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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

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Il movimento dei lavoratori davanti ai nuovi assetti capitalistici internazionali della competizione globale

Luciano Vasapollo

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Gli elementi precedentemente presentati devono essere interpretati come l’avvisaglia della maturità di un grande regime di accumulazione mondiale nuovo. La fase, e allo stesso tempo, il paradigma dell’accumulazione flessibile, il funzionamento della quale è sottomesso alle priorità del capitale privato e finanziario altamente concentrato.

3. Dalla globalizzazione alla competizione globale

È necessario ricordare che negli ultimi dodici anni gli USA sono stati impegnati in prima linea in ben cinque conflitti. La prima guerra è stata quella del 1991 contro l’Iraq, poi c’è stata la guerra in Croazia e Bosnia, ancora l’aggressione ad opera della NATO (guidata sempre dagli USA) contro la Serbia, poi contro l’Afghanistan ed infine l’ultima ancora in corso contro l’Iraq. Con la scusa del “ terrorismo internazionale” i venti di guerra continuano a soffiare anche verso la Siria, l’Iran, la Corea, le Filippine, la Colombia, e così continuando nel contesto della “guerra globale e permanente”. E la recessione ormai presente da tempo negli USA, anche se mascherata da una crescita economica pompata dall’indebitamento interno ed estero, dal cambio sostenuto e dalla “bolla finanziaria” speculativa di Borsa, mette in evidenza una crisi che ha anche carattere strutturale e non semplicemente ciclico-congiunturale in cui l’economia di guerra è un tentativo di uscita dalla grande crisi economico-finanziaria e di accumulazione.

Ecco perché anche dopo ciò che è accaduto l’11 settembre del 2001 è diventato ancora più lampante che gli USA non possono aspirare ad essere gli unici gendarmi o i moralizzatori del pianeta, non avendo nessuna legittimità per essere una guida unipolare come “polizia del mondo”. Inoltre, devono essere considerati anche un paese che ha seri problemi interni di stabilità e di crescita economica, di sviluppo sociale, di equilibrio generale con forti contrasti etici, politico-economici, sociali, da risolvere. E se il predominio assoluto degli USA è in difficoltà, se la “belle epoque” della globalizzazione a guida unipolare è finita, allora quali sono gli immediati competitori nella spartizione del dominio globale?

Il primo paese da considerare è il Giappone, anche se ormai da anni sta subendo una crisi economica a guida USA, dalla quale ancora non riesce a uscire. Il Giappone è stato per lunghi anni additato come paese esemplare, sfuggito alla colonizzazione e anzi alleato degli occidentali. Questo paese è stato considerato per lunghi anni come un esempio di democrazia ed è stato sostenuto dagli USA sia nell’ingresso della NATO sia nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Con la convinzione che comunque il processo di sviluppo economico di questo paese non potesse costituire un problema, gli americani hanno sostenuto e trasferito al Giappone tecnologie di importanza determinante. L’economia giapponese però, con la realizzazione di prodotti sempre più sofisticati ed avanzati immessi nel mercato mondiale ed in particolare in quello americano, con i forti tassi di produttività, con il modello della flessibilità e della qualità totale, ha prodotto una sovrabbondanza di capacità industriale che ha portato nel 1997 allo scatenarsi di una crisi di sovrapproduzione. Si tratta di una crisi diretta, imposta e sostenuta nel tempo dal grande capitale USA. È proprio il grande capitale statunitense che si è reso conto che le proprie industrie tecnologiche, elettroniche, delle automobili, ecc., si sono trovate in una situazione di completo assoggettamento al potenziale industriale nipponico. Da quel momento il crollo della guida giapponese si è tirato dietro tutte le economie asiatiche che entrarono in una crisi profonda che si è estesa in breve tempo.

Certo nell’area asiatica le variabili per un nuovo, forte e competitivo polo geoeconomico e geopolitico sono molteplici, a partire dal ruolo che sta esercitando in particolare la Cina che può rafforzare e maggiormente concretizzare le mire espansionistiche a scapito degli USA. Un ruolo nuovo e determinato viene rivestito dall’Europa (soprattutto dopo l’istituzione della moneta unica europea), che oltre ad avere una significativa potenza militare (al momento limitata a livello nazionale ma che si sta attrezzando senza problemi particolari a essere organizzata a livello comunitario) ha una elevata capacità economica e finanziaria, al punto anche di superare gli USA nel volume degli scambi commerciali. Nel contesto presentato si inseriscono i procedimenti e le assunzioni di carattere commerciale e più specificatamente di tipo economico-finanziario da parte dell’UE. Infatti l’UE sta cercando di giocare un ruolo di primo piano e in aperta competizione con gli USA, che tentano in tutti i modi di rilanciare il loro ruolo di “gendarme” di un mondo a guida unipolare. Questo fa sì che l’UE potrebbe diventare la “nuova superpotenza” nel mondo. È chiaro che per poter raggiungere questo risultato l’UE dovrebbe acquisire, oltre ad una unità economica, anche e soprattutto una unità politica, cosa ben più difficile da realizzare considerando le notevoli differenze e discordanze esistenti tra i vari paesi europei.

Va ricordato che l’Unione Europea assomma una popolazione di circa 400 milioni di persone, che hanno degli standard di vita e di modello politico-economico molto simile a quello degli USA. Nell’Unione Europea anche l’Italia gioca un suo ruolo con particolari mire espansionistiche verso i paesi dell’Est europeo e l’Africa mediterranea; la Francia vede un modo per ridiventare una vera potenza mondiale; la Germania cerca soprattutto la sicurezza ed anche un riscatto che le restituisca un prestigio etico e politico, ma soprattutto di espansione geoeconomica. La riunificazione delle due Germanie ha fatto diventare automaticamente questo paese la prima potenza dell’Europa occidentale. La Gran Bretagna, invece, non è entrata volontariamente nell’Unione Monetaria, e può essere considerata una semplice appendice degli USA, essendo, a tutti gli effetti “vassalli fedeli” del grande “feudatario americano”. La Gran Bretagna vede nell’asse con gli USA l’unico modo per mantenere un ruolo di forte e di grande potenza, rafforzando i propri specifici interessi geopolitici.

L’Europa, comunque, non rappresenta soltanto e semplicemente “la testa di ponte” degli USA sull’Eurasia; è per questo che non è stato possibile influenzare fino in fondo in chiave americana il lungo cammino dell’integrazione monetaria ed economica dell’Europa. Le guerre economiche sui mercati del cambio, gli attacchi speculativi sui mercati finanziari, l’uso delle crisi geopolitiche di area (quelle nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in tutta l’Eurasia, e quelle ad apparenti connotati diversi dell’Argentina, sono sistematiche e sintomatiche) rappresentano momenti di guerra economica, finanziaria, commmerciale e politica di una violenta competizione fra poli geoeconomici, in particolare USA e UE. Quest’ultima è ormai in forte conflitto con gli USA sia per quanto riguarda l’imposizione del nuovo ordine geopolitico mondiale, sia per la spartizione del mercato mondiale sia, infine, per il controllo delle mire espansionistiche geoeconomiche del polo asiatico da parte ancora del Giappone o del nuovo ruolo che può assumere la Cina. Questo è il contesto della competizione globale.

Quelli evidenziati sono solo alcuni aspetti della guerra di egemonia economica che si fa sempre più frontale in tutte le aree del pianeta fra il polo geopolitico-geoeconomico USA e quello dell’UE. E lo scontro è diventato ancora più duro con l’avvento della moneta unica europea e con il timore da parte degli USA che nel tempo crescano le opportunità dell’euro di rafforzarsi e diventare valuta di riserva e di riferimento internazionale.

Comunque la mondializzazione capitalistica e l’intento del capitale finanziario di dominare il movimento di capitale nella sua totalità, non cancellano l’esistenza degli Stati nazionali, bensì tali processi accentuano i fattori di gerarchizzazione tra i paesi e ne ridimensionano la configurazione, acutizzando così i conflitti per il controllo su quelle aree a maggiore interesse di spartizione geopolitica e geoeconomica.

È così identificato il paradigma economico istituzionale della competizione globale per blocchi geoeconomici.

 

4. Il contesto dell’attuale quadro macroeconomico e le tendenze in atto: l’economia di guerra

I paragrafi precedenti hanno evidenziato come si stia configurando un particolare ed intenso processo di territorializzazione delocalizzativa a carattere nazionale e internazionale dell’economia, spiegabile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo, o meglio di crescita capitalistica. Si afferma una diversa logica economico-produttiva, quella di una nuova accumulazione generalizzata, cioè un paradigma di nuove forme di accumulazione che investono sempre più il sociale, l’intero vivere sociale, attraverso forme sempre più diversificate dei modelli di produzione e nell’organizzazione del lavoro rispetto ai precedenti processi produttivi. Un paradigma dell’accumulazione flessibile, della produzione snella e della terziarizzazione che, però, convive con i modelli di tipo industriale e con al centro sempre il lavoro dipendente, salariato, con logiche sempre più sfrenate di sfruttamento, con estorsioni sempre più massicce di plusvalore assoluto e relativo.

È immediato capire che il modello dell’accumulazione flessibile ha bisogno della ristrutturazione e di un rilancio capitalistico incentrato ancora sullo sfruttamento del lavoro, con forme diversificate a livello internazionale che spiegano la competizione globale come conflitto aperto fra poli geoeconomici, in cui anche l’Italia ormai gioca un ruolo di primaria importanza.

È questo il contesto in cui si afferma la nuova struttura della società del capitale. Ciò avviene a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità delle dinamiche della crescita capitalistica collegate nell’ambito di un rapporto capitale-lavoro sempre finalizzato al controllo sociale interno ad ogni paesi capitalista. E ciò è ancora più evidente analizzando i dati macroeconomici della crisi recessiva capitalista, crisi che spinge all’opzione imprescindibile della guerra guerreggiata.

Il rallentamento dell’economia mondiale, palesato in maniera evidente nella seconda metà del 2000 a causa dell’aumento del prezzo del petrolio e del netto indebolimento del processo di accumulazione, si è accentuato nel 2001-2002 e nel 2003. Iniziato negli Stati Uniti si è esteso rapidamente a tutte le aree del globo. Nella media del 2001 il prodotto mondiale è aumentato del 2,5%, contro il 4,7 nel 2000. La sfavorevole fase congiunturale si è accompagnata, ma allo stesso tempo ne è stata influenzata, a un drastico rallentamento degli scambi [1]. La dinamica del commercio mondiale di beni e servizi ha registrato un crollo, dal 12,4% nel 2000 a -0,2 nel 2001 per poi riprendersi nella prima metà del 2002 e stabilizzarsi verso il basso successivamente. La crescita dei flussi commerciali è andata di pari passo con quella dell’attività manifatturiera, segnando l’inizio di un periodo di moderata accumulazione [2]. I dati presentati dall’FMI collocavano per il 2002 il tasso di sviluppo del prodotto e del commercio mondiale al 2,8 e al 2,5% rispettivamente. Più volte nello scorso anno, fino ai primi mesi del 2003, le previsioni sull’andamento dell’economia mondiale sono state riviste al ribasso. Le prospettive di crescita sono solo parzialmente migliorate nei primi mesi del 2003, riflettendo soprattutto l’evoluzione, più favorevole del previsto, grazie agli effetti dell’economia di guerra. Il commercio mondiale di beni e servizi non dovrebbe accelerare molto nel corso del 2003; il suo sviluppo si potrebbe elevare nel 2004, sempre che dovesse tendere a consolidarsi la ripresa dell’economia negli USA, visto che già negli ultimi anni gli investimenti in macchinari e in attrezzature informatiche hanno ripreso a crescere per l’effetto economico del keynesismo di guerra.

L’impulso al rallentamento è provenuto soprattutto dagli USA, le cui importazioni sono cadute; fra il 1994 e il 2000 erano aumentate, in media, di oltre l’11% all’anno. Inoltre nel 2001 l’attività produttiva negli USA è aumentata dell’1,2%, rispetto al 4,1 dell’anno precedente. All’origine dell’andamento ciclico negativo anche del 2002 e 2003 vi è la caduta dell’accumulazione di capitale, soprattutto per i beni delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e il consistente ridimensionamento delle scorte. Gli investimenti fissi lordi, cresciuti del 7,6% nel 2000, sono calati del 2,0 nel 2001; il loro contributo alla crescita, da positivo per 1,3 punti percentuali nel 2001, è divenuto negativo. Successivamente nell’ultimo periodo ci sono stati momenti in cui il prodotto è tornato però a salire. Il dato di crescita ha riflesso un aumento parziale dei consumi privati che solo in parte ha compensato la riduzione degli investimenti, iniziata nel 2000 e continuata successivamente; non hanno mostrato miglioramenti, invece, la produzione industriale e il mercato del lavoro che continuano a registrare tassi di disoccupazione superiori al 6% della forza lavoro; esso era pari al 4% alla fine del 2000 [3].

Anche dagli ultimi dati risulta che l’economia americana è in forte difficoltà, evidenziando significativi segni della recessione economica per più trimestri consecutivi. A ciò si può aggiungere una continua perdita di fiducia dei consumatori che negli ultimi mesi ha toccato la soglia più bassa degli ultimi dieci anni e i mercati azionari continuano ad essere in balia di forti tensioni. La debolezza dell’economia americana è riconosciuta anche dalla stessa Federal Reserve, dalla Banca Centrale e da altri organismi economici internazionali che hanno evidenziato i rischi di più intense cadute in termini recessivi e di risvegli di forti tendenze alla deflazione, tant’è che si comincia a parlare anche per il 2003 e il 2004 di eventuale ripresa ma in termini molto lenti. In questo quadro continua l’attacco dell’amministrazione Bush al pubblico impiego. Infatti negli ultimi mesi del 2002 si è avviata la più forte campagna di privatizzazione dei servizi di pubblico impiego degli ultimi 20 anni. Si è arrivati ad ipotizzare che circa 850.000 dipendenti pubblici (cioè la metà del totale ) dovrà passare al settore privato. La manovra ha un chiaro significato perché tende a ridurre i costi del personale in una fase di forte crisi della finanza pubblica e di indebolire i sindacati che nel settore del pubblico impiego degli USA hanno ancora una forte credibilità. Non a caso la legge sulla “Homeland Security” inserisce un forte controllo esercitato dall’Amministrazione Bush sulle assunzioni, i licenziamenti e i trasferimenti del personale civile nel ministero per la Sicurezza Interna. Il processo di privatizzazione portato avanti da Bush non punta ai servizi sanitari o previdenziali, già quasi completamente privatizzati, ma a portare un ulteriore attacco ai sindacati privatizzando, ad esempio, la gestione dei servizi di manutenzione dei pacchi, i servizi di nettezza urbana, la ristorazione negli uffici pubblici, ecc. Si noti inoltre che per tali progetti di privatizzazione la Casa Bianca non avrà bisogno di chiedere alcuna autorizzazione al Parlamento e tutto ciò che, dall’inizio del 2002, si è avuta una ulteriore riduzione dei costi del lavoro trasferendo oltre il 15% del personale civile delle agenzie federali ai privati.

Per quanto riguarda il Giappone, nel 2001 la sua economia è entrata nuovamente in recessione, per la terza volta negli ultimi dieci anni. L’attività economica è diminuita, riflettendo il ciclo negativo degli investimenti privati e la forte caduta delle esportazioni. La produzione industriale è caduta e la domanda interna è rimasta stagnante e la spesa delle famiglie è cresciuta pochissimo. Il tasso di disoccupazione è aumentato, e negli ultimi mesi la piccola ripresa della domanda estera e dell’economia statunitense dovuta agli impulsi dell’economia di guerra, ha determinato un lieve miglioramento del quadro congiunturale giapponese; la produzione industriale si è stabilizzata, le esportazioni hanno segnato piccoli incrementi. Gli organismi economico-finanziari internazionali prevedono per il 2003-2004 una crescita positiva, grazie ancora all’ipotizzato miglioramento del contesto internazionale, piuttosto che ad una effettiva ripresa della domanda interna, ma ciò grazie alla domanda indotta dal contesto generale di economia di guerra.


[1] Cfr. Banca d’Italia “Assemblea generale ordinaria dei partecipanti”, tenuta in Roma il 31/05/02. Anno 2001, centottesimo esercizio.

[2] Cfr. Confindustria, Previsioni Macroeconomiche “La politica economica verso la finanza. Federalismo e bilancio pubblico”. Roma. Settembre 2002.

[3] Cfr. Ministero dell’Economia e delle Finanze “Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese (2001)”. VolumeI. Edit. Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2002.