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Leonardo Valle
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Club privé. A cosa sono servite le privatizzazioni delle banche italiane

Leonardo Valle

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3. Una nuova “democrazia economica”?

Tra i luoghi comuni che in questi anni ci sono stati più ossessivamente ripetuti vi è in effetti quello secondo cui il diffondersi dell’investimento azionario a livello di massa - ottenuto per l’appunto grazie alle privatizzazioni - avrebbe consentito una migliore affermazione anche in Italia delle public companies (imprese ad azionariato molto frammentato, rette da managers attenti solo alla valorizzazione delle società). Questo processo avrebbe condotto (addirittura) ad una nuova e moderna forma di “democrazia economica”: la democrazia dei piccoli investitori.

In una delle sue formulazioni più suggestive, questa favoletta recita pressapoco così: oggi siamo di fronte ad un vero e proprio passaggio di fase del capitalismo. Dal capitalismo delle partecipazioni incrociate, tipico di Francia, Germania e Italia, in cui molte imprese sono controllate da pochi potenti gruppi di controllo tra loro interconnessi (che possiedono le imprese con forti pacchetti azionari: il modello Mediobanca, per capirsi), stiamo passando al capitalismo delle public companies e degli investitori istituzionali, caratterizzato dalla dispersione della proprietà e dall’azionariato diffuso.

Come in tutte le favole, anche in questa c’è del vero: è vero, ad esempio, che i tradizionali gruppi di controllo hanno fatto il loro tempo; ed è vero, a tanto maggior ragione, che il capitalismo familiare (anche laddove la famiglia si chiami “Agnelli”, come ormai dovrebbe essere chiaro...) ha fatto il suo tempo. Purtroppo, però, la parte della favola che non regge è proprio il “lieto fine”. Infatti:

a) Non è vero che nel modello della public company la proprietà sia meno concentrata.

Il fatto che la proprietà sia sempre meno identificabile con una specifica persona fisica (il grande capitalista monetario alla Rothschild o alla Morgan, il grande capitalista industriale alla Ford, ecc.) non significa affatto che i titoli capitalistici di proprietà non esistano più, e non significa neppure che essi non siano saldamente concentrati. Al contrario: la tendenza alla concentrazione del controllo è forse ancora più forte nel cosiddetto “modello anglosassone della public company” di quanto avvenga nel cosiddetto “modello continentale”. Prendiamo la Gran Bretagna, dove il sistema della public company prevale: è stato rilevato che nel mercato azionario inglese “la proprietà è solo apparentemente diffusa”, e che “in realtà pochi grandi conglomerati finanziari e assicurativi, raccogliendo le attività (e quindi i voti) dell’80% dei fondi pensione e di gran parte dei fondi minori e dei fondi esteri, di fatto hanno la possibilità di esprimere, attraverso veri e propri ‘oligopoli del controllo’, una ‘voce’ influente sull’intero sistema delle compagnie quotate inglesi”.

In definitiva, “anche nella patria del capitalismo popolare un gruppo ristretto di grandi istituzioni finanziarie controlla, con un impegno finanziario relativamente modesto [a causa del frazionamento dell’azionariato, che consente di controllare una società anche con pacchetti azionari relativamente piccoli, NdR], una larga parte del sistema della proprietà delle imprese quotate”. In base a questo, non può stupire che i primi 50 manager dei fondi di investimento (soprattutto le società di assicurazione) controllino di fatto - direttamente o attraverso le deleghe di voto - oltre l’85% del mercato azionario inglese [1]. Non solo: il sistema delle partecipazioni incrociate tra questi grandi investitori è tale da fare impallidire le più spericolate ingegnerie azionarie messe in piedi dalla buonanima di Cuccia. Conclusione: gli assetti proprietari non sono meno, ma più concentrati che in passato. Sono però, sicuramente, molto meno “trasparenti” e “identificabili”  [2]. I centri decisionali “si allontanano e si disperdono”, sono sempre meno immediatamente individuabili, ma esistono eccome. Questo è quello che succede dove è diffuso il modello della public company. E in Italia?

b) In Italia negli ultimi anni è cresciuta la concentrazione attraverso le “scatole cinesi”.

Ecco cosa ha detto in proposito, nel recente Incontro annuale con il mercato finanziario (8 aprile 2002), nientemeno che Luigi Spaventa, il Presidente della CONSOB (l’organo di vigilanza delle società quotate in borsa). In Italia la proprietà è già di per sé molto concentrata: “nel 60 per cento delle società quotate in borsa un socio ha la maggioranza assoluta; nella media ponderata, la quota del primo azionista è risalita oltre il 42 per cento; il flottante [ossia la quantità di titoli di una società che sono effettivamente scambiati in borsa e non stabilmente posseduti da un socio] è diminuito” [3].

Ma l’aspetto più degno di nota è un altro: spesso si ha la concentrazione del controllo senza che ci sia la concentrazione della proprietà. In altre parole: ci sono gruppi (industriali o, più spesso, finanziari) che controllano le società quotate pur senza possederne neppure lontanamente la maggioranza delle azioni. Ascoltiamo ancora Spaventa: “il rapporto fra diritti di controllo e diritti ai dividendi [4], dopo essersi ridotto nel passato decennio, è tornato ad aumentare: nella media dei primi dieci gruppi quotati il capitale controllato è pari a quasi due volte e mezza il capitale posseduto”. Come è possibile questo miracolo? Con un trucchetto che lo stesso Spaventa ci spiega: “l’esercizio del controllo con un impegno più modesto nella proprietà viene sovente ottenuto ricorrendo a lunghe e complicate strutture piramidali” [5]. È il sistema che viene anche detto “delle scatole cinesi”: la mia holding possiede il 51% di una società, che a sua volta possiede il 51% di un’altra società, che possiede il 40% di un’altra ancora, che possiede il 30% di un’ultima società (quella che realmente mi interessa). In questo modo, con un impegno finanziario relativamente modesto, posso possedere società di grandi proporzioni. Non è fantascienza: è in questo modo, ad esempio, che Tronchetti Provera ha ottenuto il controllo di Olivetti (e quindi di Telecom e TIM), pur avendo comprato, attraverso una controllata di una controllata ecc., soltanto il 29% delle azioni della società.

In questo contesto, quale ruolo giocano i risparmiatori, i piccoli investitori che dovrebbero costituire il pilastro vitale della nuova democrazia economica? Il ruolo di mettere i soldi nella società e di rendere possibile agli azionisti maggiori di controllarla senza doverla possedere. Ancora Spaventa: “nel caso di azionariato frazionato il modestissimo tasso di partecipazione [alle assemblee] delle minoranze consente al primo azionista l’esercizio del controllo anche con una quota di capitale lontana dalla maggioranza assoluta” [6]. Ecco fatto.

Quanto sopra è perfettamente applicabile proprio alle privatizzazioni bancarie ed ai loro risultati. Non lo diciamo noi, lo ha detto un altro esponente della CONSOB in un saggio dedicato alle privatizzazioni bancarie: “all’indomani della privatizzazione, nonostante [?] le intenzioni del Governo, si sono create situazioni di controllo di fatto esercitato da gruppi ristretti di azionisti, legati da accordi impliciti e non formalizzati o esplicitati in patti di sindacato”. In particolare, per quanto riguarda la Comit e il Credito Italiano, “nel corso delle assemblee delle due banche tenutesi subito la privatizzazione sono stati nominati, su proposta del management uscente, Consigli d’Amministrazione composti da rappresentanti dei principali azionisti, escludendo i rappresentanti degli azionisti di minoranza” [7].

c) E la public company che fine ha fatto?

In Italia, semplicemente, le public companies non ci sono. E del resto, a dire la verità, ci sono anche ben poche società quotate in borsa: non arrivano a 300, e nel 2001 le nuove quotazioni sono state 13. Spaventa parla di “anomala esiguità del numero delle società quotate in Italia” [8]. Qual è il motivo di questa anomalia? È semplice: i privati non ne vogliono sapere di quotare le loro società in Borsa. Perciò, quando leggiamo che le privatizzazioni delle grandi società pubbliche attraverso la loro quotazione in Borsa, “avvicinando i risparmiatori all’investimento azionario, ha aperto la strada della quotazione in Borsa ad imprese private meno note e di dimensioni minori” [9], leggiamo una cosa che, se è vera, lo è in così pochi casi da essere praticamente... falsa.

Del resto, lo stesso incremento degli scambi e della capitalizzazione di Borsa di questi ultimi anni è dovuto in gran parte, direttamente e semplicemente, ai collocamenti connessi alle privatizzazioni [10]. Il Ragioniere generale dello Stato, Monorchio, ha recentemente ricordato che “i tre quarti della capitalizzazione di Borsa sono costituiti da società che sono state di proprietà dello Stato”.

Visto sotto questo profilo, il tanto decantato “decollo del mercato borsistico italiano” ha tutto l’aspetto di un trucco. E del resto, quando si parla di queste cose, si dimentica di dire che l’investimento borsistico è stato, anche per molti piccoli risparmiatori, un passo quasi obbligato. Infatti in questi ultimi anni uno dei tradizionali beni di investimento dei risparmiatori italiani, ossia i BOT, ha perso praticamente ogni attrattiva; inoltre nei primi anni Novanta il (primo) Governo Amato ha imposto una tassa del 27% sugli interessi dei conti correnti, a fronte di una tassa di appena il 12,5% sui guadagni da investimenti borsistici. Altro che “spontaneità del mercato” e “libertà del consumatore/risparmiatore”! In questo modo ingenti quantità di risparmio privato in fuga dal debito pubblico sono state forzosamente immesse nei mercati di Borsa. Qui il risparmio “liberato” dal debito pubblico ha incontrato le azioni delle società ex-pubbliche, anch’esse “messe in libertà”.

Si rendevano così disponibili importanti capitali (sotto forma liquida e sotto forma di società) in grado di essere inseriti in un processo di concentrazione su scala tendenzialmente europea. Questo, e non fantasiose forme di “democrazia economica” da piccoli speculatori di Borsa, è il punto di approdo delle privatizzazioni italiane. Anche e soprattutto delle privatizzazioni bancarie.


[1] Vedi D. Scannapieco, cit., pp. 186-7.

[2] Vedi G.M. Gros-Pietro, E. Reviglio, A. Torrisi, Assetti proprietari e mercati finanziari europei, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 112-4.

[3] Al tema della “spersonalizzazione del potere” nelle imprese (visto però soprattutto sotto il profilo dell’allontanamento dei centri decisionali a causa delle fusioni tra imprese) è stato dedicato l’inserto economia di Le Monde del 24/4/2001.

[4] CONSOB, Incontro annuale con il mercato finanziario, Discorso del presidente Luigi Spaventa, Milano, 8 aprile 2002, p. 10. Spaventa sembra considerare criticamente questi fenomeni. Evidentemente non è così: infatti il 6 maggio la CONSOB ha consentito alla Edison di continuare ad essere quotata, limitando il flottante minimo al 5% delle azioni della società. In questo modo ai proprietari di Edison viene risparmiato l’esborso di soldi che deriverebbe dall’obbligo di lanciare un’OPA residuale sul flottante stesso. Tra i padroni di Edison c’è la FIAT.

[5] “Diritti ai dividendi” equivale a “proprietà delle azioni”: infatti percepisce un dividendo soltanto chi effettivamente possieda le azioni che danno diritto ai dividendi stessi.

[6] Ivi, p. 11. Per la crescita delle società controllate di diritto e di fatto vedi le tavole riportate nei Dati e Analisi che corredano la relazione del Presidente CONSOB, p. 133.

[7] Ivi, p. 12.

[8] G. Siciliano, “Le privatizzazioni bancarie in Italia. Qualche evidenza sulle performance pre- e post- privatizzazione”, in Guido Carli e le privatizzazioni dieci anni dopo, cit., p. 193.

[9] CONSOB, Incontro annuale con il mercato finanziario, cit., p. 17.

[10] D. Scannapieco, “Le privatizzazioni in Italia...”, cit., p. 168.