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Alberto Burgio
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Obiettivo Europa. La vera posta in gioco della «guerra preventiva» americana

Alberto Burgio

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In effetti, le divergenze sorte in merito al progetto di una autonoma forza militare europea hanno dato avvio a una nuova fase, caratterizzata da un conflitto transatlantico di inedita radicalità. Le contromisure americane mirano a un obiettivo strategico: destabilizzare l’Unione Europea per metterne in forse la stessa esistenza. In vista di tale finalità, gli Stati Uniti sono attualmente impegnati in due direzioni: da un lato operano per «disaggregare» il Vecchio Continente, rinsaldando alleanze selettive con i partners europei tradizionalmente più affidabili (Gran Bretagna e - sino alla sconfitta di Aznar - Spagna); dall’altro, hanno messo in campo una grande manovra di accerchiamento nei confronti dell’Europa continentale.

Quanto alle divisioni in seno all’Europa, basta scorrere le cronache quotidiane. La Gran Bretagna, la Spagna e l’Italia hanno svolto con efficacia, in tutti questi mesi, il ruolo dei guastatori, spaccando su tutto: dal progetto di Costituzione alla guerra in Iraq, dalla Difesa europea al coordinamento delle politiche economiche e istituzionali. Contro il processo di costruzione federale dell’Unione, questi paesi si battono in sostanza nel nome di un’ipotesi confederalista, che decreterebbe, nei fatti, il tramonto del progetto unitario. Ovviamente, sarebbe ingenuo attribuire al libero arbitrio di Blair, Aznar e Berlusconi la zelante esecuzione di questo compito. Com’è stato documentato dal «Financial Times», si deve all’attivismo statunitense anche la famosa «lettera degli 8», che nel gennaio 2003 ruppe il fronte europeo avverso all’attacco contro Saddam. [1] Rumsfeld applaudì, contrapponendo la «nuova» Europa dei «volonterosi» alla «vecchia» dei recalcitranti, degli ingrati, degli imbelli. Altrettanto è accaduto in occasione di una riunione del Consiglio Europeo lo scorso ottobre, a proposito della Difesa europea. Quando, come in un coro greco, Blair, Berlusconi e Aznar hanno ripetuto che la difesa dell’Europa e affare della Nato, non dell’Unione Europea, e che va dunque evitata qualsiasi decisione che possa sminuire il ruolo dell’alleanza atlantica.

In vista dell’accerchiamento della «vecchia Europa», gli Stati Uniti avevano previsto di puntare, per un verso, sulla Spagna, il cui peso strategico - almeno sino all’inversione di tendenza provocata dalle ultime elezioni politiche del marzo 2004 - era destinato ad aumentare, come dimostra anche la recente decisione di spostare l’intera Sesta Flotta a Rota, nei pressi di Cadice. Ma la carta decisiva (tanto più dopo la vittoria dei socialisti spagnoli) è rappresentata dallo spostamento a est del baricentro geopolitico del continente. In vista di questo obiettivo, un ruolo di grande rilievo è svolto proprio dalla Nato, alla quale le guerre balcaniche hanno conferito nuovo impulso.

Dopo aver infarcito di basi militari l’Albania e il Kosovo, gli Stati Uniti hanno appuntato l’attenzione sui paesi dell’ex-Patto di Varsavia, a cominciare dalla Polonia, prescelta per sostituire la Germania nel ruolo di testa di ponte americana nel cuore dell’Europa. Alla fine di novembre del 2002 il vertice Nato di Praga sancisce le profonde modificazioni strutturali e funzionali dell’alleanza atlantica varate tre anni e mezzo prima nel vertice di Washington, passato alla storia per il battesimo del cosiddetto «nuovo concetto strategico». La Nato ingloba sette paesi dell’ex-Patto di Varsavia, archivia la natura difensiva dell’alleanza (consacrata dall’art. 5 del trattato fondativo) e (confermando le scelte già compiute con l’invio di truppe in Kosovo e in Afghanistan) abbandona qualsiasi riferimento territoriale, per assumere la fisionomia di una forza di intervento rapido «preventivo» abilitata ad agire in tutto il mondo.

Nelle cronache, l’accento cade sugli obiettivi strategici di quella che sarà chiamata «Nato response force». Costituita da corpi scelti, la nuova forza d’intervento rapido dovrà concentrarsi sulle «nuove e pericolosissime minacce del XXI secolo», a cominciare dal «terrorismo in tutte le sue manifestazioni». Ma il nocciolo della partita è altrove: nei rapporti con l’Onu (rispetto alla quale la Nato pretende di porsi in posizione simmetrica); nella marcata proiezione offensiva conseguita con il superamento del «concetto strategico» originario; soprattutto nella struttura della catena di comando, che - in omaggio all’imperativo della rapidità - affida ora determinazioni strategiche e operative al «comandante supremo alleato». Come ha osservato Manlio Dinucci, l’applicazione delle risoluzioni assunte a Washington con il consenso dei governi europei (presidente del Consiglio italiano era allora Massimo D’Alema) determina lo scavalcamento non solo dei parlamenti, ma degli stessi governi alleati. D’ora in avanti, la Nato potrà muoversi anche «senza la partecipazione di alcuni paesi» troppo lenti o restii, «lasciando al comandante supremo alleato il diritto di decidere come e dove impiegare le proprie forze». [2]

Del resto, lo stesso discorso vale - con buona pace della sovranità nazionale degli Stati e delle costituzioni che negano legittimità a guerre offensive - per la gran parte delle basi americane in territorio europeo. Si è accennato allo spostamento della Sesta Flotta (in precedenza acquartierata a Gaeta) e al nuovo ruolo della Polonia, ma sarebbe sbagliato desumerne l’intenzione americana di mollare la presa sul territorio italiano e tedesco. Ramstein am Rhein, dove è attiva una base con più di 80mila addetti, e le altre basi in Germania in cui è dislocata una forza complessiva di circa 60mila uomini, restano ben salde e direttamente sottoposte all’alto comando americano. Lo stesso vale per Aviano, per la Maddalena e Sigonella, per Brindisi e Taranto, senza contare che il quartier generale delle Forze alleate del Sud dell’Europa resta a Napoli. Quanto poi a Camp Darby, se ne prevede addirittura un ampliamento che ne farà la base logistica statunitense più grande d’Europa.  [3]

L’idea di fare della Nato uno strumento al servizio degli interessi statunitensi contrapposto all’Onu e all’Unione Europea è sempre più spesso dichiarata in modo esplicito da esponenti dell’amministrazione americana e dai suoi stessi dirigenti. Il segretario generale dell’alleanza, Robertson, ha detto molto tranquillamente che la Nato ha l’«obbligo morale» di sostenere gli Stati Uniti in tutte le loro scelte. A sua volta, Condoleezza Rice, consigliera di Bush per la Sicurezza nazionale, ha spiegato che se il dopoguerra è finito, anche le istituzioni che hanno preso forma nel ‘45 debbono cambiare: per una nuova Nato che espande a tutto il pianeta la propria competenza, occorrerà una nuova Onu, cui spetterà di combattere contro la diffusione delle «armi di distruzione di massa». [4] Il quadro che simili prese di posizione delineano è chiaro. Gli Stati Uniti si stanno attrezzando per nuovi conflitti, in vista dei quali i vecchi alleati europei non danno garanzie di affidabilità. Per dirla più chiaramente, non è più possibile annoverare l’Europa tra «i nostri». Sempre più ricco, sempre più potente sul terreno della competizione finanziaria, sempre più ambizioso sul piano della politica estera, il Vecchio Continente va tenuto sotto stretto controllo e, ove ciò dovesse rendersi inevitabile, ricondotto al senso della realtà con qualche energica dimostrazione dei rapporti di forza.

Ma c’è di più. Se le contromisure sin qui passate in rassegna hanno il compito di ostacolare le indebite iniziative europee in campo internazionale, una strategia all’altezza dei tempi deve avere un respiro più largo e declinarsi in un’adeguata prospettiva di «prevenzione». Si colloca in questo contesto l’obiettivo più ambizioso che almeno una parte dell’establishment statunitense coltiva per quanto riguarda il futuro dell’Europa. L’idea, vecchia come il mondo, che per dominare occorra dividere ispira l’attuale amministrazione statunitense in tutti i teatri di guerra. Il progetto di un «grande Medio Oriente» riposa sull’ipotesi di una balcanizzazione della regione (che dovrebbe esser poi presidiata dai pochi poteri statuali affidabili, primo fra tutti Israele). La stessa logica sottende le aspirazioni strategiche della destra americana per quanto concerne la Russia e, appunto, l’Europa.  [5]

A ben guardare, le ragioni di tale opzione sono semplici. In primo luogo, ove si riuscisse a destrutturare gli Stati nazionali sostituendoli con una miriade di piccoli centri di sovranità, si otterrebbe di trasformarne il territorio in una costellazione di micro-poteri regionali, incapaci di opporre al dominante e ai suoi proconsoli la benché minima resistenza sul piano politico e militare. Al tempo stesso, si determinerebbe la frantumazione di qualsiasi istituzione sociale (dai partiti ai sindacati), privando le popolazioni di qualsiasi tutela contro i processi di privatizzazione in atto sia sul terreno economico che in ambito politico. Com’è facile vedere, si tratta dunque, in una battuta, di un progetto di restaurazione neo-feudale, che sogna di rifare dell’Europa un caleidoscopio di piccole enclaves. Ma questa ispirazione manifestamente reazionaria non deve ingannare. Il rigurgito di localismi, di sottoculture tribali e di nostalgie vernacolari cui ci è dato assistere da un quindicennio a questa parte dovrebbe averci vaccinato contro l’illusione deterministica della irreversibilità delle conquiste civili. E lo stesso vale per il revival neo-etnico e per la proliferazione di razzismi vecchi e nuovi in ogni parte d’Europa.

Del resto, se davvero si trattasse di impraticabili utopie negative, non vi sarebbero tante organizzazioni e tanti movimenti disposti a battersi per la loro realizzazione. E invece gli imprenditori politici che si muovono lungo simili linee strategiche abbondano in tutti i paesi europei e noi italiani ne sappiamo qualcosa. La Lega di Bossi nasce precisamente con questa idea, propagandata già alla fine degli anni Ottanta da Gianfranco Miglio sotto l’insegna del motto secessionista «ex uno plures». E si muove da sempre con implacabile coerenza verso questo obiettivo, appena dissimulato dalla chiacchiera «federalista». La sua avversione nei confronti dell’Unione Europea («forcolandia»), i suoi progetti di secessione e di frantumazione dell’unità del paese, il suo peculiare populismo, il suo inestinguibile odio per la Costituzione repubblicana, le sue stesse propensioni razziste, tutto questo arsenale ideologico non dovrebbe essere banalizzato come un’espressione di primitivismo. Andrebbe piuttosto interpretato - insieme all’inossidabile accordo politico stretto tra Bossi e Berlusconi - alla luce della complessa partita internazionale che si sta giocando in questi anni sulla testa del nostro come degli altri paesi europei.

Ma c’è un ma. Capire la Lega e i fenomeni che le si apparentano in Europa implica comprendere il ruolo degli Stati in questa fase storica. Presuppone che ci si interroghi senza schemi preconcetti sul fatto che
 non da oggi [6] - gli Stati Uniti vedano di buon occhio qualsiasi processo di indebolimento delle istanze nazionali e si impegnino attivamente per destrutturarle. Quanto è probabile che ciò avvenga, se per un verso non siamo ancora in grado di accantonare la litania del «superamento degli Stati nazionali» e, per l’altro, restiamo abbarbicati ai ruderi del dibattito ottocentesco e primo-novecentesco tra «statalisti» e fautori della «società civile»?


[1] Siegmund Ginzberg, «Guerra preventiva»: Usa contro l’Europa unita?, «l’Unità», 29 maggio 2003.

[2] Manlio Dinucci, Una Nato pronta a intervenire, «il manifesto», 16 ottobre 2003.

[3] Manlio Dinucci, E intanto la polveriera di Camp Darby si gonfia, «il manifesto», 26 febbraio 2004.

[4] Claudio Grassi, Nuova alleanza, vecchie servitù, «Liberazione», 11 gennaio 2003; Eusebio Val, Condoleezza Rice: «Non abbiamo destabilizzato l’Europa», «La Stampa», 9 maggio 2003.

[5] Cfr. sul tema Alessandro Spaventa - Fabrizio Saulini, Divide et impera. La strategia dei neoconservatori per spaccare l’Europa, Fazi, Roma 2003; Pierre Hillard, Europa “balcanizzata”?, «Liberazione», 7 settembre 2003; un’autorevole conferma della plausibilità di questa ipotesi fornisce Alain Joxe, L’impero del caso. Guerra e pace nel nuovo disordine mondiale, a cura di Alessandro Dal Lago e Salvatore Palidda, Sansoni, Firenze 2003, pp. 174-5, 178 ss.

[6] Cfr. in proposito quanto osserva Alain Joxe (L’impero del caos, cit., pp. 193 ss.) sulla dottrina clintoniana («democratico-imperiale») dell’enlargement, fondata su un progetto di «decostruzione della società internazionale» e di trasformazione degli Stati nazionali in agenzie economiche delocalizzate.