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Osservatorio meridionale

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NO SMOKING. Critica dell’incenerimento dei rifiuti (prima parte)

Antonio Bove

Antonio Spadaro

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Per quanto riguarda i metalli pesanti, invece, in uno studio recente sono state calcolate le emissioni totali da inceneritore e la percentuale che ricoprono rispetto al totale.

Le emissioni degli inceneritori sono generalmente significative, rappresentando nel caso del Piombo il 20,7% del totale, del Mercurio il 32%, del Cadmio il 9%, dell’Arsenico il 3%, contribuendo, quindi, in maniera significativa alla produzione totale di metalli pesanti cancerogeni, rappresentando una vera e propria “bomba ecologica”. Il sistema più sicuro per ridurre queste emissioni è costituito dal non bruciare composti che le contengano. Questo pensiero semplice fa riferimento chiaramente a modifiche profonde del sistema di produzione delle merci che tengano conto del potenziale tossico dei materiali utilizzati. Gran parte dei metalli prima citati provengono, ad esempio, dai coloranti per materie plastiche. È chiaro come una riduzione del contenuto dei metalli negli imballaggi e un sistema di riutilizzo degli stessi, possa rivestire un ruolo importantissimo nella riduzione del danno.

Gli inquinanti vengono prodotti, come detto, in forma liquida, solida, gassosa. A parte, quindi, la dispersione per via aerea, bisogna considerare fra gli “effetti collaterali” anche l’inquinamento delle falde acquifere nonché il “problema ceneri”.

Le sostanze emesse in forma solida, infatti, si dividono in ceneri di fondo (si trovano alla base della caldaia durante la combustione) e ceneri volanti, non trattenute dai sistemi di filtraggio. Le ceneri sono, inoltre, prodotti che necessitano di un sito di stoccaggio, per cui anche quando l’inceneritore funziona a pieno regime, sarà necessario costruire discariche per queste scorie. Quando, perciò, viene detto che gli impianti di incenerimento potrebbero risolvere il problema delle discariche, dobbiamo sapere che si tratta di promesse false in quanto la produzione di ceneri e scorie necessiterà di ulteriori discariche in cui stoccare questi prodotti della combustione.

I sostenitori dell’incenerimento affermano che le tecnologie più moderne sono in grado di tenere sotto controllo queste sostanze. Ma anche questa è una verità parziale: la produzione dei POP e delle altre sostanze tossiche da parte degli impianti di incenerimento rifiuti non può essere evitata; se ne può semplicemente trasformare una quota in “ceneri” (il cui smaltimento rimane alquanto difficile); mentre appunto la parte gassosa continuerà ad inquinare l’atmosfera (con l’aggravante che il particolato assume dimensioni minori e penetra più facilmente negli alveoli polmonari e in circolo).

Questo trasversale partito dei sostenitori del termovalorizzatore, inoltre, forte delle situazioni emergenziali (spesso provocate ad arte e comunque dovute a decenni di incuria e di mancata attuazione di precise leggi e normative esistenti) sono soliti sostenere che l’incenerimento riduce di oltre 2/3 il volume dei rifiuti. Anche questo non è vero: vale, infatti, solo per il rapporto tra rifiuti solidi e ceneri, e non tiene nel debito conto l’immensa massa delle emissioni gassose.

Insomma: sostenere che l’incenerimento elimina i rifuti è una menzogna: si tratta piuttosto di un metodo accelerato di produzione di un’infinità di molecole tossiche (le reazioni termochimiche che si svolgono all’interno degli impianti ne producono a centinaia, una minima quota delle quali è monitorabile e monitorata) generalmente molto più pericolose per l’ambiente e per la salute umana e più difficili da trattare rispetto ai rifiuti stessi.

In molti paesi tutto questo è ormai chiaro e si cerca di normare in modo sempre più restrittivo la materia, così da ridurre l’impatto catastrofico di questa prassi assurda. E molti impianti sono stati chiusi negli ultimi anni per l’impossibilità di mantenere le emissioni entro i limiti permessi. Nel nostro Paese sembra non essere un problema il rischio a cui si sottopongono migliaia di cittadini.

Le categorie più a rischio sono ovviamente quelle più direttamente esposte alle sostanze tossiche emesse: in primis gli addetti agli impianti, ma anche gli abitanti nelle zone limitrofe. Queste popolazioni sono fortemente esposte a inquinanti che, in gran parte, entrano nella catena alimentare e nell’aria che si respira. Questa situazione determina sicuramente una maggiore probabilità di incidenza di numerose patologie a carico dell’apparato respiratorio e cardiocircolatorio, ma anche disturbi endocrini, patologie immunomediate (allergie ecc.), anomalie congenite e connatali, varie specie di cancro.

Per quanto riguarda i lavoratori degli impianti, inoltre, la gamma delle patologie che è possibile riscontrare è molto vasta. A quelle respiratorie - che vanno dalle bronchiti al cancro - vanno aggiunti tumori del sistema linfatico (linfoma non Hodgkin), malattie cardiache, tumori dei tessuti molli (sarcoma).

Gli effetti sulla salute del processo di incenerimento, dunque, coinvolgono diversi apparati dell’organismo umano, avendo un potenziale nocivo che può esprimersi in chi è a diretto contatto con l’impianto ma anche a distanza.

Ricordiamo, infatti, ancora una volta che quando parliamo di incenerimento parliamo di un sistema integrato di cui fanno parte sicuramente il circuito discariche - impianti per il CDR - inceneritori ma anche il sistema produttivo. Dato che è impossibile, oggi, avere luoghi isolati, è chiaro che i territori toccati da questo circuito saranno fortemente relazionati ad altri territori, ad esempio per ragioni commerciali. La nocività degli impianti, perciò, non resta circoscritta all’area in cui l’inceneritore viene costruito ma si espande. Ecco perché il problema è un problema di tutti.

Moltissimi studi epidemiologici documentano il notevole incremento della patologia respiratoria cronica (broncospasmo, tracheobronchiti croniche, tumori) in lavoratori e residenti nei pressi di impianti di incenerimento. Una notevole incidenza di adenocarcinomi laringei è stata dimostrata in alcuni studi italiani ed inglesi dei primi anni ’90 condotti nei pressi di inceneritori di rifiuti speciali (solventi) e di raffinerie. In uno studio epidemiologico svolto in Italia nel 1996 si documentò una elevatissima mortalità per cancro polmonare (x 6-7) in una popolazione urbana residente nei pressi di un inceneritore.

In ampi studi epidemiologici condotti in Inghilterra su circa 14 milioni di persone negli anni 1996-2000, è stato documentato un incremento significativo di neoplasie epatiche (con una mortalità del 30-37% superiore alla media nei residenti a distanze inferiori ai 7 km dagli impianti).

In uno studio francese del 2000 sono stati documentati clusters significativi di sarcomi dei tessuti molli (+ 44%) e di linfomi non-Hodgkin.

L’aumentato rischio di patologia neoplastica in bambini residenti nei pressi di inceneritori o di grandi impianti industriali è stato documentato in vari studi di medio-lungo periodo svoltisi nel Regno Unito tra il 1974 e il 2000.

Gli effetti genotossici degli impianti di incenerimento furono anche dimostrati negli anni ’60 dall’aumento significativo di malformazioni congenite (spina bifida, ipospadia, palatoschisi ecc.) tanto nei figli dei lavoratori addetti agli impianti, quanto in bambini nati nelle vicinanze di inceneritori e industrie chimiche. Studi più recenti in Belgio e in Scozia hanno documentato un aumento delle gravidanze multiple, dei parti gemellari e delle nascite di sesso femminile in popolazioni residenti nei pressi degli impianti (specie se i genitori di sesso maschile erano stati in contatto con emissioni di diossine ed altri endocrine-disruptors).

Molti studi dimostrano la notevole incidenza di patologie da esposizione a diossine (documentata da un aumento dei cataboliti urinari): cloracne (la prima patologia da esposizione a diossina nota come tale, almeno a partire dagli anni ’60: tra i lavoratori esposti ai pesticidi); diminuita funzionalità immunitaria (calo notevole dei B e dei T-linfociti, almeno in parte endocrino-mediata) epatica e renale; diabete (famoso il caso dei reduci del Vietnam esposti all’agente Orange); allergie; tumori a carico di vari organi e tessuti.

Le diossine sono le sostanze cancerogene ed immunolesive più potenti mai testate. A produrle sono alcune fabbriche chimiche (processi di sbiancamento della carta, produzione di pesticidi ecc) e praticamente tutti gli impianti di incenerimento (in special modo per la combustione del PVC e dei residui ospedalieri). Un’altra fonte di contaminazione è stata negli ultimi anni quella alimentare: la carne di animali nutriti con mangimi contenenti oli combusti; latte e carne di animali nutriti con fieno proveniente da campi contaminati (perché vicini a impianti industriali ed inceneritori). Comunque è ormai assodato che circa il 95% delle emissioni di diossina proviene da impianti di incenerimento di residui solidi urbani e di rifiuti speciali (in gran parte ospedalieri).

La diossina si accumula lentamente nei nostri tessuti, si lega in modo selettivo ad alcuni recettori intracellulari e penetra nel nucleo delle nostre cellule: così può danneggiare il DNA e determinare l’insorgenza di neoplasie e malformazioni.

Nonostante l’EPA avesse da decenni incluso la diossina tra le sostanze probabilmente cancerogene, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato diossine e furani tra gli agenti sicuramente cancerogeni soltanto nel 1997. Cioè ben 31 anni dopo Seveso!

Secondo quanto abbiamo appena osservato, il principale impatto sulla salute è legato alle emissioni dal camino dell’inceneritore e alla gestione dei rifiuti solidi derivanti dalla combustione.

È vero che è possibile operare un abbattimento delle sostanze tossiche contenute nelle emissioni gassose, ma è anche vero che questi sistemi operano non un’eliminazione delle scorie ma un trasferimento dallo stato gassoso a quello solido o liquido, il che sposta il problema ma non lo risolve. Saranno necessarie, infatti, nuove discariche controllate per la gestione di questi residui.

Il problema dell’incenerimento è legato soprattutto all’eterogeneità del combustibile utilizzato (solo in parte proveniente dalla selezione operata dagli impianti per CDR). La grande variabilità dei composti presenti in una caldaia provoca condizioni tali per cui si verificano reazioni chimiche incontrollabili e imprevedibili.

4.2. Costi

Ma davvero l’incenerimento dei rifiuti è la risposta più diffusa nei “Paesi avanzati”, come sostengono numerosi opinionisti e politici nostrani? Se consideriamo gli Stati Uniti d’America, scopriamo una realtà interessante quanto poco discussa.

Dalla fine degli anni Trenta ai Settanta, gli USA hanno fatto un utilizzo sempre maggiore degli impianti di incenerimento dei rifiuti. Con il passare degli anni, in seguito al crescere progressivo delle conoscenze scientifiche e della capacità di mobilitazione dei movimenti ambientalisti, è stato necessario dotare gli inceneritori di impianti di abbattimento degli inquinanti sempre più efficienti e, per questo, più costosi. A partire da questo dato, si è registrata progressivamente, negli Stati Uniti, una drastica riduzione degli impianti, che dai 289 della metà degli anni Sessanta sono diventati 114 solo dieci anni dopo.

Tale trend si conferma negli anni successivi. Dall’inizio degli anni Ottanta al 1990, infatti, furono cancellati 248 progetti di costruzione di inceneritori e all’inizio degli anni Novanta era possibile contare, negli USA, solamente 140 inceneritori in funzione, con una capacità di incenerimento di circa 92.000 tonnellate al giorno.

Le previsioni sull’incenerimento, inoltre, che secondo fonti governative avrebbe dovuto essere del 26% entro il 2000 fu ritoccata, a seguito di tale decremento nell’utilizzo degli inceneritori, al 21%. In realtà, le percentuali reali risultarono ancora più basse, la percentuale di rifiuti inceneriti nel 1997, infatti, fu del 16%, mentre il 35% circa dei rifiuti statunitensi veniva indirizzato verso il riciclaggio. Questa tendenza viene poi confermata dai nuovi obiettivi fissati, di raggiungere il 50% del riciclaggio entro il 2000, segno inequivocabile che un’epoca, quella dell’incenerimento come “soluzione finale” era finita.

Il Wall Street Journal, nell’edizione dell’11 Agosto 1993, forniva una serie di spiegazioni interessanti riguardo la progressiva marginalizzazione del ruolo dell’incenerimento negli USA. Argomento principale, cui i cittadini americani sono particolarmente sensibili, quello dei costi. L’uso degli inceneritori, infatti, sarebbe secondo le stime del tabloid americano un vero e proprio disastro, il che spiegherebbe il dietrofront delle amministrazioni pubbliche.

Sempre secondo il “Journal”, gli organismi pubblici che hanno incoraggiato la costruzione degli inceneritori hanno posto poca attenzione agli aspetti economici della questione, costringendo i contribuenti a pagare migliaia di dollari in più all’anno per il trattamento dei rifiuti. Il costo medio del trattamento dei rifiuti tramite incenerimento, infatti, è di circa 56 dollari a tonnellata, il doppio del costo medio del trattamento in discarica. La gestione di questi impianti, insomma, è stato un disastro economico, sapientemente gestito a proprio vantaggio dalle compagnie private che gestivano gli stabilimenti.

Agli inizi degli anni Ottanta, gli USA furono oggetto di una forte campagna di informazione sulla mancanza di spazi per la costruzione di nuove discariche il che, a fronte del progressivo aumento della produzione di rifiuti, voleva dire trovare una soluzione rapida e che ovviasse a questa carenza di spazi. Tale soluzione fu intravista nella costruzione di impianti di incenerimento, come unica via.

Quell’emergenza fu fronteggiata in maniera intelligente dalle compagnie di gestione degli impianti, che proponevano alle amministrazioni locali contratti in cui si costringevano i governi locali per tutto il periodo di attività degli impianti (circa 20 anni) a garantire quantità fisse di rifiuti da trattare negli inceneritori oppure a pagare esose penali. Il tutto, ovviamente, a scapito del riciclaggio e delle politiche finalizzate alla riduzione della produzione di rifiuti.

Tale emergenza, perciò, risultò essere una vera e propria “manovra” realizzata ad arte dai produttori di inceneritori per facilitarne la diffusione.

Nel nostro Paese, a distanza di anni, viene riproposta una strategia simile per imporre gli inceneritori come soluzione alla “questione rifiuti”. Tramite l’utilizzo dei media, infatti, trasformando il nome “inceneritori” in quello più rassicurante di “termovalorizzatori”, questi impianti vengono fatti passare per la panacea di tutti i mali, essendo in grado di risolvere tutti i problemi del ciclo dei rifiuti, dall’impatto ambientale delle discariche agli interessi mafiosi fino alla riqualificazione del territorio e ai problemi occupazionali.

Anche nel nostro Paese, in realtà, gli inceneritori rappresentano un disastro economico i cui costi di gestione non potranno essere coperti dalla vendita dell’elettricità prodotta.

L’impianto proposto per Genova, da 800 tonnellate al giorno, ricaverebbe con la vendita dell’elettricità 16 miliardi di vecchie lire, per un costo complessivo di 23 miliardi necessari alla gestione ordinaria dell’impianto. Il problema delle ceneri, inoltre, non è ancora risolto visto che il tanto sponsorizzato inceneritore di Brescia è costretto a inviare a pagamento le ceneri che produce alle miniere di salgemma tedesche, unico luogo sicuro per abbatterne la tossicità.

Anche in Italia, inoltre, come negli USA, il pareggio economico degli inceneritori dovrebbe essere raggiunto facendo pagare al contribuente 900 lire a chilowattora l’elettricità prodotta con i rifiuti, a fronte delle 300 lire pagate per l’elettricità prodotta con carbone e petrolio. I conti parlano chiaro, si tratterebbe di una tassa aggiunta sui rifiuti con la quale il contribuente italiano manterrebbe l’inceneritore.