Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione
Nicola Galloni
Una riduzione della quantità di lavoro per unità di
prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che
aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo
in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce
più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno
occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto
non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro,
di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.
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Per quanto si possa e si voglia sviscerare l’argomento da
un punto di vista sociale o scientifico, esso manifesta sempre la sua
prioritaria connotazione politica (che non vuol dire né ideologica, né
fideistica, ma, anzi, storica e reale nella pienezza di tali aggettivi):
affinché la centralità accordata al profitto non determini l’aggravarsi dei
problemi della società e dell’economia, occorrerebbe, infatti, che i
lavoratori - una volta ottenuta la loro remunerazione contrattuale, ad esempio,
a livello della “sussistenza” - partecipassero abbondantemente alla sua
spartizione. A tale scopo non basterebbe che lo Stato sottoponesse il profitto
ad una tassazione più o meno progressiva per effettuare una redistribuzione.
Occorrerebbe che i lavoratori superassero la condizione dei dipendenti e
subordinati; ma nel senso di riappropriarsi del controllo sull’organizzazione
dell’intero ciclo produttivo: da qui discenderebbe la possibilità di
partecipare al profitto non come misura elargitiva o compensativa, ancorché
necessitata da dati oggettivi, ma per un’autonoma posizione da cui
scaturirebbe tale diritto alla spartizione.
I fenomeni che si sono osservati negli ultimi due decenni,
soprattutto in paesi fortemente industrializzati, risultano di tutt’altra
natura: in essi vi è, infatti, un peggioramento e non un miglioramento della
condizione del lavoratore sia dal lato retributivo, della sicurezza e degli
orari, sia dal lato del suo controllo sul processo produttivo nel complesso.
Precari di tutti i tipi, partite IVA, consulenti,
imprenditori totalmente dipendenti da altri, cooperative fasulle ed economia
sommersa sono state tutte formule - in certi casi anche di apparente
partecipazione agli utili - che hanno portato ad una riduzione (e non ad un
aumento) della quantità di valore aggiunto spettante al lavoratore medio o alla
media dei lavoratori: tutto ciò, assieme al peggioramento o al non
miglioramento della situazione per il lavoratore a contratto sindacale
(subordinato e a tempo indeterminato), è stato chiamato flessibilizzazione. Un
modo molto elegante per determinare e per giustificare un aumento della quota
dei profitti in condizioni di emergenza a causa della crescente competitività
sui mercati (globalizzazione). Con un modello diverso il valore aggiunto, a
parità di profitti, sarebbe cresciuto molto di più e una parte considerevole
dei problemi sociali ed economici contemporanei sarebbe risultata fortemente
ridimensionata. Da un punto di vista generale, infatti, la globalizzazione
sposta solo il livello del contrasto fra micro-economia e macro-economia dal
dato nazionale a quello sovranazionale; se il succo della faccenda è che, non
essendovi più regole, la parte debole (vale a dire i lavoratori minacciati
dalla disoccupazione e che non possono investire le loro risorse su un mercato
diverso da quello dei beni e dei servizi reali) deve veder continuamente ridotta
la sua parte di valore aggiunto, allora non c’è da meravigliarsi se la sola
spettacolare dinamica dei profitti non risolve, ma innesca la crisi del sistema.
Occorre capire come i lavoratori possono riproporsi (o
essere riproposti) in condizioni tali da affermare il loro diritto a o il loro
desiderio di una maggiore quota di valore aggiunto che, forse giova ripeterlo,
appare l’unica via per garantire sviluppo ed equilibrio.
Le autorità sovranazionali (o gli accordi tra le parti
nazionali) potrebbero stabilire minimi salariali e normativi, prevedendo misure
nei confronti dei produttori inadempienti; se, allora, aumentassero le
retribuzioni per i lavoratori e migliorassero le condizioni di vita nei paesi
più poveri, sarebbe proponibile una politica delle tecnologie che rendesse
compatibili i nuovi e più elevati salari con il mantenimento delle quote di
mercato estero e la possibilità di vendere più prodotti all’interno
di tali paesi. In tal modo finirebbe per crescere anche la domanda di
prodotti che provengono dai paesi più industrializzati, non solo la
domanda di prodotti autoctoni; con la attuale forma di globalizzazione, invece,
c’è solo la spinta dei paesi poveri a tenere bassi i salari: questo, però,
costituisce una minaccia per i produttori dei paesi ricchi. Con la attuale forma
di globalizzazione ci sono solo prospettive di squilibrio: sia nei paesi meno
industrializzati dove i salari reali e la domanda interna non possono crescere
per favorire lo sviluppo, sia nei paesi ricchi dove i produttori risultano
sempre più ostacolati da coloro che controllano il momento “scarso” dell’intero
processo, vale a dire lo sbocco sui mercati.
3. Proprietà privata e alti profitti nuocciono allo sviluppo?
L’esperienza sia del periodo storico in cui le retribuzioni
dei lavoratori dipendenti non erano conseguenza dell’andamento dell’economia,
ma stabilite “a priori”, sia del periodo storico attuale in cui esse sono
state sempre più trattate come variabili residuali (flessibilizzazione), ha
dimostrato la insostenibilità di quest’ultimo modello e la sostenibilità del
primo, seppure con i limiti evidenziati da una cospicua, autorevole e ben
remunerata letteratura economica.
Poiché ai fini del presente ragionamento le componenti che
concorrono alla spartizione del valore aggiunto sono retribuzioni e profitti, è
molto difficile che entrambe possano venir definite “a priori”. Adesso
non importa sceverare sulla natura dei vari percettori di profitto; per ora ci
si limita a ciò che “spetta” alla proprietà una volta pagati tutti i costi
definiti o definibili all’inizio del processo produttivo.
Pertanto, in questa sede: a) si è rilevato che la
definizione del livello della remunerazione del lavoro in base ai risultati dell’impresa
(controllata da una componente che è concorrente nella spartizione del valore
aggiunto) non porta a conseguenze positive, ma negative ai fini dello sviluppo;
b) parimenti si è rilevato che la definizione “a priori” della
remunerazione del lavoro (qualcosa di simile anche se non di coincidente con la
nozione del “partire dai bisogni”), quando è stata praticata, ha prodotto
numerosi inconvenienti nei casi in cui non è stata ben regolata (inflazione,
rigidità produttive), ma ha consentito - nelle circostanze di un’economia
moderna - di garantire compatibilità tra alti salari, soddisfacente
occupazione, stabilità dei prezzi, adeguati profitti (oppure profitti
contenuti, ma adeguata valorizzazione dei patrimoni); c) la riflessione
continuerà con il caso di una “non definizione a priori” di quanto spetti
al profitto; d) non si sta cercando di portare avanti il discorso attorno alla
ipotesi di un sistema dove proprietà e profitto siano eliminati, ma dove essi
siano trattati in modo che le esigenze dello sviluppo non siano ostacolate dal
loro straripare.
In altri termini ci si vuole qui chiedere quali siano i
limiti della proprietà e se coincida, tale domanda, con quella usuale circa la
funzione sociale della proprietà stessa. L’imprenditore, nell’approntare i
fattori produttivi in vista della fornitura di beni o servizi di cui ritiene
esista un bisogno solvibile, effettua un insieme di valutazioni economiche che
lo portano a definire un suo profitto o guadagno netto. Tali valutazioni sono
tutte incerte, tranne il minimo dei costi così come essi si presentano
correntemente sul mercato (ipotizzando conosciuto il livello di tali costi e
sufficientemente disponibile l’offerta delle risorse necessarie); dunque la
valutazione del profitto da parte dell’imprenditore è incerta o rischiosa per
tre ordini di ragioni:
a) egli conosce il costo minimo (o medio corrente) dei
fattori, ma non sa se ci saranno variazioni (qui si parla solo delle
variazioni verso l’alto perché le altre confermerebbero, migliorandola, la
valutazione sul profitto finale netto);
b) egli non sa per certo se la quantità di prodotto
assorbita dai mercati sarà sufficiente per confermare le sue previsioni;
c) la valutazione del profitto così ottenuta, per quanto
possa risultare scritta a chiare lettere e giustificata da serissime ragioni,
permane qualcosa di più vicino alla speranza rispetto a qualunque altra
categoria.
La remunerazione della proprietà - in quanto distinta
dalla gestione - rientra in questa dinamica, anche se si assume la nota e
logica formula keynesiana del pareggio del profitto netto con il rendimento
netto e reale delle obbligazioni; se non fosse così e si trattasse di un costo
definito a priori, non sarebbe più profitto, ma, appunto, costo (minimo) del
capitale. Entrambi gli approcci non modificano il ragionamento sin qui svolto e
da svolgere: il profitto è il residuo della sottrazione dei costi (di tutti i
costi, anche quello del danaro) dal fatturato; è, come si è accennato
all’inizio, il valore aggiunto meno il costo del lavoro e altri servizi
imputabili al processo produttivo sotto forma di remunerazione diversa da ciò
che si definisce profitto.
Ovviamente, dal punto di vista della proprietà (e, quindi,
del profitto) anche l’imprenditore - nel senso del gestore - può essere
considerato un costo se la sua remunerazione viene stabilita all’inizio del
processo produttivo. Se, invece, è la proprietà (finanziaria) la parte
a cui dev’essere riconosciuto un profitto (“rectius” guadagno) minimo
secondo la concezione keynesiana, allora questo minimo (al livello delle
obbligazioni) non è profitto nella sua accezione di variabile residuale
il cui montante spetta, alla fine, al titolare dell’impresa.
La sua variabilità, la sua flessibilità, deriva, dunque,
dalla qualità e dal realismo delle previsioni “ex ante” dell’imprenditore;
“ex post” deriva dalla effettiva rispondenza delle previsioni stesse alle
faccende dell’economia, da “fattori” imponderabili - per scarsità di
informazioni o ignoranza poco importa - che, parimenti non è rilevante, si
possono chiamare fortuna o fattore F, P, k, z2, eccetera.
Se il sistema riesce ad attrezzarsi in modo che i percettori
di profitti stabiliscano strategie di perseguimento dei loro interessi che non
nuocciano all’adeguatezza del trend dello sviluppo rispetto alle esigenze
della società civile nel suo complesso, allora i conflitti tra gli obiettivi di
crescita delle forze produttive e i modi in cui è organizzata l’economia non
esplodono (possono non esplodere) in tutta la loro drammaticità.
Ma siccome non è logico né possibile attendersi
comportamenti autolimitativi di fronte alla spartizione del valore aggiunto,
specialmente quando la parte che può avvantaggiarsi è anche la più forte nel
conflitto per la spartizione stessa, allora occorre una organizzazione più
ampia che predisponga le necessarie limitazioni; una organizzazione generale che
si ponga obiettivi ragionevoli e raggiungibili di coerenza tra lo sviluppo reale
e le esigenze sociali, di equilibrio dei prezzi, di livelli occupazionali. Se
tale organizzazione manca o manca al suo compito o lo travisa nel senso di
assicurare un mero rispetto delle regole economiche che generano e aggravano
diseguaglianze, disequità e squilibri di forza, allora si scivola facilmente in
situazioni sociali rischiose e difficili.
Se il contrasto tra l’interesse allo sviluppo delle forze
produttive e i modi di organizzazione dell’economia si acuisce e non viene
gestito ai fini di una possibile e realistica, ma non inefficace soddisfazione
dei bisogni delle persone, la radicalizzazione dei conflitti è l’unica
alternativa alla accettazione di un continuo peggioramento delle condizioni di
vita e di lavoro per grandi strati della popolazione che non sono percettori dei
profitti.
La proprietà e l’impresa possono esistere e prosperare
senza influire negativamente sullo sviluppo auspicabile e sostenibile; ma
possono anche esistere e prosperare a scapito dello sviluppo auspicabile e
sostenibile. Nel tempo questa seconda eventualità porta all’aggravarsi delle
crisi sociali ed economiche, ma ciò non toglie che, ciclicamente e per periodi
non brevi, tale nocumenza si ripresenti prepotentemente. Allora l’esclusivo
controllo dei mezzi di produzione da parte della proprietà privata, l’assenza
anche solo virtuale in termini di insufficiente presenza - di un’organizzazione
riequilibratrice, un insieme di altre circostanze più o meno strutturali che
adesso risulta superfluo cercare di identificare con precisione, determinano
situazioni che solo uno sforzo politico straordinario può cercare di
contrastare.
Prima di tentare di affrontare tale aspetto pare, però,
utile specificare meglio - anche da un punto di vista giuridico (“a regole
date”) - il tema dei limiti alla proprietà/impresa che non hanno come oggetto
la acquisizione del profitto (netto), ma le circostanze che stanno a monte della
sua formazione.
Finora si è visto che la determinazione “ a priori”
delle retribuzioni e l’agganciamento del loro trend a quello della
produttività (e, quindi, anche a quello delle applicazioni della ricerca
scientifica e tecnica) servono ad evitare che lo sviluppo o, meglio, i suoi
benefici sociali, finiscano per risultare circoscritti e destinati a una
porzione esigua della società.
Se si determinano “a priori” le retribuzioni (contratti
sindacali, stabilizzazione del lavoro, formazione professionale “obbligatoria”)
e la destinazione dei guadagni di produttività (a incrementi retributivi,
riserve e investimenti non meramente finanziari), la quota destinata ai profitti
è “libera” o flessibile o residuale o individuabile solo “ex post”
rispetto al processo produttivo. L’appena trascorso ventennio liberista - che
è ancora realtà attuale - ha fortemente voluto un tendenziale confinamento
della remunerazione dei lavoratori sempre più verso situazioni di tipo “residuale”;
ciò ha conseguenza sul livello dello sviluppo (che sarebbe meno limitato con l’altro
tipo di economia) ed ha a che vedere con il fenomeno della riduzione degli
effetti sull’occupazione di un tasso di crescita positivo, ma non accelerato:
ciò accade perché uno sviluppo debole lascia il mercato del lavoro nelle mani
della domanda (le imprese), relegando l’offerta (gli occupati e gli aspiranti
tali) nella situazione di chi - in mancanza di una politica riequilibratrice -
deve solo subire.
Se tutto il guadagno annuale di produttività va al profitto
e l’aumento del prodotto nello stesso periodo non è superiore (a tale
incremento del profitto), l’equilibrio economico così ottenuto -
insoddisfacente per i lavoratori e i disoccupati - non lascia altro spazio alla
crescita dell’occupazione di quello di distribuire il lavoro esistente tra
più soggetti.
Se tale operazione avviene con un aumento della
precarizzazione (un certo numero di lavoratori stabili viene sostituito da un
numero superiore di lavoratori che possono essere impiegati per un tempo
inferiore, ma che ricevono una paga oraria inferiore) è facile che il pareggio
tra incremento di produttività e incremento di profitti trovi conferma. Così
si riafferma che il conflitto va da politica (le condizioni della distribuzione)
a economia (la scarsità dello sviluppo); è vero anche il contrario (poco
sviluppo produce precarizzazione), ma il nesso tra politica ed economia è più
importante di quello tra economia e politica perché apre alla possibilità di
soluzioni alternative, mentre il secondo si chiude al regno della necessità.
Una alternativa è quella di ridurre l’orario di lavoro a
parità di salario, in quanto, così, si introduce un’incrinatura nel modello
di totale accaparramento dei guadagni di produttività da parte dei profitti;
ma, perché funzioni anche a livello occupazionale e non solo come misura per la
rivincita della politica sull’economia, occorre: 1) che le quantità di
prodotto non si riducano in proporzione alla riduzione di orario; 2) che i
margini operativi delle varie imprese presenti nel sistema siano molto omogenei
tra di loro.
Se, però, l’occupazione aumenta, il nuovo equilibrio
consente e richiede una crescita della produzione, perché c’è da attendersi
un incremento della domanda stimolata dai nuovi occupati. Tuttavia le discrasie
tra i momenti microeconomici legati alla riduzione di orario a parità di
salario e quelli macroeconomici possono indurre talune - forse gravi -
incertezze: a) se la nuova domanda è costituita da beni non prodotti dal
sistema di imprese che ha registrato le riduzioni di orario (a parità di
salario, quindi con aumento retributivo orario) come può avvenire in presenza
di un vincolo delle importazioni; b) se si determina una accelerazione
nella introduzione di tecnologie che servono a risparmiare lavoro; c) se gli
effetti della accresciuta disomogeneità nei margini operativi tra i vari tipi
di imprese riducono le capacità delle imprese meno efficienti di introdurre
nuove e/o adeguate tecnologie (e, con ciò, aumenta nel sistema la divaricazione
tra i soggetti economici in rapporto alle loro capacità di gestire risorse
finanziarie per investimenti).
Ma la conseguenza, forse più importante, del passaggio da un’economia
dove i salari venivano definiti “a priori” (nei paesi industrializzati
ancora negli anni ’70) ad un’ “economia liberista” dove importa solo il
profitto, riguarda il conflitto tra norme giuridiche - risultato di una lunga
gestazione dottrinaria conseguente all’evolversi delle sensibilità interne al
sistema capitalistico durante tutta la sua precedente storia - e
rappresentazione concreta dell’impresa.
Infatti, l’ordinamento giuridico positivo (Costituzione,
Codice Civile, leggi speciali) sconta un sistema di retribuzioni “a priori”
e di profitti “ a posteriori”; altrimenti la proprietà non avrebbe limiti
nell’esercitare un o il suo diritto a vedersi riconosciuto il profitto. In
questo caso, invero, il profitto sarebbe definito “ex ante”; infatti è
sufficiente decidere la priorità del profitto per ottenere che la retribuzione
del lavoro abbia una mera connotazione residuale, ovverossia con ben scarsi
diritti.
Il contrasto tra norma positiva e fatto concreto nasce dall’aver,
la politica, accettato passivamente il passaggio da un’economia dove venivano
prima i lavoratori ad un’economia dove vengono prima i profitti. Un’economia,
quest’ultima, poco sostenibile: dove a crescite spettacolari dei profitti
finanziari seguono crisi e squilibri socialmente indesiderabili che possono
arrivare, come le esperienze insegnano, a cancellare tutto o quasi tutto.
Viceversa l’altro sistema - quello della priorità
assegnata alla parte altrimenti debole, vale a dire i lavoratori (che, fra l’altro,
non possono investire le proprie risorse principali sul mercato puramente
finanziario, ma solo su quello produttivo) - è compatibile con la sopravvivenza
di profitti e proprietà, a patto di limitazioni per quest’ultima, proprio al
fine di evitare che nuoccia ad un sano e ordinato sviluppo economico.