14. Considerazioni conclusive
1) La mutazione della FIAT: da società industriale a holding
finanziaria di partecipazioni
Recentemente, il giornale della Confindustria ha proposto una
tesi degna di nota: la crescita dell’indebitamento della FIAT "non è
venuta tanto dalla FIAT Auto, passata dai 15 miliardi di euro di esposizione del
1997 ai 17,3 del 2001, quanto dal tentativo di sviluppare e diversificare il
gruppo in altri settori per cercare di sostituire con questi la redditività
decrescente dell’automobile. Invece di utilizzare la leva debitoria per tentare
di riportare in carreggiata la gestione industriale degli autoveicoli, la FIAT
ha cominciato ad investire in altri campi". [1] Per converso, "dal 1995 la FIAT ha investito sulle
quattro ruote assai meno dei suoi principali concorrenti". [2]
Il punto è questo: dalla fine degli anni Ottanta la regìa
delle scelte di investimento finanziario del gruppo è stata orientata verso
settori diversi da quello dell’automobile, secondo una logica che privilegia
investimenti a maggiore o più certa redditività.
L’elenco di questi settori di investimento è lungo. Ecco i
dati essenziali:
a) Assicurazioni. Controllo al 100% della Toro Assicurazioni
e tentativo (fallito nel 2002) di creare il secondo polo assicurativo italiano,
impadronendosi anche di SAI e Fondiaria.
b) Banche. Gli Agnelli sono azionisti di due tra i principali
gruppi bancari italiani: di Capitalia (ex Banca di Roma), tramite la Toro,
possiedono il 6,6%; del Sanpaolo-IMI, tramite le finanziarie di famiglia IFIL e
IFI, circa il 5%.
c) Grandi magazzini. Negli ultimi mesi del 2002 (cioè mentre
esplodeva la crisi di FIAT Auto) le finanziarie di famiglia degli Agnelli, IFI e
IFIL hanno lanciato un’OPA sulla Rinascente (che già controllavano), per un
impegno finanziario di 180 milioni di euro.
d) Macchine di movimentazione terrestre. Controllo di Case
New Holland.
e) Settore aerospaziale. Controllo di FIAT Avio.
f) Settore turistico. IFIL possiede il 100% di Alpitour, il
25% di Sifalberghi, il 7,2% di Club Med.
g) Telecomunicazioni. FIAT non è riuscita a tenersi la
Telecom (nonostante gliene avessero graziosamente regalato il controllo, al
tempo della privatizzazione, contro il possesso dello 0,6% del capitale). In
compenso ha il 33% di Atlanet, controlla Edisontel (tramite Edison), ed è
presente con una quota di minoranza in IPSE.
h) Energia. Nell’estate 2001 ha comprato (assieme alla
francese EdF) la Edison, secondo produttore italiano di energia elettrica.
Probabilmente è proprio questa la scommessa più importante fatta dalla FIAT
negli ultimi anni. Sembra che Paolo Fresco, nel famigerato incontro ad Arcore
del 2 ottobre scorso, abbia detto a Berlusconi: "fateci fare dieci nuove
centrali elettriche e noi riassumeremo una parte dei dipendenti licenziati da
FIAT Auto". [3]
2) La scialuppa di salvataggio delle privatizzazioni
Nella fuga dall’auto verso altri settori, le politiche dei
governi che si sono alternati al potere da dieci anni a questa parte hanno
grandemente contribuito. In particolare, le privatizzazioni e
(semi)liberalizzazioni, hanno dato un formidabile contributo a questo processo,
consentendo a capitalisti industriali in difficoltà di dirigersi su mercati
sottratti alla concorrenza internazionale, quali quelli delle imprese di
pubblica utilità (le public utilities). Ottenendo un duplice, brillante
risultato: la creazione di oligopolisti privati nell’erogazione di servizi di
pubblica utilità e la distruzione del tessuto industriale del nostro Paese.
Può sembra un’affermazione eccessiva. Però ormai queste
cose le ammettono anche i quotidiani finanziari. Ecco, ad esempio, cosa scriveva
Giangiacomo Nardozzi sul Sole-24 Ore lo scorso 20 ottobre: "la grande
stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività
dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di
importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni di più facili
profitti". E il Financial Times, già il 31 maggio scorso, dopo aver
parlato di "un declino inevitabile del legame affettivo [sic!] della
famiglia Agnelli nei confronti del business dell’auto", notava che tale
tendenza è "accentuata dal successo degli Agnelli nell’acquisire forti
business al di fuori del settore auto".
A onor del vero, va aggiunto che la FIAT è in buona
compagnia: fenomeni analoghi riguardano attualmente tanto il gruppo Pirelli
(acquisto di Telecom), quanto il gruppo Benetton (Autogrill e Autostrade). È
insomma l’intero gotha del mondo manifatturiero italiano che si trasforma in un
"capitalismo delle bollette".
3) Il basso costo del lavoro come unica leva competitiva
La "ritirata strategica" dal settore manifatturiero
alle public utilities contribuisce a spiegare i mancati investimenti nel settore
dell’auto, la politica di taglio dei costi senza respiro, la mancanza di una
chiara e convinta visione strategica. Però non spiega come sia stato possibile
per gli Agnelli credere (almeno sino al 2000 e all’accordo con GM) di poter
mantenere comunque una presenza autonoma nel settore auto. A questo riguardo non
vanno dimenticati gli incentivi pubblici, che hanno ritardato e occultato la
crisi: basti pensare che soltanto negli anni Novanta la FIAT è stata
destinataria di non meno di 11 mila miliardi di lire di agevolazioni pubbliche.
[4] Ma è soprattutto un altro fattore che ha pesato nella
scelta di FIAT di continuare sino all’ultimo su una strada rovinosa: mi
riferisco alla riduzione del costo del lavoro, considerato come leva esclusiva
per la competitività.
Di fatto, l’unica strategia perseguita con coerenza dalla
FIAT in tutti questi anni, a partire dalla storica sconfitta operaia del 1980,
è stata la compressione del costo della forza-lavoro. Attraverso salari tra i
più bassi d’Europa nel settore, ed un uso molto spinto della cosiddetta
"flessibilità": licenziando e mettendo in cassa integrazione
lavoratori assunti a tempo indeterminato, per sostituirli con il lavoro
straordinario, con l’utilizzo di lavoratori precari e sottopagati e con
l’esternalizzazione di parti sempre più importanti del processo produttivo. Il
punto è che la FIAT, illudendosi di poter sostenere la competizione in questo
modo, ha trascurato di fare i necessari investimenti in ricerca e sviluppo e si
è trovata rapidamente fuori mercato. È importante sottolineare con forza
questo aspetto della crisi FIAT. E questo per almeno due ordini di motivi. In
primo luogo, perché l’ossessione del costo del lavoro e della flessibilità
rappresentano uno dei più ricorrenti (e nauseanti) luoghi comuni della
pubblicistica di questi anni. In secondo luogo, perché questa ossessione è
stata riproposta proprio in relazione al caso FIAT - sfidando il ridicolo - da
parte del governatore della Banca d’Italia e del presidente della Confindustria.
In particolare al primo dei due, in quanto esperto di sacri misteri, vorremmo
chiedere di spiegarci un fatto che ha del miracoloso: per quale motivo, pur
essendo gli operai Volkswagen pagati un 30% in più degli operai FIAT, le Golf
si vendono, e le Stilo no.
[1] G. Oddo, "La lunga
marcia", il Sole 24 ore, 17/10/2002 (corsivi miei). Vedi anche G. Bodo,
"L’ansia di creare valore ha portato fuori strada", Borsa &
Finanza, 19/10/2002.
[2] V. Castronovo,
"Le ragioni di Ghidella", il Sole 24 Ore, 15/10/2002.
[3] Vedi L. Gianotti, "Dal 1980 in retromarcia. Un tramonto
targato FIAT", la Rinascita, 18/10/2002.
[4] Questa cifra, di fonte governativa, non tiene conto delle agevolazioni sulle
joint venture tra imprese italiane ed imprese straniere, gestite dalla Simest,
che sono destinate in gran parte a società "esterovestite" della
stessa FIAT. Quindi il saldo totale dei trasferimenti dallo Stato alla FIAT è
ancora superiore.