Sul lavoro atipico in America Latina
Jacob Carlos Lima
La “nova informalidade” e i lavoratori: più guadagno (?), meno diritti
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Questa situazione fa in modo che non esista alcuna attività
sindacale in queste città. Sia che si tratti di salariati con contratto o
senza, produttori-venditori, gruppi organizzati o semplici venditori, questi
lavoratori non possiedono un’identità professionale ben definita. Si pongono
fin dall’inizio come lavoratori flessibili. Possono essere allo stesso tempo
sarte, proprietari, commercianti, trasportatori con guadagni e orari di lavoro
variabili. Possono dormire nel posto di lavoro, lavorare nel fine settimana o
rimanere senza guadagnare niente per lunghi periodi. Non hanno diritto a periodi
di ferie, riposo remunerato, tredicesima o pensione. Ogni contratto è negoziato
direttamente con il padrone che a volte è un membro stesso della famiglia.
Il paradosso della situazione nell’area è la tendenza alla
formalizzazione e all’assunzione, mentre l’informalidade continua
ancora a compromettere l’espansione degli affari. La maggiore competizione
arrivata con le importazioni e con altre forme di riduzione dei costi, aveva
richiesto nuove tecnologie e nuove forme d’organizzazione della produzione e
nuove competenze dei lavoratori. Nel frattempo la maggior parte dei lavoratori
aveva continuato nell’informalidade, passando non tanto dalla
condizione formale a quella informale, quanto da quella di sarta autonoma o
stipendiata con basso ingaggio a quella di proprietaria e venditrice o anche
entrambe in una circolarità continua, frutto della crisi che a volte
minacciava, a volte sosteneva e a volte espandeva la produzione locale.
2. Le cooperative della produzione locale
La “nuova” informalidade sembra avere una forma
diversa attraverso la flessibilità. In questo modo abbiamo sia un ritorno al
lavoro domestico, il cosiddetto lavoro girato a terzi per contingenza
(Abreu), nel quale le lavoratrici utilizzano le proprie attrezzature
sostenendone le spese, come l’acqua e la luce, sia un recupero d’altre forme
di rapporto di lavoro, prodotto di contesti storici differenti, come le
cooperative di lavoro.
Le cooperative di lavoro, in una prospettiva più recente,
sono state fortemente incentivate tanto dalle organizzazioni sindacali, dalle
ong e dagli organismi internazionali, quanto dalle imprese e dagli organi
statali. Sono le cosiddette cooperative pragmatiche o strumentali,
in gran parte senza compromesso con ideali di cooperazione e per lo più rivolte
ad obiettivi specifici, sia nell’affrontare la disoccupazione strutturale e la
generazione del reddito, sia nella riduzione dei costi della gestione della
forza lavoro per le imprese (Comforth and Thomas, 1990; Comforth, 1995).
Questi problemi, non sono proprio nuovi, essendo stati
evidenziati, sin dalla fine del secolo passato, con o senza successo, dal
movimento operaio e dalla letteratura specializzata sull’esperienza delle
cooperative:
2.1. La questione dell’autonomia. Quando organizzata dai
sindacati o dalle organizzazioni dei lavoratori, l’autonomia è vincolata al
successo dell’impresa. Tradizionalmente questo successo ha significato, con
qualche eccezione, l’assunzione di lavoratori stipendiati e, progressivamente,
la trasformazione della cooperativa in impresa comune, con un numero ristretto
di soci-proprietari. La questione è presente nella genesi del movimento delle
cooperative, conosciuta come “teoria della degenerazione delle cooperative”
[1], nella quale il successo della loro attività le trasformava in
imprese comuni poco coinvolte negli ideali tipici delle cooperative e distanti
dagli obiettivi di cooperativismo autonomo dei lavoratori o di democrazia nel
luogo di lavoro. Quando lo Stato è l’organizzatore le cooperative finiscono
per diventare dipendenti dai condizionamenti della politica e con l’essere
acquistate dallo Stato stesso o da altre imprese ad esse legate.
2.2. Continuità e cultura operaia. Le cooperative crescono
di numero nei periodi di crisi, e tendono a diminuire quando la situazione
economica migliora e aumenta il numero dei posti di lavoro. Il lavoratore
finisce per preferire la “sicurezza” rappresentata dal lavoro stipendiato,
per quanto virtuale che sia, e abbandona la cooperativa. Minori guadagni, “meno”
diritti e maggior responsabilità sulla produttività finiscono per demotivare
il lavoratore.
2.3. Il lavoro collettivo associato nel capitalismo. Come
alternativa all’interno di un sistema capitalista, la creazione di lavoro e di
guadagni collettivi hanno un basso richiamo ideologico, soprattutto se vincolati
a proposte politiche più ampie.
2.4. La creazione di cooperative d’imprese per la riduzione
dei costi di produzione. L’impresa “incentiva” o ugualmente organizza le
cooperative al fine di renderle estranee alla produzione. In questo caso l’impresa
mantiene il controllo assoluto sulla “cooperativa”, che finisce con il
diventare come un ramo d’azienda, ed il lavoro associato a questa rimane solo
una forma d’impiego nascosto che permette all’impresa di evitare di pagare
gli oneri sociali.
2.5. La creazione di cooperative per le Organizzazioni
Internazionali rivolte allo sviluppo autonomo della comunità in una prospettiva
d’associazionismo. Gran parte dei progetti, vincolati alla generazione del
reddito, non danno credito sia al mercato sia alla cultura locale.
2.6. Esternazione dei soggetti organizzatori. Raramente l’organizzazione
è degli stessi lavoratori e si adatta alla situazione congiunturale.
A partire dagli anni ’70, con la ripresa dell’economia
mondiale, la rivoluzione tecnologica e la crescita della disoccupazione
strutturale, in America Latina, non solo quindi in Brasile, le cooperative sono
state nuovamente indicate come mezzo per uscire dalla crisi dell’impiego e
dall’abuso stesso dello sfruttamento del lavoro, rappresentato dalla riduzione
degli impieghi con contratto formale e dal diffondersi di forme di contratti di
lavoro precari o addirittura inesistenti.
Sono state create diverse cooperative da più soggetti
affinché funzionassero come centri di produzione esterni per imprese operanti
nei più disparati settori. Ciò che si vuole mettere in evidenza in questo
contesto è l’esperienza delle cooperative per la produzione industriale del
settore dell’abbigliamento (abiti e scarpe), organizzate nel Ceará e in
diversi stati del nordest, che hanno operato come imprese subappaltatrici per
aziende locali e del sud-sud-est del paese, nel periodo che va dal 1994 al 2000.
Questa esperienza è iniziata con un programma implementato dal governo del
Ceará per attrarre investimenti industriali e per la produzione interna. Il
programma prevedeva l’organizzazione, da parte dello Stato, di cooperative
dislocate in diverse città dell’interno che avrebbero lavorato con imprese
associate selezionate dal governo. Edifici e infrastrutture dovevano essere
forniti dallo Stato con il finanziamento del PROGER e di altri programmi
federali e statali. Inoltre erano stati creati centri di formazione per i
lavoratori. La possibilità di guadagnare un salario minimo legato alla
produttività era allettante o per lo meno sufficiente ad attrarre quei migliaia
di lavoratori che avevano già iniziato ad iscriversi alle cooperative [2].
Il funzionamento stabile delle cooperative dipendeva dalla
continuità dei contratti imprese-cooperative. Dove ciò avveniva, i guadagni
erano stabili e le città sede ne beneficiavano per l’aumento delle entrate
risultanti dall’incremento dei consumi. I lavoratori prima occupati in
attività di sussistenza o le donne che non avevano mai avuto un “lavoro”
esterno, si andavano specializzando nella sartoria industriale.
Il programma è stato però interrotto a cominciare dal suo
principale progetto. Un immenso progetto che comprendeva un’impresa, per la
produzione d’abbigliamento, costituita da investitori di Taiwan e da 15
cooperative in subappalto, gestite da questa stessa. Per problemi di gestione,
le commesse hanno iniziato a scarseggiare compromettendo il funzionamento delle
cooperative e i salari delle lavoratrici. Queste hanno cominciato ad uscire
dalle cooperative ed a rivolgersi alla giustizia denunciando assunzioni
mascherate. Sindacato e Chiesa appoggiavano le lavoratrici che per alcuni mesi
non avevano guadagnato nulla. Progressivamente le cooperative sono state chiuse.
L’impresa manteneva supervisori nelle cooperative che gestivano, di fatto, il
loro funzionamento. Le direzioni delle cooperative funzionavano invece come
mediatrici tra l’impresa e i lavoratori.
Oltre a questo progetto ve ne sono stati altri, nel settore
delle calzature, organizzati in grandi unità, che hanno funzionato con maggior
continuità fino alla svalutazione della moneta nel 1999. Con la crisi, alcune
imprese hanno sospeso le commesse e le cooperative in pratica sono state
costrette a chiudere. Altre, sono state nuovamente attivate con l’intervento
dalla giustizia e obbligate ad assumere i lavoratori.
Queste cooperative avevano in comune il controllo del lavoro
effettuato dalle imprese, sebbene l’onere di gestione - allontanamento dei
soci, misure disciplinari e altro - fosse di competenza della direzione della
cooperativa, eletta tra i lavoratori considerati più capaci oppure assunti a
questo scopo.
L’identificazione con l’impresa era completa, raramente
il lavoratore capiva il significato della cooperativa. Fino a quando i salari
erano pagati regolarmente, nonostante problemi di rapporto e di condizioni di
lavoro, e per paura di perdere il posto, le rivendicazioni erano contenute. Nel
frattempo, le denuncie contro le cooperative andavano crescendo e obbligavano il
governo dello Stato a ritirare il sostegno al progetto e gli incentivi alle
nuove cooperative. Ascoltati sulla loro opinione riguardo alle cooperative, i
lavoratori rispondevano che tutto andava bene, sia quando avevano un salario
mensile (in condizioni di stabilità) sia quando erano consapevoli dell’inganno
(in mancanza di condizioni di stabilità). Ma tutti sostenevano che l’unica
differenza tra le cooperative e le imprese era che nelle prime non avevano alcun
diritto. Erano, quindi, lontano dall’ideale di lavoro collettivo e autonomo.
Vedevano il lavoro nelle cooperative come una possibilità per non dover
emigrare nella capitale o nel sud del paese, poiché avevano un’occupazione
remunerata, o come un trampolino per un impiego in una fabbrica.
Qui abbiamo una situazione che, in alcuni casi è simile in
altri diversa da quella delle sarte di Santa Cruz do Capibariba e Toritama em
Pernambuco. Per loro infatti la questione dell’autonomia si contrappose alla
prospettiva dell’assunzione, mentre per i lavoratori della cooperativa del
Ceará l’assunzione è vista come un obiettivo da dover raggiungere. Il
cluster pernambucano funziona da più di 30 anni nell’informalidade e
predomina la cultura della “autonomia” dei piccoli produttori.
Le cooperative sono imposte dalla politica statale per la
generazione del reddito e per la riduzione dei costi necessari ad attrarre le
imprese. Le cooperative funzionano come una specie d’accumulo primitivo del
capitale, per creare lavoro collettivo ma non solidale o autonomo. I lavoratori
senza alcun’esperienza di lavoro salariato sono trasformati in associati, non
avendo però coscienza del fatto che ciò significa soltanto una forma
differente di rapporto salariale, in completa assenza di contratto e di diritti.
Assunzioni mascherate o rese flessibili dalla completa perdita di diritti.
3. Lavoro temporaneo per lo Stato: gli Assistenti Sociali della Salute
Il risanamento economico degli anni ’80 è stato
accompagnato dall’ideale neo-liberale che ha lasciato la sua impronta nelle
riforme, o per lo meno nei tentativi di riforma, dello Stato brasiliano come:
abbattimento delle spese sociali, pareggiamento dei conti pubblici, riduzione
del funzionalismo (la classe degli statali), privatizzazione e decentramento. Le
riforme riguardano in maniera differente il capitale e il lavoro. Per quanto
riguarda il capitale, nel momento in cui questo si allontana direttamente dal
sistema produttivo, lo Stato continua a garantire la sua rigenerazione
attraverso un apparato di leggi, infrastrutture e politiche d’incentivo, che
mutano il criterio d’impiego ma ne mantengono il contenuto; nel caso del
lavoro, invece, il suo costo è visto come oneroso e responsabile, in gran
misura, del deficit dei conti pubblici. A ciò si aggiunge il discorso
imprenditoriale sulla riduzione dei costi, sulla produttività e sulla gestione
nel nome della qualità e dell’efficacia del servizio pubblico.
Non pretendiamo d’entrare in merito all’azione dello
Stato e alle sue contraddizioni nella fase attuale che sta vivendo il
capitalismo, in particolare in America Latina, ed evidenziare l’adozione di
politiche flessibili nel concludere contratti con i lavoratori per l’implementazione
delle politiche pubbliche. Differentemente da quanto accade nel caso delle
cooperative presentato precedentemente, nel quale lo Stato prima si poneva come
intermediatore nel rapporto tra imprese e lavoratori attraverso l’organizzazione
di cooperative e in seguito se n’estraniava, presentiamo una situazione di
permanente esitazione della politica sociale, evidenziando nuove variabili
presenti nell’organizzazione del lavoro. Pertanto faremo una breve descrizione
della sua introduzione nel Ceará e dell’analisi che designava il lavoro
flessibile come uno degli elementi di successo del Programma.
Nel 1987, un nuovo gruppo politico era salito al governo
dello Stato del Ceará. Conosciuto come “giovani imprenditori”, pretendeva
di cambiare la facciata oligarchica del potere dello Stato con una politica
riformista in accordo con le mutazioni socio-economiche in corso in quel
periodo. Con una politica aggressiva nell’attirare investimenti nell’industria
e con la riforma dell’apparato sociale, oltre a politiche settoriali nell’area
della sanità pubblica, in quella del turismo ed in altre, aveva ottenuto un
forte appoggio dalla popolazione che gli garantiva una continuità
amministrativa, messa in evidenza da quattro amministrazioni consecutive, di cui
tre con lo stesso governatore.
Il nuovo governo cearense, aveva attuato la riforma dell’apparato
statale eliminando alcune cariche e funzionari fantasma, tagliando incarichi,
proibendo nuove assunzioni e cominciando ad utilizzare il contratto temporaneo
di lavoro sin dai primi successi di quella politica nata dalla situazione d’emergenza
causata dalla siccità che colpiva lo Stato.
Prima di continuare, è necessario aprire una parentesi:
così come attività informale, il lavoro associato in cooperative di produzione
ed il lavoro temporaneo per lo Stato, non sono una novità dei tempi della
flessibilità. In Brasile, lo Stato aveva utilizzato sempre contratti temporanei
in settori come la sanità e l’educazione, per risanare la carenza di concorsi
pubblici che non erano mai indetti. Negli anni ’70 e ’80, per citare appena
un esempio, il governo dello Stato di San Paolo in Brasile utilizzava migliaia
di professori con contratto temporaneo per coprire le sostituzioni per permessi,
o semplicemente per mancanza di professori vincitori di concorsi. L’innovazione
è a carico del contesto. Ma il contratto temporaneo non è accompagnato dalla
prospettiva di un futuro concorso pubblico o da quella di una certa stabilità.
Pensando inizialmente di attenuare gli allarmanti indici di
mortalità infantile che gravavano sullo Stato, oltre all’abituale miseria per
la continua siccità, il Programma si caratterizzava per un forte decentramento
delle attività e al contempo per il mantenimento del controllo centrale da
parte della Secretaria Estadual de Saúde. Era stato preceduto da una campagna
pubblicitaria che evidenziava il carattere opzionale dell’adesione dei
municipi, ma che funzionava, allo stesso tempo, come pressione verso l’adesione
dei sindaci. Questo perché la sua organizzazione non interessava politicamente
i sindaci considerando che: la segreteria selezionava gli assistenti per i
municipi; persone della comunità che avrebbero ricevuto un addestramento per l’insegnamento
di nozioni base sull’igiene e sulla salute della popolazione. Ogni assistente
sociale sarebbe stato responsabile da 100 a 150 famiglie le quali, a seconda del
luogo, avrebbe potuto rappresentare un numero elevato d’impieghi diretti. Nel
frattempo, questa selezione sfuggiva ai sindaci, così come il pagamento di
questi assistenti che avrebbero dovuto ricevere un salario minimo direttamente
dalla segreteria della Sanità. La contropartita dei municipi stava nell’assunzione
di un’infermiera che doveva essere pagata dal comune e che sarebbe stata
responsabile del controllo del lavoro degli assistenti. Anche l’infermiera era
preparata dalla segreteria di Stato e godeva d’autonomia nell’implementazione
d’attività considerate necessarie al municipio.
La selezione e l’addestramento degli assistenti avveniva
nel comune nel quale il lavoratore viveva, e per questo giovava della conoscenza
della vita locale nel fornire il servizio d’informazione sulle cure basilari
per l’igiene dei neonati. Questi assistenti avrebbero ricevuto un salario
minimo ed erano obbligati a visitare mensilmente un determinato numero di
persone nella loro area. L’ampia propaganda sul servizio forniva un elemento
di maggior controllo: la famiglia che non avesse ricevuto la visita avrebbe
potuto sporgere un reclamo all’infermiera coordinatrice. Dall’altro lato, il
lavoro dell’assistente assumeva un carattere fortemente comune: in aree
estremamente carenti rappresentava, attraverso le uniformi degli assistenti e l’esecuzione
di un servizio pubblico, la visione della presenza dello Stato.
[1] Webb.
[2] Per le
cooperative di Cereá si veda Lima (1997, 1998, 2000)