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I lavoratori nella “competizione globale” o nell’”imperialismo globale”?

Vladimiro Giacché

Osservazioni critiche sul saggio di Ernesto Screpanti

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E dopo l’accumulazione originaria cosa avvenne? Avvenne la “guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro”: guerra che ebbe - dice Marx - momenti fondamentali nella secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, la “guerra antigiacobina”dell’Inghilterra, e che “continua ancora” nelle guerre dell’oppio contro la Cina. [1] E varrà la pena di ricordare quanto Marx conclude a tale proposito: questi “metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica”. [2]

Questo passo è di importanza decisiva, perché - con buona pace dei neogandhiani dell’ultim’ora - ci dice che per Marx la violenza è centrale da sempre nel modo di produzione capitalistico. Il che nulla toglie alla tendenza cosmopolitica del capitale: ma il punto fondamentale - allora come oggi - è che il “potere dello stato, violenza concentrata e organizzata della società” è essenziale proprio per tradurre in realtà concreta quella tendenza cosmopolitica.

La migliore espressione del punto di vista (dialettico) di Marx a questo riguardo la troviamo riportata nel III libro del Capitale, allorché
 prendendo in esame la resistenza dei modi di produzione nazionali e precapitalistici in India e in Cina - egli menziona anche gli strumenti posti in opera dall’Inghilterra per infrangerla: “in India gli inglesi usarono al tempo stesso della loro diretta forza politica ed economica, come dominatori e come proprietari terrieri, per spezzare queste piccole comunità economiche”; e - aggiunge Marx - se nel caso dell’India l’“opera di disgregazione” delle comunità e dell’economia tradizionali “riesce loro molto lentamente”, ancora minore è il successo degli Inglesi in Cina, fintantoché “la forza politica diretta non viene loro in aiuto”. [3]

Fin qui Marx. I rilievi con i quali Friedrich Engels nel 1895 chiuse le sue Considerazioni supplementari al III libro del Capitale ci offrono un’immagine sintetica degli sviluppi di questi processi nei decenni immediatamente successivi: la “colonizzazione” è per Engels “una effettiva succursale della Borsa, nell’interesse della quale le potenze europee si sono qualche anno fa spartita l’Africa e i Francesi conquistato Tunisi e il Tonchino. L’Africa data in appalto diretto a compagnie (Nigeria, Africa del Sud, Africa tedesca sudoccidentale e Africa orientale) e Mozambico e il Natal accaparrati da Rhodes per la Borsa”. [4] Queste affermazioni sono idealmente completate da una nota dello stesso Engels al III libro del Capitale: “dopo l’ultima crisi generale del 1867 si sono verificati dei profondi cambiamenti. Con il colossale sviluppo dei mezzi di comunicazione ... il mercato mondiale è divenuto una realtà operante... Al capitale che si trova in eccedenza in Europa vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si redistribuisce in misura molto maggiore, mentre la superspeculazione locale viene superata com maggiore facilità. Tutti questi fatti hanno eliminato o fortemente indebolito gli antichi focolai delle crisi e le occasioni che le favorivano. Al tempo stesso sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli ed ai trusts, mentre sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici, di cui si circondano tutti i grandi paesi industriali, eccettuata l’Inghilterra. Ma questi dazi rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale. Di modo che ogni elemento che contrasta il ripetersi delle antiche crisi reca quindi in sé il germe di una crisi futura molto più terribile”. [5]

Come oggi sappiamo, la “crisi futura molto più terribile” di cui parlava Engels prese il nome di prima guerra mondiale, e si prolungò di fatto sino alla seconda guerra mondiale. Perché, è bene non dimenticarlo mai, l’“imperialismo” ed i “conflitti interimperialistici”, prima di essere una teoria, furono una ben solida e tragica realtà. E andrà semmai sottolineato ancora una volta che soltanto la teoria economica marxista più conseguente riuscì allora, assai per tempo, avvalendosi delle categorie di Marx e di Engels e sviluppandole coerentemente, ad interpretare correttamente quanto andava accadendo.

4. L’“imperialismo globale” come postimperialismo

Screpanti è un uomo sereno. Mentre a noi corrono i brividi lungo la schiena nel leggere le frasi di Engels che abbiamo citato più sopra, lui è tranquillo: a suo avviso la realtà terribile prefigurata in quelle pagine è consegnata ad un passato morto e sepolto. Cito dal testo: “l’imperialismo di cui parlava Lenin, lungi dall’essere la fase suprema del capitalismo, ne è stata in realtà solo un fase di transizione: quella in cui le larve delle grosse imprese multinazionali sono cresciute dentro il bozzolo degli stati nazionali nell’attesa di poter rompere l’involucro e librarsi nell’economia-mondo appena raggiunte le necessarie dimensioni globali. Una volta rotto l’involucro, le contraddizioni interimperialistiche vengono meno e quelle che sopravvivono, ad esempio a causa di residui ideologici e persistenze storiche che possono influenzare le politiche delle grandi potenze, assumono il significato di “contraddizioni in seno al popolo” del grande capitale”.

Il nostro autore poi prosegue, ponendosi tre domande retoriche (almeno nelle sue intenzioni).

a) La prima: “Che se ne fanno le grandi imprese multinazionali europee di un impero ingleseo francese, o anche proprio europeo, quando il loro territorio di conquista è già il mondo intero?”. Sembra una domanda ragionevole, invece è soltanto sofistica. Per capirlo è sufficiente variare lievemente la sua formulazione: “Che se ne fanno multinazionali statunitensi quali la Boeing, la Lockheed Martin, la Northrop Grumman, la Halliburton, la Bechtel della guerra all’Irak?”. [6]

b) Seconda domanda: “E non hanno queste imprese [inglesi e francesi] un interesse di fondo in comune con le grandi multinazionali americane, un interesse all’abbattimento di ogni freno all’accumulazione capitalistica e di ogni limite all’espansione commerciale e produttiva?”. A questa domanda si sarebbe tentati di rispondere affermativamente. Ma in verità le cose non stanno proprio così, perché queste imprese hanno interesse all’abbattimento di ogni freno alla propria accumulazione ed alla propria espansione commerciale e produttiva - ed entrambe ovviamente sono in contrasto con il perseguimento degli stessi fini da parte delle omologhe imprese multinazionali americane. E Screpanti prosegue:

c) “E quindi non hanno in comune anche un interesse al superamento dei condizionamenti che possano derivare dalle politiche nazionali dei vari stati, nella misura in cui sono proprio tali politiche a determinare quei freni e quei limiti?”. Qui la risposta è un NO tondo tondo. Perché, a differenza di quanto pensano i teorici liberisti e Screpanti, il “freno all’accumulazione capitalistica” ed il “limite all’espansione commerciale e produttiva” di una impresa non sono “determinati” dalle “politiche nazionali dei vari stati”. Sono determinati dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, e dalla connessa sovraccumulazione di capitale. Contro questi limiti agiscono gli Stati. E lo fanno in molti modi: regolando o reprimendo senz’altro il conflitto sociale, sovvenzionando le imprese con soldi ottenuti attraverso la fiscalità generale, permettendo loro di eludere od evadere le tasse, stringendo accordi commerciali con altri Stati (da soli o a livello regionale, come nel caso dell’Unione Europea), erigendo barriere protezionistiche tariffarie o non tariffarie (ad esempio, fissando determinati standard), contingentando le importazioni da determinati paesi, sussidiando le esportazioni, ecc. ecc. [7]

Il problema è che, anche laddove questa azione sia coronata da successo, l’espansione delle imprese multinazionali prima o poi è destinata ad incontrare dei limiti: i limiti stessi dei mercati (che non possono espandersi all’infinito) combinati con quelli derivanti dall’esistenza di altre imprese alle quali interessa lo stesso mercato. Da questo punto di vista gli interessi della statunitense Boeing non sono affatto comuni a quelli dell’europea Airbus. E se la Boeing si trova in difficoltà rispetto all’Airbus nel settore dell’aviazione civile, può risultare utile per gli USA sovvenzionare sottobanco il settore civile di Boeing dando alla società forti commesse di natura militare. O, spostandoci su un altro settore, può essere utile per gli USA tagliar fuori l’azienda petrolifera francese Total dai pozzi iracheni, a beneficio, poniamo, della Exxon o della Texaco. Quanto sopra può magari essere fatto bombardando l’Irak...

È alla luce di questo che ritengo sia da rifiutare la prima definizione di “imperialismo globale” offerta da Screpanti: ossia “un sistema di controllo dell’economia mondiale in cui non esistono sostanziali contraddizioni inter-imperialistiche.”

E veniamo alla seconda definizione offerta da Screpanti, per cui “imperialismo globale” sarebbe “un sistema di relazioni internazionali in cui le politiche statali sono orientate a rimuovere i vincoli che gli agglomerati nazionali (etnici, culturali, linguistici, religiosi, sociali) possono porre all’accumulazione del capitale su scala mondiale”. Qui si tratta di intendersi. In certa misura, questa definizione è corretta. Ma soltanto nel senso che questo è sempre stato vero: da sempre lo Stato delle principali potenze capitalistiche ha questa funzione - nei confronti del resto del mondo (si pensi all’apertura a cannonate del mercato cinese nell’Ottocento, ed oggi quella dell’Irak). Secondo Screpanti, oggi ci sarebbe un elemento nuovo: “la differenza principale tra l’imperialismo contemporaneo e quello otto-novecentesco - egli sostiene - sta nel modo in cui il capitale metropolitano si rapporta alle economie periferiche. Il vecchio imperialismo penetrava nei paesi sottosviluppati senza modificarne sostanzialmente il modo di produzione, lasciandoli ristagnare nelle loro strutture economiche e sociali precapitalistiche, e limitandosi per lo più ad estrarre materie prime a basso costo. Oppure vi penetrava, almeno in alcuni di essi, con l’immigrazione di coloni dalla metropoli e la costruzione di nuove economie capitalistiche che tuttavia restavano abbastanza circoscritte”. Ora, queste presunte caratteristiche del “vecchio imperialismo” sono così poco rispondenti alla realtà che lo stesso Screpanti in nota avverte la necessità di escludere da tale quadro “l’europeizzazione dell’America e dell’Australia”. Ma sarebbe stato sufficiente leggere il Marx degli articoli sull’India per accorgersi che già alla metà dell’Ottocento l’Inghilterra si era trovata nella necessità di rivoluzionare il modo di produzione indiano ed imprimere sviluppo alle forze produttive locali, al fine di avere un mercato di sbocco non troppo anemico per le proprie merci. [8] Niente di nuovo, quindi, rispetto a quello che da sempre gli Stati borghesi hanno fatto: diversa è semmai la scala
 
ormai decisamente planetaria - su cui questo avviene.

Infine, la terza definizione:l’imperialismo globale è la forma della globalizzazione del modo di produzione capitalistico”. Screpanti la spiega così: “oggi è proprio il modo di produzione capitalistico che è diventato globale. Non resiste praticamente più alcuna sacca di arretratezza precapitalistica”. Ossia, detto con parole più semplici: esiste ed è operante il mercato mondiale. E su questo siamo tutti d’accordo.

Ma anche in questo caso le conseguenze tratte da Screpanti finiscono per lasciare interdetti: “cambia di conseguenza anche la forma dello sfruttamento imperialistico. Non conta più l’uso della forza militare per l’estrazione coercitiva di risorse, e neanche tanto il meccanismo dello scambio ineguale. Si badi, non è che questi due strumenti di sfruttamento siano venuti meno. Anzi si sono rafforzati. Ma non sono essenziali”. [Se un fenomeno non è “essenziale”, perché “si rafforza”? Mah...]

Sono infatti “diventati secondari rispetto ad altri due meccanismi più propriamente capitalistici: 1) al livello microeconomico, l’uso di lavoro salariato per l’estrazione di plusvalore nella fabbrica capitalistica; 2) al livello macroeconomico, l’uso della finanza e del credito per l’esproprio di plusvalore e di ricchezza mediante il debito estero”.

Quanto al primo aspetto, ancora una volta, nihil sub sole novi: lo sfruttamento del lavoro salariato è infatti da sempre l’architrave del modo di produzione capitalistico. Quanto al secondo, certamente è importantissimo, ma non si vede perché esso debba essere trattato disgiuntamente e addirittura contrapposto all’aspetto coercitivo ed allo scambio ineguale: in verità, tutti questi aspetti, latenti o operanti, contribuiscono al dominio esercitato dai paesi imperialistici. L’eventuale predominio di quello macroeconomicoo-finanziario non è altro che la logica conseguenza di una delle caratteristiche classiche dell’imperialismo: ossia la crescente importanza dell’esportazione di capitale. E comunque esso stesso può essere sostituito dalla (o “aiutato” con la) violenza: così, se l’Argentina si era dollarizzata spontaneamente, per dollarizzare l’Irak c’è voluto un esercito di occupazione.

Infine, il nesso - cruciale - tra sfruttamento nei paesi dominati e nei paesi imperialistici (o, come Screpanti preferisce dire, nei “paesi capitalistici avanzati”). Il nesso tra povertà nei PVS, creazione di un esercito industriale di riserva a livello mondiale e sfruttamento anche nei paesi imperialistici è correttamente descritto da Screpanti. Ma, ancora una volta, la ricerca a tutti i costi di una novità, di una differentia specifica che non c’è, rende non del tutto condivisibile la sua impostazione. Vediamo:

“Si verifica così un fenomeno nuovo rispetto all’imperialismo otto-novecentesco. Nell’imperialismo globale di oggi lo sfruttamento dei paesi assoggettati è funzionale all’aumento dello sfruttamento dei paesi imperialistici. Le famigerate aristocrazie operaie non esistono praticamente più. Del resto è noto che la povertà e la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sono in aumento anche nei paesi ricchi e superricchi. E sono fenomeni che coinvolgono in maggiore o minore misura l’intera classe operaia.

Tutto ciò ci dà un utile indizio intorno alla questione dell’individuazione dei soggetti rivoluzionari... L’imperialismo globale, lungi dal rendere demodé il conflitto di classe, lo esalta, lo estende, lo esaspera e, soprattutto, lo globalizza. In prospettiva lo unifica. Ed è il tipico conflitto del modo di produzione capitalistico: la lotta di classe tra capitale e lavoro - tendenzialmente, tra il capitale globale e il proletariato globale”.

L’interpretazione di questi due periodi dipende dal peso che si dà a due avverbi: “tendenzialmente” e “praticamente”.

Cominciamo dal “tendenzialmente” che chiude il passo: che rapporto c’è tra “attuale” e “tendenziale”? Se il “proletariato globale” sarà tale tra 200 anni la cosa ci riguarda fino a un certo punto (e di questa “tendenza” potremo dire ciò che Lenin disse della kautskiana tendenza all’“ultraimperialismo”: sarà anche vera, ma “è priva di significato”, cioè non serve a nulla). Insomma: dare una migliore specificazione a questa “tendenza” - cosa che Screpanti si guarda bene dal fare - è cosa di non poco conto per chi voglia porsi l’obiettivo di organizzare il “proletariato globale”.

Le cose stanno ancora peggio per quanto riguarda l’altro avverbio: “le famigerate aristocrazie operaie - dice Screpanti - non esistono praticamente più”. E subito aggiunge, a mo’ di spiegazione, che “è noto che la povertà e la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sono in aumento anche nei paesi ricchi e superricchi”. Il punto è che i due enunciati NON si equivalgono, come ben sanno le migliaia di uomini e donne che rischiano la morte pur di raggiungere le nostre coste. In altri termini: l’innegabile impoverimento della classe lavoratrice (in termini assoluti e relativi) che ha avuto luogo negli ultimi anni in tutti i paesi imperialistici non toglie che sussistano disparità abissali (e crescenti!) di reddito tra questi lavoratori ed il proletariato e sottoproletariato dei paesi dominati [9] (né toglie che la classe lavoratrice sia articolata in maniera assai differenziata anche all’interno stesso dei paesi imperialistici, producendo forme anche eclatanti di aristocrazia salariale). Ora, il punto è che queste disparità rappresentano un problema non secondario per la creazione di un’effettiva unità di classe e di un vero internazionalismo. Pensiamo anche solo a fenomeni quali i flussi migratori, la ridislocazione del capitale su scala mondiale, la delocalizzazione produttiva, il diffondersi di forme di xenofobia e di razzismo nei paesi imperialistici, ecc.: rispetto a tutti questi fenomeni la formula del “proletariato globale”, di per sé, è di scarso aiuto.


[1] K. Marx, Il Capitale, libro I, cap. 24, p. 813. L’accenno alle guerre dell’oppio è sufficiente da solo a sfatare il mito di un pacifico periodo concorrenziale del capitalismo cui sarebbe succeduto un cruento periodo imperialistico. Le cose, come sempre, sono più complicate degli schemi in cui le si vuole rinchiudere.

[2] K. Marx, Il Capitale, p. 814.

[3] K. Marx, Il Capitale, libro III, tomo I, tr. it. di M. L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1980, cap. 20, pp. 398 sg.; corsivo mio. Come è noto, queste affermazioni di Marx sono assai ben ponderate, in quanto trovano la loro base fattuale nelle ricerche condensate in numerosi articoli su Cina e India scritti a partire dagli anni Cinquanta per il “New York Daily Tribune”. Un concetto analogo a quello citato nel testo era stato espresso ancora prima, in un articolo pubblicato da Marx nel 1850 per la “Neue Rheinische Zeitung”: “Vennero gli Inglesi e si aprirono con la forza il libero scambio con cinque porti cinesi” (K. Marx, India Cina Russia, a cura di B. Maffi, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 31; cfr. anche p. 35).

[4] F. Engels, Considerazioni supplementari al III libro del Capitale; in K. Marx, Il Capitale, libro III, tomo I, cit., p. 50.

[5] Nota n. 8 di F. Engels a K. Marx, Il Capitale, libro III, tomo II, cap. 30, p. 575.

[6] E per ossequio alla par condicio si potrebbe aggiungere: che se ne è fatta la francese Alcatel della guerra in Kosovo?

[7] Un’articolata disamina delle funzioni attuali degli Stati, e dell’accresciuto intervento statale negli ultimi anni, si trova in M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 38 sgg., 68-9, 190.

[8] Vedi in proposito K. Marx, India Cina Russia, cit., pp. 69-70 e pp. 86-89.

[9] La cosa è del resto ammessa dallo stesso Screpanti, che altrove afferma addirittura che “le uniche contraddizioni e le sperequazioni che sono acutizzate dall’evoluzione dell’imperialismo non sono le contraddizioni inter-imperialistiche”, ma “le sperequazioni tra il Nord e il Sud del mondo”.