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La transizione difficile

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Nicola Galloni
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Direttore generale, consigliere del Ministro del Lavoro per le politiche dell’occupazione.

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Spartizione del valore aggiunto e precarizzazione dell’occupazione

Nicola Galloni

Una riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno occupazione. Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro, di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.

 

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La remunerazione del capitale ad un determinato livello (keynesianamente il tasso di interesse reale delle obbligazioni maggiormente diffuse e negoziabili) è un costo; come tale, è distinto dall’elemento imprenditivo dell’impresa; anche per questo, la titolarità del capitale non dovrebbe dare diritto a ingerenze nella gestione.

Se, invece, il proprietario del capitale non si comporta come prestatore, ma come “padrone” (e, quindi, a seconda dei casi può gestire o nominare il gestore), allora opta per il cosiddetto rischio, non ha “diritto” alla remunerazione certa, ma ha diritto a percepire l’avanzo netto della gestione stessa (altrimenti detto, appunto, profitto).

Tale impostazione risulterebbe del tutto inefficace se il potere del proprietario potesse arrivare a definire il costo dei fattori liberamente oppure se la sua azione organizzativa dei fattori produttivi - in vista del risultato monetario - si conformasse in modo di nuocere al buon risultato economico e sociale dell’impresa.

Tali circostanze - costo dei fattori e buon risultato dell’impresa
 non sono facili da identificare e definire nel concreto, ma nemmeno impossibili.

L’economia studia, infatti, i fenomeni oggettivi (comprese le relative soggettività) nel loro continuo dinamismo oltre che nella loro definibilità.

Il diritto o, meglio, la norma considera, più o meno in generale, i limiti delle condotte umane non solo sulla base di quanto emerge dalla realtà, ma anche o soprattutto di come la realtà emergente possa o debba venir rapportata ai principi e ai valori che ispirano una data comunità.

L’applicazione del diritto valuta la rispondenza del caso alla norma, sicché l’esistenza di una norma (ad esempio l’art. 42 della Costituzione) e la comprensione dei fenomeni economici, consente la valutazione delle circostanze e degli interessi in gioco, fino a giungere ad una decisione vera e propria o ad un accordo.

 

4. Rivoluzione, resistenza o resa?

 

L’introduzione di nuove e più efficaci tecnologie e/o di migliore organizzazione del lavoro fanno diminuire la quantità di quest’ultimo per unità di prodotto. Ciò riduce altresì il costo per unità di prodotto e, a parità di prezzo, consente un aumento del profitto; a parità di profitto, consente una riduzione di prezzo: così le necessità, vere o presunte, della globalizzazione (della concorrenza) si incontrano con le teorie economiche che auspicano riduzione (o contenimento) dei prezzi e crescita della competitività. Se, in tali circostanze, i salari non subiscono variazioni o si riducono (per effetto della concorrenza con i nuovi e vecchi disoccupati sul mercato del lavoro) può succedere sia che aumentino i profitti, sia che si riducano i prezzi. E’ questo uno degli scenari della depressione economica che, in genere, prelude ad una successiva riduzione dei profitti concomitante a quella degli investimenti e compatibile con continue riduzioni dei prezzi derivanti, appunto, da relativa scarsità di compratori.

Secondo alcune teorie economiche arriverebbe un punto in cui i prezzi sarebbero così bassi da consentire l’acquisto dei prodotti da parte dei compratori che, in precedenza, non avevano sufficiente capacità di acquisto. In effetti può accadere:

1) che prima di questo punto gli investimenti si siano così ridotti da non consentire continue riduzioni dei prezzi semplicemente perché anche le quantità dei prodotti sono divenute scarse (non si capirebbe, infatti, perché, se non ci sono più compratori, le imprese dovrebbero continuare a produrre solo per far calare ulteriormente il valore delle loro merci);

2) che le quantità di moneta ancora in possesso dei compratori si siano assottigliate di più di quanto non sia cresciuta la capacità di acquisto di ciascuna unità di moneta (per l’effetto valorizzativo della deflazione);

3) che la riduzione dei salari e dell’occupazione abbia determinato una trappola ristagnativa da dove il sistema autonomamente (senza un intervento dello Stato) non riesce ad uscire.

Ma prima che si verificasse tale situazione, c’è stato un periodo - in genere non brevissimo, ma neanche troppo lungo - in cui i profitti sono cresciuti enormemente per l’effetto combinato di miglioramenti nell’organizzazione produttiva, di introduzione di nuove tecnologie e di bassi salari.

Dato l’andamento dei salari, infatti, una riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto comporta un aumento di prodotto per unità di lavoro; come dire che aumenta il valore del lavoro sociale e, se non aumenta anche il suo costo/prezzo in proporzione, si determina lo squilibrio che, prima, produce più profitti e dopo meno investimenti, meno domanda effettiva, meno occupazione.

Di quanto la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto non si riflette in un aumento proporzionale di costo/prezzo assoluto del lavoro, di tanto si sono poste le basi dello squilibrio.

Lo squilibrio - con evidenti conseguenze sui livelli dell’occupazione
 consisterebbe, dunque, nella crescente distanza tra il valore sociale del lavoro (proporzionato all’aumento della sua capacità produttiva a seguito del progresso tecnologico) ed il suo costo effettivo, depresso da circostanze congiunturali, da valutazioni pseudoeconomiche e dagli interessi di breve e medio termine dei percettori di profitti.

Ovviamente, se i salari e il costo del lavoro aumentano di più della riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto, allora l’effetto
 di tale aumento oltre la produttività - è inflattivo e non anche reale; ma in questo caso, sebbene ci sia uno squilibrio monetario, vi è altresì lo stimolo ad investire, dato che i prodotti continuano ad essere domandati. Pertanto, se una maggiore inflazione non è compatibile con l’economia della globalizzazione e della concorrenza, occorre introdurre della tecnologia o della migliore organizzazione che riduca la quantità di lavoro per unità di prodotto in modo che il livello dei salari e dei profitti non spiazzi la competitività del prodotto (indicata dal suo prezzo).

Ma, dato il livello dei prezzi, in condizioni di globalizzazione e concorrenza, non è prescritto da nessuna parte che il costo del lavoro non possa crescere in proporzione alla riduzione della quantità di lavoro per unità di prodotto (ottenuta per effetto delle tecnologie) poiché ciò avverrà a parità di prezzo e di profitto.

Ma la proprietà o il management possono giustificare con la globalizzazione e la concorrenza due comportamenti deleteri per l’economia, mentre, per effetto della tecnologia, continua a ridursi il costo del lavoro per unità di prodotto:

1) un’insoddisfacente dinamica dei salari a parità di prezzi con un aumento dei profitti;

2) un’insoddisfacente dinamica dei salari con riduzione dei prezzi, a parità di profitti. Si possono anche verificare infinite miscele delle due cose; il punto è che tali politiche deprimono l’economia a medio termine molto di più di quanto non mostrino le apparenze iniziali.

Nel medio periodo tali comportamenti finiscono per compromettere la dinamica del valore aggiunto e le uniche alternative sono date dal ripristino di una normale dinamica salariale (che avvicini il costo del lavoro al suo valore) e da un intervento pubblico che restituisca alla domanda effettiva le quote di valore aggiunto perse a causa delle modalità con le quali il profitto ha ottenuto di prevalere nel conflitto per la spartizione del valore aggiunto stesso.

Se, infatti, l’aumento del profitto è stato registrato in percentuale dell’investimento o per unità di pezzi venduti, l’attività economica si è arrestata prima del raggiungimento del massimo possibile di prodotto (che è anche il massimo possibile di valore aggiunto - a parità di altre circostanze - e di occupazione).

Se l’attività economica si ferma prima, non si raggiunge nemmeno il massimo profitto totale, viene impedita la realizzazione di quote di valore aggiunto, l’occupazione è minore di quella possibile e vengono sottratte alla domanda effettiva quelle quote che consentirebbero l’acquisto dei beni di cui è mancata la produzione. Il livello del valore aggiunto è inferiore rispetto a quello possibile per una somma pari al numero dei posti di lavoro persi moltiplicato per il costo corrente del lavoro più la differenza tra il massimo profitto totale ed il profitto realizzato. Il numero dei posti persi è proporzionale alla differenza dei due prodotti (uno corrispondente al massimo profitto totale, l’altro al massimo profitto per unità di investimento), tenendo conto dello stato delle tecniche.

L’azienda che ricorra ai tagli di occupazione, prodotto e profitto totale, in vista della massimizzazione del profitto per unità di prodotto o per unità di investimento, vede crescere il valore del suo titolo in borsa; e questa crescita di valore, il più delle volte, supera la differenza tra profitto totale e profitto ottenuto portando produzione e domanda di lavoro (cioè occupazione) fino al livello in cui veniva massimizzato il profitto per unità di investimento.

Se i tassi di interesse sono bassi e l’impresa è quotata in borsa, quello appena descritto corrisponde al comportamento prevalente. Se, invece, i tassi di interesse sono elevati, tutte le imprese possono distogliere dall’attività produttiva la parte del loro investimento il cui profitto sarebbe pari o inferiore al tasso dell’interesse e comperare obbligazioni.

Quando i tassi di interesse si riducono, quindi, le imprese non ancora quotate hanno interesse a entrare in borsa; in questo modo molta parte dei guadagni di occupazione che gli esperti governativi si attendono dal miglioramento delle condizioni monetarie, si annullano.

Quando, invece, i tassi di interesse aumentano (e la situazione economica peggiora), niente impedisce alle imprese quotate in borsa di comperare obbligazioni.

Qualunque disinvestimento causato dall’eccesso dei profitti e dalle possibilità di guadagno sui mercati finanziari ha effetti depressivi abbastanza evidenti sull’economia reale (esclusi, ovviamente, i beni di lusso la cui domanda dipende dall’andamento dei profitti) e, quindi, si aggrava il conflitto tra esigenze di occupazione (di sviluppo produttivo) e modi di organizzazione dell’economia.

La questione, quindi, è politica e non economica poiché lo studio dell’economia dimostra che sono possibili equilibri con maggiore occupazione, maggiore valore aggiunto, maggiori profitti provenienti dai processi produttivi (e minori guadagni finanziari), più elevati salari.

Tuttavia, in mancanza di una forza che si contrapponga efficacemente all’attuale versione del capitalismo, il sistema di regolazione persegue scelte e comportamenti che ripropongono il conflitto fra l’interesse allo sviluppo occupazionale - nonché sociale - massimo possibile e i modi di organizzazione dell’economia. Tali scelte e comportamenti vengono giustificati in base a vari ragionamenti che, prepotentemente veicolati dai mezzi di comunicazione di massa, raggiungono una spettacolare importanza; il più efficace e ripetuto è il seguente: si deve fare così perché le leggi dell’economia non consentono altrimenti, ogni alternativa è preclusa e chi cerca di perseguirne una non fa che riproporre soluzioni vecchie e fallite, pericolose e controproducenti, folli e velleitarie.