Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (terza parte). Dalla partecipazione controllata alla concertazione
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
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Il ruolo affidato nell’ambito della divisione
internazionale del lavoro, in particolare dalla fine degli anni ’70 proprio
per comprimere la forza espressa dal movimento operaio nei due decenni
precedenti, porta il capitalismo ad ipotizzare un superamento dell’era
fordista e pone anche l’Italia in una fase di ridefinizione del capitalismo
con caratteri post-industriali, superando nei fatti le logiche interpretative di
tipo industrialista ed “operaista”. Si passa, così, ad una gerarchizzazione
dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di
trasformazione sociale ed economica che vedono emergere modalità dello sviluppo
incentrate sul terziario e sempre più nuove soggettività del lavoro precario e
non garantite. Si evidenzia, quindi, un terziario che interagisce e si integra
sempre più con le altre attività produttive, soprattutto quelle industriali,
determinando un nuovo modello organizzativo di sviluppo con al centro le
attività del terziario tradizionale fino ai servizi più avanzati, passando dal
modello delle “Tre Italie” allo sviluppo cosiddetto a “pelle di leopardo”,
fino a quello che in altri lavori abbiamo definito come “tessuto a
multilivello di irradiazione terziaria”. Si tratta in sostanza di un
terziario implicito ed esplicito, esternalizzato, che ha assunto in particolare
poi negli anni ’90, un ruolo sempre più propulsivo e trainante del modello di
sviluppo economico, non spiegabile soltanto da semplici processi di
deindustrializzazione o di ristrutturazione e riconversione industriale, ma
dalle esigenze di ristrutturazione e diversificazione del modello di capitalismo
italiano.
In questi anni riappare una figura quasi dimenticata dopo la
grande crisi degli anni trenta, ossia il disoccupato classico da crisi
strutturale. Questo si evidenzia sempre più frequentemente nelle regioni
della grande industria, dove i grandi poli industriali hanno progressivamente
ridotto la manodopera. Se nel Nord un fatto di questo genere risulta fuori dall’ordinario,
nel Meridione quello che era un problema strutturale assume una valenza cronica.
In tale schema macroeconomico cambia la considerazione dell’impresa
non più da individuare come aggregato indistinto, ma piuttosto in funzione del
grado di flessibilità imposta al lavoro, finalizzato all’interazione
con le altre imprese in modo da realizzare aggregazioni territoriali che
caratterizzano il nuovo modello di sviluppo basato sulla fabbrica sociale
generalizzata.
Nascono, quindi, forme di occupazione tra le più svariate:
contratti a tempo determinato, contratti di formazione, apertura di agenzie di
lavoro interinale, ecc...
Non stupisce quindi che l’Istat classifichi un insieme di
figure fino ad allora marginalmente conosciute quali:
- gli irregolari: lavoratori dipendenti pienamente
occupati, ma non registrati nei libri paga del datore di lavoro;
- gli occupati non dichiarati: persone che,
svolgendo un’attività insufficiente o insoddisfacente, si dichiarano
disoccupati;
- gli stranieri: coloro che non risultano in regola
con il permesso di soggiorno;
- i lavoratori che svolgono un secondo lavoro (6).
In quegli anni le relazioni dell’Istat indicano che sul
totale dell’unità di lavoro, il 15-20% sarebbe non regolare. Tale cifra sale
al 30-35% nel Mezzogiorno e addirittura al 40% nell’industria meridionale.
Contribuiscono, ad aggravare il fenomeno della
disoccupazione, le grandi masse di immigrati che affluiscono nel nostro Paese.
Infatti, mentre in questi anni si riduce drasticamente il fenomeno di
emigrazione, al contempo cresce in maniera esponenziale quello delle
immigrazioni. C’è da dire poi che molti immigrati, pure essendo in possesso
di regolare permesso di soggiorno, esercitano anche attività lavorative non
regolari. Questi trovano occupazione nel Centro-Nord nel settore industriale e
scarsamente nei servizi, mentre nel meridione nel settore agricolo, in
prevalenza con lavori di tipo stagionale.
Una nuova struttura del mercato del lavoro realizzata tramite
marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti economici e
sociali non compatibili.
Nell’ultimo periodo in esame, peggiora ulteriormente il
numero degli occupati nell’industria, mentre continuano ad aumentare i
lavoratori impiegati nella piccola e media impresa, ovvero nei distretti
industriali.
I distretti industriali vengono a costituire un soggetto
economico e geografico del tutto particolare.
A tal proposito è significativa la tabella 2, che evidenzia
come i distretti industriali siano ancora per tutti gli anni ’80
effettivamente una componente fondamentale della nostra economia (Fonte: Istat).
In percentuale abbiamo, infatti, che le piccole e le medie
aziende nazionali esportano quote del fatturato pari a quelle grandi. Ma mentre
le grandi aziende hanno subìto nel periodo 1983-1992 un calo, le piccole
realtà hanno mantenuto sostanzialmente gli stessi valori; invece per quanto
riguarda le medie imprese notiamo addirittura un netto miglioramento negli anni.
La competitività delle piccole imprese, quindi, non
differisce molto da quelle grandi nel settore manifatturiero. Va notato,
tuttavia, che questo dato è fortemente influenzato dal fatto che le piccole e
medie imprese sono generalmente sub-fornitrici e non fornitrici dirette di
prodotti e quindi, più propense ad agire sul mercato nazionale che su quello
internazionale. Questo comporta che i dati relativi alle piccole e medie imprese
potrebbero essere più alti se considerati in settori differenti da quello
manifatturiero.
Gli anni ’80 si sono caratterizzati, oltre che per una
diminuzione degli occupati nel settore agricolo, anche e soprattutto per una
forte espansione di occupazione nel settore terziario che è cresciuto del 6%
rispetto all’anno 1971.
La caratteristica principale di questi anni fu comunque l’emergere
di una classe lavoratrice intermedia che andò a sostituire mano a mano le
precedenti figure occupazionali operaie tradizionali.
Nel ramo dell’industria, si attua negli anni un calo del
tasso medio di variazione della produttività, soprattutto nel settore
manifatturiero che evidenzia una tendenza al ribasso alla fine degli anni ’80,
inizio del ’90, dopo la lunga fase di sviluppo che l’ha interessata dal
1980; ossia nell’industria si ha uno sviluppo riguardante i rami innovativi a
svantaggio di quelli tradizionali, nei quali si usa un’elevata intensità di
lavoro.
In sostanza gli occupati nell’industria crescono fino al
1981 (il valore di quest’anno è il massimo registrato) e cominciano a
diminuire negli anni seguenti sia per un aumento della produttività dovuta all’innovazione
tecnologica sia per la competizione internazionale.
Analogamente a questo andamento decrescente, si ha invece un
accentuato mutamento nel settore dei servizi.
La crescita di occupazione nel settore terziario necessitava
di qualifiche e istruzione superiori rispetto agli anni precedenti in quanto,
mentre per gli occupati nel settore primario e secondario non era necessaria una
istruzione adeguata, l’inserimento nel settore terziario prevedeva una
formazione più elevata.
Prende forma in quegli anni una rinnovata strategia
capitalistica (una ripresa dell’imperialismo simile a quella precedente il
primo conflitto mondiale) che si concretizzerà successivamente in un nuovo
ciclo produttivo legato alla produzione immateriale (il capitale informazione),
che affonderà le sue radici nella finanziarizzazione dell’economia,
subordinando il sindacalismo riformista al potere del capitale, e che produrrà
importanti trasformazioni nel mondo del lavoro.
Il declino della grande impresa fordista basata sulle risorse
del capitale materiale modifica anche i rapporti fra il sindacato e la direzione
dell’impresa. Se in passato la prevalenza della grande impresa ha dato luogo a
un rafforzamento del sindacato e di conseguenza un miglioramento e una tutela
della vita lavorativa, il sopravvento delle imprese più piccole porta a un
capovolgimento della situazione. L’occupazione dei lavoratori diviene molto
più instabile e precaria, vi è, infatti, una minore tutela delle condizioni
normative (rispetto delle norme sull’orario di lavoro, sullo straordinario e
sulle ferie) e sulla sicurezza del lavoro.
Se gli anni ’70 appaiono come quelli in cui il conflitto
sociale ha raggiunto livelli importanti (in un contesto di capitalismo
internazionale fortemente in crisi e che in apparenza si avvia verso un processo
irreversibile), non va però sottaciuto che, proprio in quegli anni di crisi del
capitalismo, si sviluppa la crisi della soggettività di classe. Infatti in
questi anni si è ridotto molto il ruolo dei sindacati che non hanno saputo
imporsi, anzi che hanno scelto la via dell’istituzionalizzazione consociativa,
svendendo le conquiste che i lavoratori avevano ottenuto negli anni precedenti;
questo è avvenuto anche se i numeri delle iscrizioni ai sindacati rimasero
pressoché costanti.
Il sindacalismo confederale si è trasformato in una
appendice istituzionale funzionale solo ai progetti di gestione e di
ristrutturazione della società determinati dai gruppi politici dirigenti e dai
grandi centri di potere finanziario, appendice istituzionale che deve però
mantenere aperti spazi e prospettive a quelle sacche di iscritti e
simpatizzanti, specie nella CGIL, che ancora credono nella necessità del
conflitto sociale; da qui la necessità, sporadica, di “funzionare” l’ipotesi
di piazza attraverso lo spauracchi dello sciopero, con due tragici aspetti:
inflazionare l’istituto rivendicativo dello sciopero, già delegittimato dalle
norme di autoregolamentazione (vero bavaglio al dissenso organizzato) e
normalizzare gli strumenti di condivisione delle politiche (elemento che tra
qualche anno darà vita all’infelice epoca della CONCERTAZIONE).
3. Istituzionalizzazione versus democrazia
L’intervento sulla forza lavoro diventa inevitabile e si
concretizza con la messa in crisi del compromesso keynesiano: sindacato e Stato
sociale non bilanciano più la potenza dell’impresa capitalistica, che diventa
egemone.
È la conseguenza logica della “linea dell’EUR”, la
linea del contenimento delle rivendicazioni, della “compatibile necessità”,
per meglio affrontare la crisi e la conseguente ristrutturazione, una pratica
che produrrà “una profonda amputazione della democrazia del sindacato...”
[1] nella quale neanche la CGIL riesce a svolgere un ruolo efficace.
I 35 giorni della FIAT segnano inesorabilmente un punto di
svolta nell’ordinamento democratico del sindacato, “in esso ci sono già
tutti gli elementi di un regime di democrazia autoritaria, della
centralizzazione delle decisioni, dell’emarginazione dei delegati. Sono
proprio queste negative premesse che troveranno sviluppo negativo negli anni ’80.”
[2]
Quello citato è solo un aspetto della crisi di
rappresentanza democratica che caratterizza gli anni a venire o, per meglio
dire, è uno strumento che contribuirà al processo di istituzionalizzazione del
sindacato; accanto ad esso la borghesia, che articola il percorso di
ristrutturazione capitalistica, ha necessità di sviluppare altri due importanti
filoni:
1. agevolare la “normalizzazione” del partito operaio
in partito classico compatibile;
2. separare lo Stato dalla società, al fine di rendere il
primo non condizionabile dal fiorire dei movimenti antagonisti.
Volendoci soffermare un istante sulla diminuzione di
autonomia (fino alla scomparsa) e sul conseguente processo di
istituzionalizzazione del sindacato, dobbiamo dire che questo fenomeno ha radici
antiche, anche se sarebbe sbagliato inserirlo in un “percorso continuato”.
Se analizziamo il sindacato dei Consigli, pur con tutte le riserve del secondo
periodo della sua esistenza, quando già la democrazia interna veniva meno,
vediamo come l’agire sindacale scaturiva da un mandato attribuito dai
lavoratori. Negli anni ’80 cambia il senso di questo agire ed il sindacato è
legittimato da un consenso che viene dall’impresa (o dal Governo) e che poi
trasforma in agire proprio per determinare il consenso dei lavoratori,
accettando, di fatto, la perdita della propria autonomia e l’inserimento
(istituzionalizzazione) tra quelle forze: Governo (partiti, schieramenti,...) e
imprenditori (Confindustria, lobby, gruppi di potere,...) che rappresentano il
potere costituito.
“Si impone l’esigenza... di cogliere, attraverso nuovi
contenuti contrattuali (partendo già dall’applicazione dei contratti
nazionali) le esigenze di flessibilità nella produzione e nei servizi, le
aspettative e i bisogni dei lavoratori nei confronti del lavoro” oppure,
“nella contrattazione di nuove occasioni di ingresso al lavoro di giovani
in cerca di prima occupazione... si può considerare, per periodi
temporaneamente definiti, la possibilità di livelli inferiori di retribuzione
(salario di ingresso) da definirsi in sede di Contratto Collettivo Nazionale” e
ancora, “...obiettivi prioritari: a) la contrattazione di calendari di
lavoro rispetto all’andamento della produzione e della specificità produttive
(punte di mercato, stagionalità, ecc.) affermando anche una varietà di regimi
di orario nella stessa azienda” [3].
[1] F. Bertinotti, La democrazia autoritaria, Datanews, Roma, settembre
1996, pag. 20
[2] Idem pag. 51
[3] Tratto da: “Conferenza Nazionale
dei delegati sulle politiche rivendicative e contrattuali”, Chianciano, 17
19 Aprile 1984, Relazione introduttiva di F. Vigevano, Segretario Nazionale
CGIL, commissione V°, oggi su: “I documenti CGIL dal X° all’XI°
Congresso”, volume II°, EDIESSE, Roma, 1986 pagg. 251 e seg.