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La transizione difficile

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Nicola Galloni
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Direttore generale, consigliere del Ministro del Lavoro per le politiche dell’occupazione.

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Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione

Nicola Galloni

Una riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro, di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.

 

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Il punto è che, in genere, il lavoratore che riceve un’adeguata formazione, desidera altresì aumentare, almeno in proporzione, la quota del proprio valore aggiunto; il più delle volte cambiando datore di lavoro. Di qui la considerazione per cui, nell’impresa, i costi della formazione finiscono per risultare un regalo alla concorrenza e una perdita secca per l’azienda che si è assunta tali oneri.

Le soluzioni a tale circostanza - che scoraggia le imprese dall’impegnarsi nella formazione dei propri addetti - potrebbero rivelarsi di tre tipi.

Primo: il finanziamento pubblico a tali imprese, magari sotto forma di fiscalizzazione degli oneri o riduzioni della tassazione dei profitti (che, poi, sono quasi la stessa cosa come si cercherà di vedere al momento opportuno).

Secondo: la costituzione di imprese pubbliche o il sostegno ad imprese private che si occupino esclusivamente di formazione occupazionale.

Terzo: la valutazione del costo affrontato dall’impresa per formare un addetto, il cui controvalore dovrà essere indennizzato dalla successiva impresa al momento dell’assunzione; si potrebbe, così, introdurre una specie di “cartellino” la cui durata - successiva ad ogni intervento di formazione ed al suo costo/valore - dovrebbe essere di circa 2-3 anni (cioè lievemente inferiore ai tempi del mutamento tecnologico che si osserva attualmente nella produzione). Così, il lavoratore che si licenzia pochi mesi o settimane dopo l’intervento formativo non avrebbe freni, ma l’impresa che se ne è fatta carico, potrebbe recuperare almeno l’ammontare del costo formativo stesso. Tra la seconda e la terza soluzione non ci sono molte differenze, se le imprese (pubbliche o private) che effettuano la formazione si fanno remunerare dai nuovi datori di lavoro.

La prima soluzione sembra più semplice, ma forse richiede riflessioni maggiormente approfondite circa la natura e le dinamiche del valore aggiunto, della remunerazione dei lavoratori in rapporto alla qualità delle loro prestazioni (quindi la loro produttività), la formazione e il trattamento fiscale di vari tipi di profitto.

 

2. Spartizione o sparizione del valore aggiunto?

 

Ai fini di un ragionamento di politica economica e con sufficiente approssimazione, si può sostenere che il valore aggiunto o prodotto lordo viene ottenuto sommando retribuzioni lorde del lavoro, profitti e altre remunerazioni dei fattori oppure sottraendo dal fatturato tutti i costi escluso quello del lavoro.

Considerando tali grandezze a livello macroeconomico (un livello che, con la cosiddetta globalizzazione, è passato dagli aggregati nazionali a quelli sovranazionali), si evidenziano due aspetti: a) la concorrenza tra profitto e lavoro (espresso dal suo costo) nella spartizione del valore aggiunto; b) la possibilità di far crescere il fatturato a seguito di un aumento del costo del lavoro, possibilità su cui si è basato tutto lo sviluppo dei paesi cosiddetti industrializzati per oltre un secolo e mezzo, possibilità che ha rappresentato, nella storia dell’umanità, il periodo di maggiore mobilità sociale e, seppure con eccezioni, anche di promozione sociale.

E’ unicamente in assenza di progresso tecnologico e, ancora meglio, in assenza di tecnologie rilevanti, che un aumento del costo del lavoro, a parità di tutto il resto, determinerebbe solo una crescita nominale (inflattiva) del valore aggiunto e del fatturato: l’adottare categorie e ragionamenti, corretti per un’economia primitiva e statica, in un’economia con ben diverse caratteristiche, porta ad impedire la comprensione dei fenomeni reali. Purtroppo non è difficile constatare la perniciosa efficacia delle concezioni primitive che sono capaci di dare un senso ai peggiori pregiudizi e ai più retrivi luoghi comuni che, invece, sarebbe utile estirpare.

Ovviamente qui non si sta sostenendo che qualunque variazione positiva del costo del lavoro sia compatibile con la crescita reale e non illusoria (inflattiva) del valore aggiunto e del fatturato; ma che, a determinate condizioni, variazioni positive del costo del lavoro determinano o possono determinare sviluppo reale (al netto dell’inflazione) e che questo è stato il meccanismo della straordinaria crescita industriale e sociale dell’Europa occidentale, degli Stati Uniti d’America e degli altri paesi che hanno potuto e saputo mettere insieme democrazia economica, un movimento operaio ben organizzato e il pluralismo delle forze politiche.

Quale è, dunque, la condizione principale che permette di trasformare gli aumenti monetari dei salari in reddito effettivo?

Occorre che l’aumento salariale si accompagni all’introduzione di tecnologia che comporti la riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto; in tal senso, se c’è aumento del costo - inteso come valore del fattore utilizzato - tuttavia si riscontra anche riduzione del costo per unità di prodotto.

Di qui nasce non la semplice possibilità, ma la necessità, di un aumento della capacità di acquisto dei lavoratori che, a parità dei livelli occupazionali, devono poter acquistare, appunto, la maggiore quantità di beni prodotti grazie alla nuova tecnologia.

Se, dunque, l’aumento dei salari (che si generalizza nel sistema macroeconomico) è pari alla riduzione di costo per unità di prodotto - determinato dalle tecnologie o dalla migliore organizzazione del lavoro - il sistema è in equilibrio: ma si tratta di un equilibrio nuovo dove, a parità di profitto e di occupazione, salari e fatturato (vendite e prodotto) sono aumentati e il valore della moneta - espresso dal rapporto tra quantità di moneta e beni in circolazione - non si è ridotto. E’ ovvio che se gli aumenti salariali superano quelli della produttività (un termine equivalente alla quantificazione del progresso delle tecnologie e/o dell’organizzazione del lavoro) si determina una inflazione da costi. Nulla impedisce, tuttavia, che tali aumenti inflazionistici stimolino - se ce ne sono le condizioni concrete determinate dallo stato della ricerca scientifica - investimenti in tecnologia capaci di riportare il sistema in equilibrio. Quando c’è inflazione derivante dal conflitto distributivo, infatti, i mezzi monetari - seppure leggermente svalutati - non tendono a ridursi, e ciò vale anche per gli investimenti produttivi ed il loro finanziamento. Il modello appena descritto - che presuppone e, forse, determina democrazia industriale, forti sindacati, un movimento operaio organizzato e disponibilità di tecnologie e di tecniche sempre più efficaci - è stato praticato per decenni: con conseguenze, nel complesso, positive anche se, da diversi punti di vista, non tutte positive.

Il consumismo sfrenato è stato sottoposto a critica dai filosofi moralisti e dai cultori dell’ambiente; le rigidità implicite nei modelli fortemente sindacalizzati di gestione della forza lavoro hanno messo in crisi proprio gli impianti di grandi dimensioni; i periodi e i pericoli di inflazione hanno generato allarme presso i benpensanti che, come è noto, rappresentano un fortissimo partito trasversale. Ma, soprattutto, si trattava di un “modello” che riduceva il profitto a variabile residuale e che assicurava ai problemi dei lavoratori, direttamente coinvolti nel processo produttivo, una centralità che era soprattutto politica. Scindere, infatti, il momento squisitamente economico da quello politico nel conflitto per la spartizione del valore aggiunto appare un’opera ardua se non impossibile.

Una serie di circostanze, su cui, adesso, appare superfluo cercare un approfondimento, ha, come è noto, determinato un netto superamento di quel modello attraverso un quasi simmetrico capovolgimento delle posizioni di forza, sicché - in mancanza di correttivi - la remunerazione del lavoro tende a divenire una variabile residuale e dipendente del processo produttivo ( e la centralità politica è stata assunta o ri-assunta dai percettori di profitto).

Ma la simmetria politica non comporta effetti sociali parimenti simmetrici: uno sviluppo sostenuto che sacrifichi il profitto (ed assegni un ruolo molto forte agli investimenti pubblici), ad esempio, tenderà a consentire una adeguata e continua valorizzazione dei patrimoni; mentre il “sacrificio” nella remunerazione del lavoro, a medio andare, non è compatibile con uno sviluppo sostenuto (chi si “sviluppa”, infatti?) e, a lungo andare, non garantisce nemmeno gli alti profitti sicché le minori attese di questi ultimi deprimeranno il trend degli investimenti.