli paesi; ancor più
in termini relativi tenendo conto del calo demografico, globalmente è
raddoppiato negli ultimi 30 anni.
Solo in Grecia le decisioni relative ai limiti di posti e
criteri di selezione vengono prese a livello centrale. Negli altri paesi queste
sono decise dai singoli istituti, eventualmente all’interno di vincoli decisi
centralmente, questo ora, con la riforma universitaria, succede anche in Italia,
mentre Belgio e a Austria non pongono vincoli al libero accesso.
Pur avendo l’Unione Europea attivato delle forme di
sostegno alla mobilità degli studenti (Erasmus) e benché al successo di questa
azione sia data grande enfasi, pubblicitaria, solo il 2% di essi studia per un
periodo breve, in un altro stato membro o in un paese della comunità allargata.
Una indagine apposita, della stessa comunità, ha evidenziato che a goderne sono
prevalentemente i giovani di ceto più elevato.
Nell’Unione Europea, il 22% dei giovani tra i 30 e 34 anni
è in possesso di un diploma di istruzione superiore. Ciò non vale all’interno
dei diversi paesi: in Belgio e Svezia quasi il 30%, Italia a Austria e
Portogallo meno del 15. Come già detto, almeno per quanto riguarda l’Italia,
al di sotto delle esigenze del paese, anche se potremo attenderci a breve
termine un qualche miglioramento del dato, visto che hanno cominciato ad essere
istituiti, in modo generalizzato a partire dal 1996, i corsi universitari
triennali (CITE 5).
7. La politica europea per l’istruzione-formazione superiore
Non ci sono dubbi che se si vorranno uniformare i titoli di
studio, pur salvaguardando le specificità locali, occorrerà occuparsi della
scuola media superiore Bisogna però riconoscere che, per quanto riguarda l’istruzione
superiore, vi è già stata una consistente attiva.
Rispetto all’Università, la politica comunitaria viene
enfatizzata con la dichiarazione congiunta dei ministri competenti di Francia,
Germania, Gran Bretagna e Italia, avvenuta a Parigi, il 25 maggio del 1998, in
occasione della celebrazione della fondazione dell’Università della Sorbona.
Nell’anno successivo, il 1999, è stata sottoscritta una
nuova dichiarazione a Bologna. Questa volta firmata dai 30 paesi associati in
una comune politica per l’istruzione.
La Comunità europea rivendica la necessità che: “il
sistema europeo dell’istruzione superiore acquisti nel mondo un grado di
attrazione corrispondente alla nostra straordinaria tradizione scientifica e
culturale”.
In particolare nella prima di queste dichiarazioni,
intitolata “L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione
superiore in Europa”, risulta subito esplicita la nuova filosofia.
Testualmente si dice: “Noi dobbiamo ai nostri studenti
ed alle nostre società in generale un sistema di istruzione superiore nel quale
a ciascuno siano offerte le migliori opportunità per individuare il proprio
campo d’eccellenza”.
Spesso il richiamo agli interessi dei singoli costituisce una
strada per porre in secondo piano, se non negare, gli interessi collettivi.
Anche in questo caso sembra proprio che si voglia soddisfare un interesse di
parte.
Si nega l’opportunità di una definita formazione comune,
privilegiandone una indicata come meno mirata, proprio perché si riconosce che
ciò può rendere più facile la mobilità (ossia lo spostamento) dello
studente, futuro lavoratore.
La formazione diviene “flessibile”, perché in
prospettiva deve assicurare un rapido adattamento del lavoratore all’eventuale
mutare delle esigenze del mercato produttivo.
Indubbiamente in questo modo si soddisferà anche il suo
bisogno di lavoro, ma soprattutto si potrà assicurare una pronta adesione alle
convenienze del datore di lavoro. E infatti, proprio per favorire la mobilità
del lavoratore si decide anche che, tra i compiti delle università, debba
esserci quello dell’istruzione permanente: istruzione lungo tutto l’arco
della vita.
Questo del resto viene detto esplicitamente in diverse
riunioni del Consiglio europeo: “promuovere la mobilità è uno degli
obiettivi fondamentali delle disposizioni del trattato relative all’istruzione,
alla formazione professionale e alla gioventù”.
Quello che si vuole costruire è un sistema universitario
unico, in funzione di un unico mercato del lavoro, che in quanto tale assicuri,
per le forze imprenditoriali, un agevole utilizzo di forza lavoro omogeneamente,
ma non troppo specificatamente formata, in funzione di ciò occorre “...
sviluppare un quadro per l’insegnamento e l’apprendimento che rafforzi la
mobilità” prima dello studente, poi del lavoratore.
È nella dichiarazione di Bologna che, in funzione di ciò,
viene concordata una strategia comune ed un piano di riforma organico che
prevede la riorganizzazione dello studio universitario secondo i due cicli
principali.
Il primo, in genere di durata triennale, costituente titolo
di qualificazione nel mercato del lavoro e anche titolo per l’accesso al
secondo livello, specialistico e in genere di durata biennale. A questi potranno
seguire corsi di dottorato e Master, ossia corsi più o meno brevi su argomenti
specifici.
Inutile dire che, questa struttura organizzativa, allungando
fortemente i tempi per la formazione “eccellente” e quindi anche il suo
costo, ne precluderà l’accesso a molti studenti.
Una successiva riunione dei ministri dell’istruzione
superiore a Praga e alcune riunioni del Consiglio europeo, hanno attivato
specifici programmi di supporto e finanziamento locale finalizzati alla
realizzazione delle scelte politiche prese.
Come per la scuola, anche per l’università, a partire dall’esigenza
di rafforzare le politiche in materia di istruzione e formazione permanente e di
mobilità, si introduce, in realtà in modo generalizzato, il ricorso all’esperienza
delle imprese, del mondo dell’istruzione e delle parti sociali.
In questo modo ci si propone di “rendere l’Europa l’economia
basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”.
Al di là delle parole, come in questo caso, a volte un po’
presuntuose e roboanti, globalmente rispetto all’istruzione si dà l’avvio
ad una riforma dei cicli scolastici e della struttura universitaria nettamente
orientata agli interessi del mondo imprenditoriale e capitalistico - forza
ispiratrice dell’intero disegno riformatore - cui per la prima volta almeno in
Italia, viene riconosciuto al riguardo un esplicito ruolo decisionale e di
controllo, che comprende l’attivazione e l’orientamento disciplinare dei
corsi universitari, nonché la valutazione dell’attività di docenza.
In coerenza con ciò, in Italia ci si propone di trasformare
gli operatori del mondo dell’istruzione in manager e le strutture scolastiche
e universitarie in aziende; nel contempo si aumenta drasticamente il costo dell’istruzione
a diretto carico delle famiglie, attraverso cospicui aumenti delle tasse
universitarie.