Per quanto riguarda i metalli pesanti, invece, in uno studio
recente sono state calcolate le emissioni totali da inceneritore e la
percentuale che ricoprono rispetto al totale.
Le emissioni degli inceneritori sono generalmente
significative, rappresentando nel caso del Piombo il 20,7% del totale, del
Mercurio il 32%, del Cadmio il 9%, dell’Arsenico il 3%, contribuendo, quindi,
in maniera significativa alla produzione totale di metalli pesanti cancerogeni,
rappresentando una vera e propria “bomba ecologica”. Il sistema più sicuro
per ridurre queste emissioni è costituito dal non bruciare composti che le
contengano. Questo pensiero semplice fa riferimento chiaramente a modifiche
profonde del sistema di produzione delle merci che tengano conto del potenziale
tossico dei materiali utilizzati. Gran parte dei metalli prima citati
provengono, ad esempio, dai coloranti per materie plastiche. È chiaro come una
riduzione del contenuto dei metalli negli imballaggi e un sistema di riutilizzo
degli stessi, possa rivestire un ruolo importantissimo nella riduzione del
danno.
Gli inquinanti vengono prodotti, come detto, in forma
liquida, solida, gassosa. A parte, quindi, la dispersione per via aerea, bisogna
considerare fra gli “effetti collaterali” anche l’inquinamento delle falde
acquifere nonché il “problema ceneri”.
Le sostanze emesse in forma solida, infatti, si dividono in
ceneri di fondo (si trovano alla base della caldaia durante la combustione) e
ceneri volanti, non trattenute dai sistemi di filtraggio. Le ceneri sono,
inoltre, prodotti che necessitano di un sito di stoccaggio, per cui anche quando
l’inceneritore funziona a pieno regime, sarà necessario costruire discariche
per queste scorie. Quando, perciò, viene detto che gli impianti di
incenerimento potrebbero risolvere il problema delle discariche, dobbiamo sapere
che si tratta di promesse false in quanto la produzione di ceneri e scorie
necessiterà di ulteriori discariche in cui stoccare questi prodotti della
combustione.
I sostenitori dell’incenerimento affermano che le
tecnologie più moderne sono in grado di tenere sotto controllo queste sostanze.
Ma anche questa è una verità parziale: la produzione dei POP e delle altre
sostanze tossiche da parte degli impianti di incenerimento rifiuti non può
essere evitata; se ne può semplicemente trasformare una quota in “ceneri”
(il cui smaltimento rimane alquanto difficile); mentre appunto la parte gassosa
continuerà ad inquinare l’atmosfera (con l’aggravante che il particolato
assume dimensioni minori e penetra più facilmente negli alveoli polmonari e in
circolo).
Questo trasversale partito dei sostenitori del
termovalorizzatore, inoltre, forte delle situazioni emergenziali (spesso
provocate ad arte e comunque dovute a decenni di incuria e di mancata attuazione
di precise leggi e normative esistenti) sono soliti sostenere che l’incenerimento
riduce di oltre 2/3 il volume dei rifiuti. Anche questo non è vero: vale,
infatti, solo per il rapporto tra rifiuti solidi e ceneri, e non tiene nel
debito conto l’immensa massa delle emissioni gassose.
Insomma: sostenere che l’incenerimento elimina i rifuti è
una menzogna: si tratta piuttosto di un metodo accelerato di produzione di un’infinità
di molecole tossiche (le reazioni termochimiche che si svolgono all’interno
degli impianti ne producono a centinaia, una minima quota delle quali è
monitorabile e monitorata) generalmente molto più pericolose per l’ambiente e
per la salute umana e più difficili da trattare rispetto ai rifiuti stessi.
In molti paesi tutto questo è ormai chiaro e si cerca di
normare in modo sempre più restrittivo la materia, così da ridurre l’impatto
catastrofico di questa prassi assurda. E molti impianti sono stati chiusi negli
ultimi anni per l’impossibilità di mantenere le emissioni entro i limiti
permessi. Nel nostro Paese sembra non essere un problema il rischio a cui si
sottopongono migliaia di cittadini.
Le categorie più a rischio sono ovviamente quelle più
direttamente esposte alle sostanze tossiche emesse: in primis gli addetti agli
impianti, ma anche gli abitanti nelle zone limitrofe. Queste popolazioni sono
fortemente esposte a inquinanti che, in gran parte, entrano nella catena
alimentare e nell’aria che si respira. Questa situazione determina sicuramente
una maggiore probabilità di incidenza di numerose patologie a carico dell’apparato
respiratorio e cardiocircolatorio, ma anche disturbi endocrini, patologie
immunomediate (allergie ecc.), anomalie congenite e connatali, varie specie di
cancro.
Per quanto riguarda i lavoratori degli impianti, inoltre, la
gamma delle patologie che è possibile riscontrare è molto vasta. A quelle
respiratorie - che vanno dalle bronchiti al cancro - vanno aggiunti tumori del
sistema linfatico (linfoma non Hodgkin), malattie cardiache, tumori dei tessuti
molli (sarcoma).
Gli effetti sulla salute del processo di incenerimento,
dunque, coinvolgono diversi apparati dell’organismo umano, avendo un
potenziale nocivo che può esprimersi in chi è a diretto contatto con l’impianto
ma anche a distanza.
Ricordiamo, infatti, ancora una volta che quando parliamo di
incenerimento parliamo di un sistema integrato di cui fanno parte sicuramente il
circuito discariche - impianti per il CDR - inceneritori ma anche il sistema
produttivo. Dato che è impossibile, oggi, avere luoghi isolati, è chiaro che i
territori toccati da questo circuito saranno fortemente relazionati ad altri
territori, ad esempio per ragioni commerciali. La nocività degli impianti,
perciò, non resta circoscritta all’area in cui l’inceneritore viene
costruito ma si espande. Ecco perché il problema è un problema di tutti.
Moltissimi studi epidemiologici documentano il notevole
incremento della patologia respiratoria cronica (broncospasmo, tracheobronchiti
croniche, tumori) in lavoratori e residenti nei pressi di impianti di
incenerimento. Una notevole incidenza di adenocarcinomi laringei è stata
dimostrata in alcuni studi italiani ed inglesi dei primi anni ’90 condotti nei
pressi di inceneritori di rifiuti speciali (solventi) e di raffinerie. In uno
studio epidemiologico svolto in Italia nel 1996 si documentò una elevatissima
mortalità per cancro polmonare (x 6-7) in una popolazione urbana residente nei
pressi di un inceneritore.
In ampi studi epidemiologici condotti in Inghilterra su circa
14 milioni di persone negli anni 1996-2000, è stato documentato un incremento
significativo di neoplasie epatiche (con una mortalità del 30-37% superiore
alla media nei residenti a distanze inferiori ai 7 km dagli impianti).
In uno studio francese del 2000 sono stati documentati clusters
significativi di sarcomi dei tessuti molli (+ 44%) e di linfomi non-Hodgkin.
L’aumentato rischio di patologia neoplastica in bambini
residenti nei pressi di inceneritori o di grandi impianti industriali è stato
documentato in vari studi di medio-lungo periodo svoltisi nel Regno Unito tra il
1974 e il 2000.
Gli effetti genotossici degli impianti di incenerimento
furono anche dimostrati negli anni ’60 dall’aumento significativo di
malformazioni congenite (spina bifida, ipospadia, palatoschisi ecc.) tanto nei
figli dei lavoratori addetti agli impianti, quanto in bambini nati nelle
vicinanze di inceneritori e industrie chimiche. Studi più recenti in Belgio e
in Scozia hanno documentato un aumento delle gravidanze multiple, dei parti
gemellari e delle nascite di sesso femminile in popolazioni residenti nei pressi
degli impianti (specie se i genitori di sesso maschile erano stati in contatto
con emissioni di diossine ed altri endocrine-disruptors).
Molti studi dimostrano la notevole incidenza di patologie da
esposizione a diossine (documentata da un aumento dei cataboliti urinari):
cloracne (la prima patologia da esposizione a diossina nota come tale, almeno a
partire dagli anni ’60: tra i lavoratori esposti ai pesticidi); diminuita
funzionalità immunitaria (calo notevole dei B e dei T-linfociti, almeno in
parte endocrino-mediata) epatica e renale; diabete (famoso il caso dei reduci
del Vietnam esposti all’agente Orange); allergie; tumori a carico di vari
organi e tessuti.
Le diossine sono le sostanze cancerogene ed immunolesive più
potenti mai testate. A produrle sono alcune fabbriche chimiche (processi di
sbiancamento della carta, produzione di pesticidi ecc) e praticamente tutti gli
impianti di incenerimento (in special modo per la combustione del PVC e dei
residui ospedalieri). Un’altra fonte di contaminazione è stata negli ultimi
anni quella alimentare: la carne di animali nutriti con mangimi contenenti oli
combusti; latte e carne di animali nutriti con fieno proveniente da campi
contaminati (perché vicini a impianti industriali ed inceneritori). Comunque è
ormai assodato che circa il 95% delle emissioni di diossina proviene da impianti
di incenerimento di residui solidi urbani e di rifiuti speciali (in gran parte
ospedalieri).
La diossina si accumula lentamente nei nostri tessuti, si
lega in modo selettivo ad alcuni recettori intracellulari e penetra nel nucleo
delle nostre cellule: così può danneggiare il DNA e determinare l’insorgenza
di neoplasie e malformazioni.
Nonostante l’EPA avesse da decenni incluso la diossina tra
le sostanze probabilmente cancerogene, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca
sul Cancro (IARC) ha classificato diossine e furani tra gli agenti sicuramente
cancerogeni soltanto nel 1997. Cioè ben 31 anni dopo Seveso!
Secondo quanto abbiamo appena osservato, il principale
impatto sulla salute è legato alle emissioni dal camino dell’inceneritore e
alla gestione dei rifiuti solidi derivanti dalla combustione.
È vero che è possibile operare un abbattimento delle
sostanze tossiche contenute nelle emissioni gassose, ma è anche vero che questi
sistemi operano non un’eliminazione delle scorie ma un trasferimento dallo
stato gassoso a quello solido o liquido, il che sposta il problema ma non lo
risolve. Saranno necessarie, infatti, nuove discariche controllate per la
gestione di questi residui.
Il problema dell’incenerimento è legato soprattutto all’eterogeneità
del combustibile utilizzato (solo in parte proveniente dalla selezione operata
dagli impianti per CDR). La grande variabilità dei composti presenti in una
caldaia provoca condizioni tali per cui si verificano reazioni chimiche
incontrollabili e imprevedibili.
4.2. Costi
Ma davvero l’incenerimento dei rifiuti è la risposta più
diffusa nei “Paesi avanzati”, come sostengono numerosi opinionisti e
politici nostrani? Se consideriamo gli Stati Uniti d’America, scopriamo una
realtà interessante quanto poco discussa.
Dalla fine degli anni Trenta ai Settanta, gli USA hanno fatto
un utilizzo sempre maggiore degli impianti di incenerimento dei rifiuti. Con il
passare degli anni, in seguito al crescere progressivo delle conoscenze
scientifiche e della capacità di mobilitazione dei movimenti ambientalisti, è
stato necessario dotare gli inceneritori di impianti di abbattimento degli
inquinanti sempre più efficienti e, per questo, più costosi. A partire da
questo dato, si è registrata progressivamente, negli Stati Uniti, una drastica
riduzione degli impianti, che dai 289 della metà degli anni Sessanta sono
diventati 114 solo dieci anni dopo.
Tale trend si conferma negli anni successivi. Dall’inizio
degli anni Ottanta al 1990, infatti, furono cancellati 248 progetti di
costruzione di inceneritori e all’inizio degli anni Novanta era possibile
contare, negli USA, solamente 140 inceneritori in funzione, con una capacità di
incenerimento di circa 92.000 tonnellate al giorno.
Le previsioni sull’incenerimento, inoltre, che secondo
fonti governative avrebbe dovuto essere del 26% entro il 2000 fu ritoccata, a
seguito di tale decremento nell’utilizzo degli inceneritori, al 21%. In
realtà, le percentuali reali risultarono ancora più basse, la percentuale di
rifiuti inceneriti nel 1997, infatti, fu del 16%, mentre il 35% circa dei
rifiuti statunitensi veniva indirizzato verso il riciclaggio. Questa tendenza
viene poi confermata dai nuovi obiettivi fissati, di raggiungere il 50% del
riciclaggio entro il 2000, segno inequivocabile che un’epoca, quella dell’incenerimento
come “soluzione finale” era finita.
Il Wall Street Journal, nell’edizione dell’11 Agosto
1993, forniva una serie di spiegazioni interessanti riguardo la progressiva
marginalizzazione del ruolo dell’incenerimento negli USA. Argomento
principale, cui i cittadini americani sono particolarmente sensibili, quello dei
costi. L’uso degli inceneritori, infatti, sarebbe secondo le stime del tabloid
americano un vero e proprio disastro, il che spiegherebbe il dietrofront delle
amministrazioni pubbliche.
Sempre secondo il “Journal”, gli organismi pubblici che
hanno incoraggiato la costruzione degli inceneritori hanno posto poca attenzione
agli aspetti economici della questione, costringendo i contribuenti a pagare
migliaia di dollari in più all’anno per il trattamento dei rifiuti. Il costo
medio del trattamento dei rifiuti tramite incenerimento, infatti, è di circa 56
dollari a tonnellata, il doppio del costo medio del trattamento in discarica. La
gestione di questi impianti, insomma, è stato un disastro economico,
sapientemente gestito a proprio vantaggio dalle compagnie private che gestivano
gli stabilimenti.
Agli inizi degli anni Ottanta, gli USA furono oggetto di una
forte campagna di informazione sulla mancanza di spazi per la costruzione di
nuove discariche il che, a fronte del progressivo aumento della produzione di
rifiuti, voleva dire trovare una soluzione rapida e che ovviasse a questa
carenza di spazi. Tale soluzione fu intravista nella costruzione di impianti di
incenerimento, come unica via.
Quell’emergenza fu fronteggiata in maniera intelligente
dalle compagnie di gestione degli impianti, che proponevano alle amministrazioni
locali contratti in cui si costringevano i governi locali per tutto il periodo
di attività degli impianti (circa 20 anni) a garantire quantità fisse di
rifiuti da trattare negli inceneritori oppure a pagare esose penali. Il tutto,
ovviamente, a scapito del riciclaggio e delle politiche finalizzate alla
riduzione della produzione di rifiuti.
Tale emergenza, perciò, risultò essere una vera e propria
“manovra” realizzata ad arte dai produttori di inceneritori per facilitarne
la diffusione.
Nel nostro Paese, a distanza di anni, viene riproposta una
strategia simile per imporre gli inceneritori come soluzione alla “questione
rifiuti”. Tramite l’utilizzo dei media, infatti, trasformando il nome “inceneritori”
in quello più rassicurante di “termovalorizzatori”, questi impianti vengono
fatti passare per la panacea di tutti i mali, essendo in grado di risolvere
tutti i problemi del ciclo dei rifiuti, dall’impatto ambientale delle
discariche agli interessi mafiosi fino alla riqualificazione del territorio e ai
problemi occupazionali.
Anche nel nostro Paese, in realtà, gli inceneritori
rappresentano un disastro economico i cui costi di gestione non potranno essere
coperti dalla vendita dell’elettricità prodotta.
L’impianto proposto per Genova, da 800 tonnellate al
giorno, ricaverebbe con la vendita dell’elettricità 16 miliardi di vecchie
lire, per un costo complessivo di 23 miliardi necessari alla gestione ordinaria
dell’impianto. Il problema delle ceneri, inoltre, non è ancora risolto visto
che il tanto sponsorizzato inceneritore di Brescia è costretto a inviare a
pagamento le ceneri che produce alle miniere di salgemma tedesche, unico luogo
sicuro per abbatterne la tossicità.
Anche in Italia, inoltre, come negli USA, il pareggio
economico degli inceneritori dovrebbe essere raggiunto facendo pagare al
contribuente 900 lire a chilowattora l’elettricità prodotta con i rifiuti, a
fronte delle 300 lire pagate per l’elettricità prodotta con carbone e
petrolio. I conti parlano chiaro, si tratterebbe di una tassa aggiunta sui
rifiuti con la quale il contribuente italiano manterrebbe l’inceneritore.