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Tendenze della competizione globale

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Vladimiro Giacché
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Studioso di economia e politica economica

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Guerra

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Perché la guerra fa male ai lavoratori (II)

Vladimiro Giacché

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B. Il fronte interno

1. La guerra come strumento di consenso politico

Come è noto, sin dai tempi della sua a dir poco tormentata elezione, Bush jr. godeva di un basso indice di popolarità presso la popolazione del suo Paese. In particolare, un sondaggio effettuato dall’istituto Gallup e dalla CNN dal 7 al 10 settembre 2001 faceva registrare il punto più basso della popolarità del presidente dall’inizio dell’anno: soltanto il 51% degli intervistati, infatti, approvava la sua politica. [1] Quanto poi all’opposizione politico-parlamentare, le cose non andavano meglio. I Democratici, infatti, non solo sembravano essersi ripresi psicologicamente dallo schiaffone della perdita della Presidenza, ma avevano anche guadagnato la maggioranza del Senato, con il risultato di poter mettere almeno in parte un freno alle iniziative presidenziali. Il migliore esempio riguarda proprio lo scudo stellare. Il 10 di settembre le agenzie battevano una notizia dal titolo ben poco rassicurante per Bush ed il fido Rumsfeld: “Scudo: offensiva democratica contro piano di Bush”. Eccone il testo completo: “La maggioranza democratica del Senato americano e’ pronta a lanciare un’offensiva contro la politica estera dell’amministrazione Bush, ed in particolare contro il suo piano di difesa anti-missilistica. Un progetto considerato dai senatori democratici un enorme spreco di denaro, destinato a a rendere, nei prossimi 15 anni, il mondo un posto piu’ pericoloso dove vivere. E, forti della maggioranza che permette loro di stabilire l’agenda di lavoro, i democratici avvieranno una serie di audizioni di Commissione Esteri del Senato - dove Joseph Biden ha preso il posto di presidente lasciato dall’ultraconservatore Jesse Helms - riguardo ai pericoli piu’ imminenti per la sicurezza nazionale che vengono ignorati da George Bush, che vede la politica estera solo ‘’attraverso il prisma’’ dello Scudo”. [2]

L’ultima affermazione è stata più che confermata dagli eventi del giorno successivo. Però, proprio in seguito ad essi ed alla guerra in Afghanistan, i Democratici hanno poi votato in massa a favore dello scudo di “difesa” missilistica. Mentre la popolarità di Bush saliva vertiginosamente, sino a superare la stessa popolarità di Franklin Delano Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale.

2. La guerra come “distrazione” e intrattenimento

Già Gramsci notava come a volte le guerre si fanno per disinnescare conflitti di classe interni. Il meccanismo è piuttosto semplice: nella lotta contro il Nemico esterno le “forze della Nazione si devono unire”, devono “mettere da parte le loro divisioni”. Sul proscenio viene il conflitto con il Nemico, gli altri problemi possono venire provvisoriamente accantonati. Anzi, rappresenta un “rischio per la Patria” anche solo rammentarne l’esistenza. Nella società dell’informazione, questo meccanismo tradizionale viene riproposto, ma con un’importante variante: grazie al bombardamento dei media, le informazioni che non hanno (apparentemente) a che fare con la “guerra al Nemico”, vengono semplicemente eliminate, non “passano”, non raggiungono l’opinione pubblica. La popolazione viene distratta da tutto ciò che non siano gli eventi bellici in corso e dai loro risultati (ovviamente a loro volta opportunamente “filtrati” e raccontati nell’ottica della propaganda di guerra). Di più: per quanto assurdo ciò possa sembrare, la guerra stessa diventa “intrattenimento”, e la sua rappresentazione obbedisce all’imperativo categorico dell’industria culturale: quello di “di-vertire”, ossia di “distrarre”.

Nel caso della guerra in Afghanistan questo schema è stato applicato in maniera esemplare. Con i risultati sottolineati il 16 gennaio scorso da un’editorialista de la Stampa: “Anziché affrontare i problemi, l’Occidente si è invece fatto assorbire dall’euforia insensata per una nuova vittoria. Quella contro i taleban. Un’euforia che sembra alimentata apposta per far dimenticare i reali problemi del mondo. Una specie di cortina fumogena inventata per distrarre l’attenzione del grande pubblico”. Per la cronaca, l’editorialista in questione porta il nome di Michail Gorbaciov.

3. “Chi protesta è un terrorista”: la guerra come arma contro i nemici interni

Ma il Nemico esterno è utile non soltanto per evitare guerre interne, ma anche per consentire alle classi dominanti di combatterle meglio.

L’esempio più chiaro di questo uso della guerra ce lo offre la parabola del cosiddetto movimento “no-global”. All’inizio del settembre 2001 questo movimento, con tutti i suoi limiti e tutta la contradditorietà delle sue parole d’ordine (e anzi probabilmente anche per questo), era ormai un fenomeno di massa ed in crescita. Le stesse tragiche giornate di Genova avevano contribuito a questa crescita del movimento, rendendolo visibile a larghi strati dell’opinione pubblica occidentale, e suscitando un forte dibattito sui temi che sollevava (oltreché sulla violenza di cui i poteri costituiti sono capaci, anche nella “libera” Europa...).

Anche i governi, sia pure per mero calcolo elettorale (ma già questo è significativo!), sul finire del mese di agosto e i primi giorni di settembre manifestavano qualche cauta apertura rispetto alle istanze del movimento. Si prenda ad esempio un tema-simbolo quale la proposta di tassazione dei movimenti di capitale a breve termine chiamata “Tobin Tax”. Il governo francese, con in prima linea il premier Jospin, sembrava appoggiare l’introduzione di questa tassa. Il cancelliere tedesco Schroeder, più cauto, dichiarava comunque di voler “reagire a questi flussi finanziari speculativi relativamente autonomi”. [3]

Il crescendo di articoli dedicati dai più compassati giornali economici ai “no-global” era così impressionante da far dire al le Monde del 28 agosto: “non c’è un solo giornale economico e finanziario, non una sola pagina salmone, da Londra a Washington e da Parigi a Francoforte, che non prenda sul serio le critiche della mondializzazione”. [4] Dal canto suo, l’Economist dell’8 settembre dedicava nientemeno che l’articolo di copertina ad una “confutazione” del libro di Naomi Klein No Logo, il testo-simbolo del movimento “no-global”.  [5]

Il giorno stesso dell’attentato alle torri gemelle, il movimento anti-global riceveva l’attenzione di due tra i più prestigiosi quotidiani internazionali: ancora le Monde, che dedicava le prime sette pagine del suo inserto di economia ad articoli sull’argomento. E il Financial Times, che proprio quel giorno iniziava una serie di articoli dal titolo generale assai eloquente: “Inchiesta: il capitalismo sotto assedio”. Il primo pezzo, a firma di J. Harding, era intitolato “I figli della globalizzazione colpiscono ancora” e sosteneva quanto segue: l’attuale sviluppo capitalistico viene posto in discussione, e - ciò che è peggio - chi tenta di metterlo in discussione non sono gli indios del Chiapas, e neppure gli operai licenziati di qualche fabbrica “delocalizzata”, ma i giovani cresciuti nel bel mezzo degli anni ruggenti del liberismo dispiegato.

Con l’attentato lo scenario cambia radicalmente. La criminalizzazione delle voci critiche della “globalizzazione liberista” guidata dal capitalismo americano inizia subito. L’esercizio preferito di innumerevoli editorialisti ed uomini politici di tutto il mondo consiste nell’accostare senza troppi complimenti movimento no-global e fondamentalisti islamici. Le Figaro Economie del 13 settembre, ad esempio, non ha dubbi: “scegliendo di attaccare un simbolo come il World Trade Center i terroristi si associano al discorso degli anti-global, i cui slogan sono ormai onnipresenti”. Forza Italia, dal canto suo, si conferma avanguardia del peggio: sul suo sito internet, il 17 settembre, è possibile leggere che “le stragi dell’11 settembre sono il risultato del sinistrismo imposto all’Occidente”. Alla raffinatezza dell’analisi tiene dietro una proposta di pari levatura: “oltre agli Stati canaglia ci sono i partiti canaglia. Puniamo anche loro cominciando qui in Italia”. [6]

Il Corriere della Sera del 26 settembre ospitava un editoriale di Angelo Panebianco (un vero autore cult della propaganda di guerra, assieme all’inarrivabile Oriana Fallaci) in cui venivano tranquillamente messi sullo stesso piano bin Laden e i manifestanti di Genova: “nei giorni di Genova, teppisti a parte, tante brave e miti persone erano là riunite a manifestare contro il G8 parlando di quella riunione di capi di governo di alcuni dei Paesi più liberi e più civili del mondo, più o meno negli stessi termini in cui ne parla Bin Laden”. Il motivo di questa “convergenza”? Il “relativismo culturale” ed l’”amnesia culturale” di cui chi non difende in tutto e per tutto l’Occidente darebbe prova.

Secondo questa singolare interpretazione, sarebbe insomma lo stesso esercizio del dubbio circa la superiorità della “civiltà occidentale” a spianare la strada ai terroristi. Opinione pienamente condivisa dal Presidente del Senato Marcello Pera, che sul Foglio sostiene che “se metti sullo stesso piano le civiltà, o addirittura [!] ti interroghi sulla bontà della nostra, non sei più equipaggiato per difenderti”. Verrebbe da chiedersi come sia possibile conciliare queste affermazioni con l’esaltazione di Popper che il medesimo Pera (nelle vesti di professore e sedicente “filosofo” lliberale) infliggeva ai suoi (pochi) studenti di Pisa. Ma come? Non era stato proprio il vecchio Popper [7] ad insegnare la forza liberale del dubbio contro il totalitarismo connaturato alle certezze storicistiche hegeliane e marxiste? Si tratta, ovviamente, di domande fuori luogo: la propaganda di guerra, infatti, non ricava la sua efficacia né dalla coerenza né dalla forza del ragionamento. Semmai dal volume della voce.

Quando si alza troppo la voce, però, è facile stonare. Si pensi alle famigerate dichiarazioni berlusconiane di Berlino sulla “superiorità dell’Occidente”. L’episodio è noto. Meno noto è il fatto che quelle dichiarazioni contenevano un esplicito riferimento anche al movimento “no-global”: “c’è una singolare coincidenza di questa azione [l’attacco terroristico dell’11 settembre] con il movimento antiglobalizzazione che si è manifestato da circa un anno a questa parte. Proprio dall’interno dell’Occidente si sono mosse critiche al modo di vivere e di pensare dello stesso Occidente. Si è cercato e si cerca in qualche modo di colpevolizzare l’Occidente. Come se fosse colpa dello stesso Occidente, della sua economia e del suo modo di essere sui mercati [?], la povertà di cui soffre ancora tanta parte del mondo”.  [8]

4. Guerra e sospensione dei diritti democratici

La guerra da sempre comporta un attacco ai diritti democratici. Il nostro caso non fa eccezione.

Prendiamo il diritto a manifestare. A questo proposito vale la pena di ricordare un episodio emblematico. Il 10 ottobre 2001 le agenzie battono una notizia: il vertice FAO torna a Roma. Si tratta di una notizia inattesa, perché da mesi il governo sta facendo un vergognoso tira e molla sull’argomento, inventandosi improbabili sedi alternative, pur di evitare manifestazioni a Roma. Ma ora, di punto in bianco, Berlusconi fa dietrofront: la conferenza si terrà a Roma. Il titolo dell’agenzia ANSA che comunica questa notizia è fantascientifico: “Vertice FAO: Berlusconi, cadute preoccupazioni sicurezza”. Il testo, però, non è da meno; vi si può leggere, infatti, che “Silvio Berlusconi ha confermato che il vertice Fao di novembre si terrà a Roma”, così motivando la decisione: “Crediamo che le preoccupazioni di sicurezza che avevamo prima dell’11 settembre ora non ci siano piu’”.

In pratica, il Presidente del Consiglio sostiene che dopo gli attentati USA (e a guerra appena iniziata) sono cadute le preoccupazioni per la sicurezza! Qualunque persona di buon senso penserebbe il contrario... [9] L’assurdità, però, è solo apparente. Infatti il presupposto implicito della frase di Berlusconi era questo: ‘non abbiamo più motivo di spostare da Roma ad un’altra città il vertice in quanto potremo tranquillamente vietare le manifestazioni, o confidare nel fatto che nessuno oserà manifestare’. E infatti, poche ore dopo, l’ultima parte del ragionamento è stata proposta esplicitamente dal post(?)-fascista Storace: “a me pare evidente che tra i motivi che hanno determinato la decisione del ritorno a Roma della conferenza della FAO, ci sia l’assoluta certezza [!] che non ci sarà qualche ‘bello-spirito’ [!!] che si rimette a fare manifestazioni in questa congiuntura”. [10]

Questo episodio la dice lunga sulla prontezza con cui i nostri governanti sono disposti a far uso in funzione antidemocratica delle “emergenze”. In fondo, lo stesso tentativo è stato recentemente messo in opera a proposito dell’omicidio Biagi. E le stesse, incredibili, accuse a Cofferati di essere oggettivamente colluso con il terrorismo per il solo fatto di aver criticato le proposte del governo, si inscrivono nello stesso clima. Ieri, criticare la “globalizzazione liberistica” significava dare una sponda al terrorismo islamico. Oggi, opporsi all’abolizione dell’art. 18 significa armare la mano dei terroristi. In entrambi i casi il conflitto sociale, ma già la stessa critica sociale, sono considerati come di per sé dannosi, e tali da minare la coesione sociale necessaria per combattere il “Nemico”.

In verità, il principale nemico che si intende colpire sono proprio loro: il conflitto e la critica della società. Del resto, le stesse proposte di normativa europea contro il terrorismo, che definiscono come “atto terroristico” anche la semplice “occupazione di edifici pubblici”, rendono chiaro come il bersaglio che si intende colpire siano proprio le opposizioni sociali. E va notato che questo e altri provvedimenti, quali la riforma dei Servizi segreti (che adesso hanno anche formalmente “licenza di reato”, con la sola esclusione dell’omicidio), sono stati proposti ed approvati nel solco delle leggi liberticide varate negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ed in particolare del famigerato “Patriot Act”, che di fatto sospende gran parte dei diritti individuali garantiti dalla Costituzione americana. [11]

5. Negazione della rappresentanza e violazioni costituzionali

Con la guerra subisce una forte accelerazione il processo, già in corso da anni, di progressivo svuotamento della democrazia e della rappresentanza parlamentare (leggi elettorali “semplificatrici”, forzata riduzione delle alternative con l’esclusione di fatto delle forze “antagonistiche” [non diremo rivoluzionarie], assottigliamento delle differenze programmatiche tra gli schieramenti elettorali, mediatizzazione della politica, ecc.). In concreto: la Francia è andata alla guerra di Afghanistan senza un voto parlamentare. [12] In Italia, invece, si è votato: a favore della guerra, e con una percentuale di favorevoli superiore al 90%, a dispetto del fatto che la maggioranza dell’opinione pubblica fosse contraria alla guerra. Ma, soprattutto, lo si è fatto violando 3 articoli della Costituzione italiana: l’art. 11, che ammette la guerra solo come strumento di difesa; l’art. 78, che prevede che per la guerra debba esservi una formale delibera dello stato di guerra da parte delle camere; l’art. 87, che prevede la dichiarazione dello stato di guerra da parte del Presidente della Repubblica.

Perchè è successo anche questo: la guerra all’Afghanistan non è mai stata dichiarata. Tant’è vero che quando il Parlamento ha (scandalosamente) votato il ripristino del codice penale militare in tempo di guerra, per la prima volta dal 1945, ha dovuto modificare in senso peggiorativo l’art. 165, che prevedeva appunto che il codice entrasse in vigore solo a seguito della dichiarazione di guerra. [13]

6. Guerra e militarizzazione della società

L’approvazione del codice penale militare di guerra rende visibile un altro processo, parallelo alla “normalizzazione” della guerra: la militarizzazione della società, attraverso la reintroduzione nel corpus normativo di leggi militariste e fasciste.

Nel caso in questione, vale la pena di notare che la maggior parte degli articoli dell’originario codice penale di guerra del 1941 sono rimasti al loro posto e sono stati semplicemente resuscitati. Così, ci imbattiamo in pene draconiane (in base all’art. 124, a determinate condizioni l’abbandono del posto di guardia comporta l’ergastolo...) e in reati di cui ignoravamo anche solo l’esistenza (come il reato di “codardia”, punibile con 10 anni di reclusione: art. 110). Il 31 gennaio 2002, quando il Parlamento, con voto “bipartisan”, [14] ha approvato la legge che riportava in vigore il codice di guerra, il sen. Brutti (DS) ha manifestato la sua soddisfazione per il voto, insistendo sul successo conseguito dall’opposizione nel far eliminare i “reati di opinione” dal codice. Purtroppo, però, non è vero neanche questo: infatti, se è stato soppresso l’art. 87 (Denigrazione della guerra), lo stesso non vale per l’art. 86 (Fatti diretti a indurre alla sospensione o alla cessazione delle ostilità), il cui contenuto è così vago da poter essere adoperato per perseguire reati di opinione.

E’ da notare, infine, che la validità del codice non è limitata al personale militare in servizio sul luogo delle operazioni, ma “si applica anche al personale di comando e controllo e di supporto del corpo di spedizione che resta nel territorio nazionale” (nuovo art. 9). Questo è molto pericoloso, in quanto rende possibile un’interpretazione estensiva dei soggetti a i quali il codice può applicarsi.

7. Dal Welfare al Warfare: le risorse dirottate

Sinora abbiamo visto i pericolosi effetti che il ritorno della guerra (anche se adesso pudicamente si chiama “operazione multinazionale all’estero”) ha portato con sé riguardo all’esercizio dei diritti civili e politici, e quindi alla difesa degli interessi di classe dei lavoratori.

La guerra però colpisce gli interessi dei lavoratori anche direttamente. Come? Nel modo più ovvio: dirottando ingenti risorse pubbliche (ossia pagate con le tasse dei lavoratori) dai settori del “Welfare” (sanità, scuola, assistenza, pensioni, ecc.) a quello degli armamenti, del “Warfare”. Questo è precisamente quanto avvenuto nei mesi scorsi negli Stati Uniti, ove l’enorme crescita delle spese militari è stata pagata con la riduzione dell’assistenza, dell’istruzione pubblica e dei servizi sociali, ed addirittura con il congelamento temporaneo dei fondi pensione degli impiegati pubblici; il tutto, mentre le imprese e i ceti più abbienti beneficiavano di generosi sconti fiscali.

In tal senso, la decisione italiana (6 giugno) di entrare nel progetto per la costruzione del nuovo aereo da guerra americano “Joint Strike Fighter” è una pessima notizia per i lavoratori. Perché i 100 aerei da guerra che si è deciso di acquistare, del valore di 1 miliardo di dollari, saranno pagati con le loro tasse, e prenderanno il posto di servizi sociali di importo equivalente.

Per questo, si resta sconcertati nel leggere le dichiarazioni rilasciate subito dopo il voto parlamentare dal segretario nazionale della UILM, Giovanni Contento. Il quale, dopo aver definito “positiva” la decisione, ha proseguito: ‘’riteniamo che l’esecutivo debba firmare al più presto l’intesa bilaterale con il Governo Usa”. E, siccome l’appetito vien mangiando, ha aggiunto che “occorre anche sostenere il finanziamento del programma Efa dell’aereo europeo e la partecipazione all’aggiornamento tecnologico della difesa integrata europea, definito Etap”. E qui il nostro rischia proprio di essere, come si dice, “cornuto e contento”. Per più di un motivo. In primo luogo, l’accordo con gli USA è alternativo ad accordi europei, ed anzi ha proprio l’obiettivo di impedire lo sviluppo di un autonomo polo aerospaziale europeo. Anzi, l’adesione dell’Italia al progetto JSF è stata preparata proprio dall’affossamento del progetto dell’Airbus militare di fabbricazione europea. [15] In secondo luogo, le “ricadute sullo sviluppo tecnologico e sulla compensazione di attività industriale per le aziende italiane” derivanti dalla partecipazione al programma americano sarebbero comunque molto inferiori per valore alla spesa sostenuta dallo Stato italiano: sinora si è parlato di 650-700 milioni di dollari. Non occorre essere dei geni della matematica per capire che spendere 1 miliardo di dollari per farne incassare a Finmeccanica o a Fiat Avio meno di 700 non è un’operazione particolarmente avveduta... In terzo luogo, come abbiamo già rilevato, quello che viene speso per la difesa è sottratto ad altri settori. Per questo è preoccupante che il ministro Martino dichiari che le spese militari sostenute dall’Italia dovranno crescere gradualmente dall’attuale 1,06% del PIL all’1,5% nel 2006, e ancora più grave che aggiunga che “questo obiettivo è stato esplicitamente accolto dal DPEF”. [16] Tanto più quando si parla di privatizzare scuola, sanità, pensioni e di svendere il patrimonio pubblico per fare cassa.

Ma non si tratta di incoerenza. Si tratta di una scelta ben precisa. Alla quale il movimento dei lavoratori deve opporsi con la massima decisione.


[1] Risultati analoghi davano quasi tutti i sondaggi condotti tra la fine di agosto e l’inizio di settembre. Un prospetto analitico completo si trova sul sito: http:// www.pollingreport.com/ BushJob.htm

[2] Agenzia Adnkronos.

[3] V. “Schröder calls for debate on capital flows” in Financial Times, 5 settembre.

Sulla posizione di Jospin vedi l’articolo del Financial Times del 30 agosto: “Jospin woos the anti-globalisation vote in France”. In questa sede non entro nel merito della “Tobin Tax”.

[4] “Mondialisation: le débat”, editoriale di le Monde, 28 agosto 2001.

[5] “ProLogo. Why brands are good for you”: the Economist, 8 settembre.

[6] Su quest’ultima proposta potremmo comunque essere d’accordo anche noi, ove con l’espressione di “partiti canaglia” si intendano “partiti formati da canaglie”...

[7] Per inciso, uno dei nani filosofici più ingiustamente esaltati del Novecento.

[8] Agenzia Adnkronos del 26 settembre. L’idea (originalissima) che se uno è povero è colpa sua costituisce un cardine del Berlusconi-pensiero, ed è stata riproposta anche al vertice sull’alimentazione della FAO del 13 giugno scorso: “non credo che la colpa dello scarso sviluppo dei Paesi poveri sia dei Paesi industrializzati; non si puo’ dire che la colpa sia loro se l’80 per cento della ricchezza del mondo sia nei Paesi occidentali e solo il 20 per cento nei Pvs. Credo che ciascun Paese deve cominciare ad aiutarsi da solo’’. No comment.

[9] E infatti la stessa FAO, dopo pochi giorni, avrebbe deciso di rinviare il vertice al giugno 2002.

[10] Ag. ANSA, 10 ottobre, 15:40.

[11] Si veda in proposito il discorso letto il 26 febbraio 2002 dal deputato democratico americano Dennis Kucinich (http://www.lewrockwell.com/orig2/ kucinich1.htm).

[12] Questa scelta di Jospin è stata lodata da Giuliano Amato in un’intervista a la Repubblica.

[13] Il nuovo art. 165 afferma invece che le disposizioni del codice penale di guerra “si applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra”. E’ un testo la cui pericolosità pratica è pari soltanto alla sua contraddittorietà logica.

[14] Hanno votato contro soltanto il PRC, il PdCI, i Verdi, e pochissimi parlamentari DS e della Margherita.

[15] Questo nesso era chiaro fin dal novembre scorso: ne abbiamo dato conto nell’articolo pubblicato sul numero 3/2001 di questa rivista (“Perché la guerra fa bene all’economia” : v. in particolare la n. 22).

[16] Cit. in”L’industria aerospaziale chiede 1,5 mld _ l’anno”, il Sole 24 Ore, 9 luglio 2002.