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La transizione difficile

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Annamaria Crescimanni
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Professoressa di Teoria dell’inferenza Statistica, Fac. di Scienze Statistiche, Università “La Sapienza”, Roma; membro del Comitato Scientifico di CESTES-PROTEO

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L’integrazione europea e l’organizzazione scolastica e formativa

Annamaria Crescimanni

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Si sta favorendo un profondo e negativo mutamento nella coscienza collettiva: la scuola non viene più proposta come lo strumento più importante dell’opera statale di direzione culturale, in grado di garantire lo sviluppo del corpo sociale, ma come uno strumento di formazione del lavoratore, perciò opera non più da delegare nelle sue linee fondamentali a struttura pubblica e la cui organizzazione coerentemente deve essere definita con il concorso dei più diretti interessati, gli imprenditori privati, ovviamente.

8. I modi della riforma in Italia

A differenza di altri paesi della comunità europea, l’Italia alla fine degli anni ’60 ha favorito l’accesso generalizzato dei giovani all’Università. Questo probabilmente anche come forma di controllo sociale verso giovani che non avrebbero comunque trovato accesso nel mondo del lavoro.

In via di principio ovviamente non si può non preferire una università di massa ad una università organizzata per una limitata èlite di giovani. Se però si aprono, come si è fatto, le porte dell’università ai giovani di formazione più debole senza riorganizzare in modo adeguato la didattica, si rischia di fare un danno grave ai giovani e alla società.

Di fatto l’accesso alle nostre Università è libero ma a laurearsi è solo il 30 % dei giovani che si iscrivono e visto che ad iscriversi all’università è circa il 45% dei giovani che prendono il diploma di scuola media superiore, a laurearsi è poco più del 13% dei diplomati.

Il tempo medio impiegato da quanti si laureano non è quello che prevedono gli ordinamenti, anziché quattro o cinque servono in media quasi 7 anni e questo significa che molti giovani si laureano dopo 8 anni o più. Come si vede, non un buon risultato ed una seria riforma sarebbe stata necessaria. Questi dati sono ormai noti a tutti, ma è sempre il caso di rimarcare il punto di partenza di qualsiasi ragionamento serio sull’Università e la sua necessità di riforma.

Nel ’68 si è potuto liberalizzare l’accesso, ma non si è potuto, voluto o saputo, operare la necessaria riorganizzazione della didattica.

Sarebbe stato necessario modificare il modo di insegnare. L’insegnamento è un servizio di pubblica utilità che si realizza pienamente solo se si prevedono anche forme attive di partecipazione per lo studente.

Con l’attuale riforma questa presenza attiva è stata attuata, purtroppo però mentre fino ad oggi nella didattica si è prevista la sua connessione con la ricerca di base, ora questa connessione viene sostituita da quella fra didattica e ricerca finalizzata, ossia di utilità pratica.

Questo proprio perché, come abbiamo già notato, si è imposto uno stretto collegamento tra sistema produttivo e università. Quest’ultima deve organizzare lo studio in funzione delle necessità attuali del mondo produttivo, come se vi fosse una sorta di contrapposizione tra professionalità e cultura.

In particolare le esigenze culturali della formazione scientifica sono sentite solo come esigenze tecniche e quindi mirate all’utilizzo.

Come si vede, quanto abbiamo detto per l’Europa vale anche per l’Italia. Come l’Europa anche l’Italia, volta agli interessi economici, parla di università azienda, studente-cliente e professore-manager.

I termini di riferimento dei ministri ( Democratici di sinistra ) dei precedenti governi sono uguali a quelli dell’attuale ministro (una manager dell’industria).

Anche se restano alcune differenze che in qualche modo rimarcano i riferimenti culturali dei ministri responsabili, l’impianto generale, il principio fondamentale, è lo stesso: la scuola, l’università sono aziende e quindi hanno una natura economica, le decisioni vanno assunte in una logica manageriale, favorendo iniziative che aumentino il budget dell’azienda o migliorino la sua “immagine”.

È una logica conseguenza che la scuola e università pubblica non gravino più solo sul bilancio dello Stato e che esse debbano (in realtà ancora dovrebbero) in parte provvedere attraverso forme di finanziamento da parte di aziende pubbliche e private. In nome del principio dell’autonomia organizzativa, amministrativa e in parte anche finanziaria dallo Stato ...ci si lega ai privati... in nome dell’autonomia?

Certo un governo di destra sa interpretare meglio la parte e così, mentre si decurtano di fondi per la ricerca pubblica, si apre alla scuola e alla ricerca privata. Però è stato con il governo di centro-sinistra che, nel gennaio 2001, si è costituito un comitato paritetico, Ministero della pubblica istruzione e Confindustria con il compito di mettere a punto iniziative per “la diffusione della qualità nella scuola”.

In Italia la scuola privata è essenzialmente una scuola cattolica ed è in fase di attuazione una sua totale equiparazione, eliminando le attuali, pur deboli, forme di controllo.

Non a caso si istituisce una commissione diretta a definire un codice deontologico per gli insegnanti e si pone a presiederla un cardinale.

A sanzionare la nuova politica il ministero è detto “Ministero dell’Istruzione”, non più ”Pubblica Istruzione”.

Questo profondo mutamento, che non avevano neppure sognato di proporre i governi democratico-cristiani, è possibile oggi all’interno del nuovo quadro europeo.

Non è stato possibile costruire un’Europa politica, si è pensato di arrivare a questa attraverso l’Europa economica.

L’Europa cui arriveremo sarà un’Europa liberista che non si limita alla mitizzazione del libero mercato ma che abbraccia il mito della virtù della libera = privata iniziativa.

Uno scenario per niente rassicurante per chi ancora creda, se non nella possibilità di uno Stato “al di sopra delle parti”, almeno in quella di un civile contemperamento degli interessi.