La fabbrica della produzione snella; ovvero come snellire e svilire il lavoro
Pecorella Vincenzo
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4. La SKF di Bari: La fabbrica come scuola di vita
È a partire dalla mia esperienza personale come operaio in
una fabbrica metalmeccanica meridionale, la SKF di Bari, che sono partite certe
riflessioni. La coscienza di vivere inutilmente costretto, il confronto con gli
altri, la curiosità ma soprattutto la sorpresa di scoprire ogni giorno un
sistema tutt’altro che efficiente e ben organizzato eppure “indiscutibile”,
mi hanno poi portato a inquadrare la mia esperienza particolare in un contesto
generale. Anche se scrivendo ho seguito un filo a ritroso, è intorno alla mia
esperienza personale della fabbrica che hanno cominciato a prendere forma le
idee esposte finora.
Sono entrato in fabbrica nel 1994. Lo ammetto: pur avendo all’epoca
più di trent’anni ero a digiuno di vita. È passato molto tempo prima che mi
convincessi che certe cose che mi accadevano (dal capetto che trattava noi
operai come scolari discoli e indisciplinati e poteva metterci in postazioni “punitive”,
ai “sindacalisti” che aiutavano l’azienda a sfruttare gli operai,
ingannandoci sui nostri diritti reali) non erano degli incidenti, non erano
delle eccezioni. Per molto tempo ho pensato di essere capitato in un posto nel
quale, per chissà quale accidente, si fossero scordati della civiltà e del
progresso e dei diritti, di tutte le belle cose che avevo sempre letto sui
libri. E invece ero capitato in una fabbrica come tante altre, anzi: sicuramente
non peggiore di altre. E quello che capitava a me capitava, capita, a migliaia e
a milioni di persone in tutto il mondo, senza che io ne sospettassi nulla fino
allora. Ecco perché questo mi sembra il male più vicino, la prima cosa da
curare: l’ignoranza diffusa degli uomini sulle cose di questo mondo, su quello
che accade realmente.
Ci sarebbe da scrivere un intero trattato sulle forme
moderne, subdole e invisibili, di schiavitù: ho conosciuto persone che lavorano
da anni senza riuscire a estinguere un debito, neanche grosso; ho conosciuto
uomini anziani meravigliati dalle tante persone viste per strada in città, uno
dei pochi giorni che si erano assentati dal lavoro; ho contato decine di miei
compagni rotti dentro, ancor giovani e già smarriti. Ma a raccontare certe cose
ci perderemmo. Sono cose forse più importanti, ma spezzeremmo quel filo logico
che siamo riusciti - speriamo - a dipanare finora.
Stiamo cercando di individuare delle tracce che ci portino a
capire un po’ delle cose che determinano la nostra vita, anche se spesso ci
sembrano cose noiose e misteriose come il funzionamento interno di un’automobile.
Abbiamo scelto di partire da quanto diventò evidente negli anni ottanta: l’aumentato
potere economico giapponese ed orientale rispetto alle tradizionali economie
europee e del nord America. E soprattutto cerchiamo di dimostrare - in generale
e in particolare - che la risposta della classe dirigente italiana, concorrere
con i migliori risultati stranieri non aumentando l’efficienza del sistema e
quindi l’intera torta economica ma appropriandosi semplicemente di una fetta
più grande di quella esistente a scapito dei lavoratori, sia stata una risposta
tutt’altro che lungimirante. Una risposta che ha già portato la più grossa
azienda automobilistica italiana al collasso e che potrebbe comportare ancora
conseguenze negative.
L’ho già anticipato: facendo parte la fabbrica in cui
lavoravo della multinazionale SKF potei assistere, nei primi mesi in cui vi
lavorai, alle ridicole dimostrazioni sul campo della “lean production” da
parte dei dirigenti aziendali, stracci in mano e maniche della camicia alzate.
Ma durò poco. Di quell’epoca sono rimasti ancora dei cartelli giganteschi su
certe pareti interne dove una grande freccia in campo azzurro indica ascendendo
la scritta: “visione”, ma solo perché fanno arredamento. È da tempo ormai
che l’amministratore delegato della multinazionale che aveva avviato quel
programma è stato sostituito. Non ci volle molto a rendersi conto che cercare
il coinvolgimento degli operai, senza contropartite concrete, era impresa persa
in partenza. Col tempo è diventato invece chiaro a tutti quale fosse la vera
risposta alla concorrenza, della SKF come della FIAT: spingere gli operai a
produrre sempre di più ma senza “costi” aggiuntivi. Anche nella SKF di Bari
sta accadendo che gli operai, mal pagati, lavorano male. Non è una questione di
cattiva volontà e neanche una forma di boicottaggio nei confronti dell’azienda.
È più semplicemente una conseguenza logica e inevitabile, visto che cattive
condizioni economiche determinate dai bassi salari non possono non indurre un
malessere che si riversa anche sul lavoro, in un circolo vizioso. Anche nella
SKF ciò che viene realmente prodotto è sempre più lontano da quanto previsto
dalle procedure, sempre più arrangiato e improvvisato. Anche nella SKF tutto un
importante reparto come quello della “assicurazione qualità” è stato
svuotato di funzioni, visto che gli “ispettori” e i “collaudatori”, se
facessero perbene il proprio lavoro, sarebbero costretti a certificare la
maggior parte della produzione di ogni giorno come “non conforme”. Anche
nella SKF tutti fanno finta di non saper quello che accade, e si mandano al
cliente cuscinetti a sfere che rispondono sempre meno ai requisiti richiesti e
previsti. Anche nella SKF, pur di non contrariare i superiori, si mandano avanti
pezzi che poi devono essere ripresi e ricontrollati, magari di sabato, con gli
operai contenti di lavorare a straordinario. Anche nella SKF sempre più spesso
i clienti si accorgono che quello che comprano non vale il prezzo che pagano.
Anche nella SKF il rapporto qualità/prezzo del prodotto sta scendendo insieme
alle retribuzioni reali dei lavoratori.
5. Solo la lotta paga
In conclusione: che la nostra classe dirigente nazionale
abbia sbagliato solo una “mossa”, rinunciando a impegnarsi nel cercare di
rendere altrettanto competitivo ed efficiente di quello giapponese il sistema
industriale della SKF, della FIAT, dell’Italia o dell’intero occidente,
scegliendo invece di appropriarsi di maggior profitto a scapito dei lavoratori;
oppure che siano connaturati all’essere capitalisti l’egoismo e la miopia,
il che significherebbe che abbiamo parlato solo dell’ultimo errore di una
inevitabile serie... in un caso o nell’altro, ci importa che aumenti la
consapevolezza e la coscienza diffusa delle cose.
La cosa importante, specie tra quelli come noi che lavorano e
vivono alle dipendenze di altri, è smettere di continuare a immaginarci questo
eccentrico stato delle cose come ineluttabile. Che non si possa cioè superare
con la lotta.