Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (terza parte). Dalla partecipazione controllata alla concertazione
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
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Il decennio che segue segna svariati punti di caduta e le
ripercussioni sul mondo del lavoro sono sotto gli occhi di tutti, ma anche il
sindacato accusa il colpo, e anche il sindacato “più lontano” da queste
soluzioni: “la CGIL rivolge in primo luogo un appello affinché il
tentativo di scaricare sul sindacato e sui lavoratori la responsabilità di
produrre nel sindacato stesso elementi di crisi e di scoraggiamento, sia
battuto, come condizione per perseverare la forza dei lavoratori e la
potenzialità del cambiamento. L’attacco al sindacato si configura ormai
chiaramente come contestazione e messa in mora del proprio ruolo rappresentativo
di agente contrattuale” [i].
Con l’aumentare del processo di istituzionalizzazione viene
meno, come si è visto, il concetto di democrazia nel sindacato.
Quello che si comincia a registrare è una pratica mai vista
in forme così generalizzate: l’arbitrio sindacale. La consultazione
dei lavoratori diventa facoltativa, di fatto, come di fatto il suo esito,
qualora richiesto, può essere tenuto o meno in considerazione dal sindacato.
Viene meno la democrazia perché viene meno l’autonomia che
ha prodotto un unico soggetto sindacato-classe; viene meno l’autonomia del
sindacato perché vengono meno le fondamenta, democratiche e partecipative,
nella costruzione di un progetto sindacale.
Perdita di democrazia, processo di istituzionalizzazione,
arbitrio sindacale, facce di un unico poligono che annovera un ulteriore
segmento, la “maggiore rappresentatività”, una logica protezionistica, un
“elemento di possibile e sistematica corruzione dell’impegno democratico
nella verifica della sua azione” [i].
Mentre la CGIL puntualizza almeno nelle intenzioni dichiarate
la ferma opposizione alla politica dei redditi ed a qualsiasi limitazione all’autonomia
sindacale come elementi non superabili dalla pratica della partecipazione, la
CISL apre all’ipotesi di una “responsabile partecipazione allo studio,
all’elaborazione, alla formulazione ed all’applicazione del programma
...perché l’importanza che nel mondo moderno assumono le organizzazioni
sindacali dei lavoratori, dà ad esse il diritto ed il dovere di influire sui
comportamenti della politica e economica” [1].
Siglare accordi determina un gioco al ribasso: il 22 gennaio
dell’83 si diminuisce il costo del lavoro con l’alleggerimento della scala
mobile (che ben presto verrà cancellata) e in cambio si ottiene una riduzione
del carico fiscale in busta paga e l’adeguamento degli assegni famigliari. I
tre sindacati confederali applicano da subito una programmazione
istituzionalizzata contro il conflitto concertando con la Confindustria sul
costo del lavoro. Unico rattoppo - che però non accontenta nessuno - è quello
di decurtare il punto di contingenza del 15 per cento. Si bloccano le
contrattazioni aziendali e si diminuisce l’orario di lavoro; l’inizio della
concertazione passa per programmazione nella quale tutta la politica, come
capacità alta di mediazione, è assente dai gravi problemi economici che sta
attraversando il Paese e anzi l’unico progetto politico sembra essere quello
di distruggere completamente ogni residua ipotesi di affermare l’autonomia di
classe.
I commenti dei vertici confederali, subito dopo la firma dell’accordo
sulla riduzione del costo del lavoro, erano contrassegnati dalla convinzione e
dalla certezza che questa firma sbloccava le trattative sui contratti, scaduti
da oltre 14 mesi e fermi al punto di partenza.
“Passata l’euforia del post-accordo (scriveranno le
RdB in una analisi retrospettiva in occasione della presentazione del Progetto
di legge sulle libertà sindacali nei posti di lavoro) è ripreso il balletto
degli scioperi burla da parte del sindacato e delle dichiarazioni di fuoco del
padronato con accuse, che rimbalzano da una parte all’altra di non rispettare
i contenuti dell’accordo. E così, mentre questo balletto si trascina tutt’ora,
i contenuti ufficiali delle piattaforme subiscono un ulteriore ridimensionamento
e la firma dei contratti avviene su un terreno ancora più basso” [2].
Vengono immediatamente accantonati i lavoratori di basso
livello (2°-3°), “quello che gli spettava l’hanno avuto il 22 Gennaio”
dirà Lama al Comitato Direttivo CGIL del 17 e 18 Febbraio, perché i contratti
devono servire per premiare la professionalità, la produttività, i quadri e l’orario
di lavoro. La distanza salariale torna a diventare enorme e si sposta per una
riparametrazione a favore dei vertici più alti delle gerarchie dei posti di
lavoro. Il salario riassume tutto il valore discriminatorio degli anni 69 - 70;
viene inserita per la prima volta in un contratto privato la voce “indennità
di funzione” (chimici), vecchio strumento clientelare nel pubblico impiego per
i livelli più alti. A fronte di ridicole riduzioni di orario, vengono accettati
sfondamenti nell’uso dello straordinario anche di 80 ore (calzaturiero) e 120
ore (chimico) mentre nel metalmeccanico le riduzioni a 40 ore previste per il
’79 vengono spostate all’86. Nella sanità, il 10 % dei lavoratori (i
medici) portano a casa un rinnovo contrattuale pari al 60% del valore stanziato
dal Ministero della Sanità. Eppure, nonostante tutto questo, i sindacati
confederali continuano a chiamare allo sciopero, impoverendo ancora di più le
tasche dei lavoratori, per dimostrare che quel poco che otterranno sarà stato
frutto di sacrifici e di lotte, mentre invece la frequentazione del “potere”
piace ai vertici sclerotizzati e sempre più sulla strada del definitivo
abbandono degli interessi di classe.
Gli scioperi nella “programmazione istituzionalizzata” e
nella “partecipazione controllata” sono davvero troppo poco per
rappresentare degnamente un conflitto sociale, troppo poco per non sentire,
forte, il grido di allarme della classe operaia che si ribella e della società
che non ha più fiducia nella sponda sindacale.
Sono questi gli anni in cui l’attacco al sindacato
autoritario e burocraticizzato arriva da più fronti, anche da frange di
estremismo e della stessa area della “lotta armata” che proprio nelle
fabbriche aveva ricostruito la sua rinascita, favorita dalla politica di
rinuncia e di accettazione consapevole delle scelte padronali in quel terreno di
cultura fatto di alienazione, di precariato, di connivenze dei capi e capetti
con i padroni e di clientelismo mediato dallo stesso sindacato tradizionale,
ormai del tutto istituzionalizzato, che non rappresenta gli interessi di classe.
Un sindacato che si svuota progressivamente di democrazia e che si struttura in
senso verticistico, trascurando il diritto alla rappresentanza, elemento
sostanziale della democrazia dei consigli che aveva caratterizzato gli anni ’70;
un sindacato che sperimenta la mediazione moderata (che diventerà
concertazione), che indica la strada della partecipazione al ribasso e
controllata dai voleri padronali e dei vertici sindacali corrotti senza più
spinta ideale e assorbiti dalla logica clientelare e dal favoritismo; una sorta
di logica di scambio in cui gli interessi dei lavoratori sono lesi a favore di
quelli del sindacato.
“Un vero e proprio assedio ha stretto in questi anni il
sindacato. Si sono aperte divisioni al suo interno, tra esso e i lavoratori, si
è ristretto il fronte di lotta, in particolare quello tra occupati e
disoccupati, si è registrata una grave caduta dell’unità tra Nord e Sud”
[3].
Le RdB, che denunciano con largo anticipo i risvolti nefasti
di questo accordo e le ripercussioni in termine di garanzia di adeguati livelli
salariali, scriveranno il 1° Maggio: “...il rifiuto di questa farsa, il
boicottaggio attivo delle scadenze sindacali appare il terreno migliore per
impegnare le nostre forze nel progetto di ricostruzione di una organizzazione
sindacale di classe per la difesa degli interessi materiali dei lavoratori ai
quali aggiungere il diritto alle libertà sindacali nel momento in cui
CGIL-CISL-UIL RIVENDICANO OBIETTIVI CONTRARI agli interessi della stragrande
maggioranza dei lavoratori” [4].
4. Ripresa dell’iniziativa di classe e sviluppo del sindacalismo di
base
È in questo contesto di ribellione che si consoliderà l’alternativa ai
sindacati confederali attraverso un percorso che non mira né alla
legittimazione del sindacato-istituzione, né alla gestione del potere ma
esclusivamente a dar voce alle istanze dei lavoratori, attraverso un sistema di
delega diretta e rapidamente sostituibile. Si intersecano e si rielaborano con
successo le esperienze dei Comitati di lotta e dei Comitati Unitari di Base, si
confrontano le esperienze dei Consigli di Fabbrica e di Zona, con l’operazione
delle Liste di Lotta, con le realtà in lotta per la casa, per la soluzione del
precariato (L.285/80).
Verso la fine del decennio degli anni ’70, grazie alla
riproposizione del contesto politico e sindacale che ne aveva determinato la
nascita e grazie anche alla corretta individuazione degli elementi che ne
avevano decretato la fine, si svilupperanno modelli simili di sindacalismo di
base che faranno dell’autonomia di classe, dell’indipendenza dai partiti e
dalla politica consociativa e concertativa dei sindacati storici la strategia di
lunga durata e della coerente rappresentanza della base lo strumento di lotta
quotidiana.
Già nell’Aprile ’79 alcuni rappresentanti dei lavoratori
della sede centrale dell’INPS di Roma, componenti del Consiglio dei Delegati,
regolarmente eletti, tentano di ridisegnare un modello di democrazia
partecipativa in forte contrasto con la segreteria provinciale FLEP e con il
resto del CdD (CGIL-CISL-UIL) dando vita ad un Comitato di Lotta contro il
rifiuto costante del CdD di tener conto delle volontà dell’assemblea: “I
‘signori delle tessere’ della FLEP, questa sorta di monarchia sindacale, non
si sono resi conto ... che lo scontro che si è determinato in questi anni ha
fatto crescere la coscienza dei lavoratori, il rifiuto delle deleghe in bianco e
della accettazione della ragion di stato che ha sempre segnato le più pesanti
sconfitte per i lavoratori” [5].
Le RdB (Rappresentanze Sindacali di Base) nate da alcune
esperienze di fabbriche metalmeccaniche alla fine degli anni ’70, si
svilupperanno poi nel Pubblico Impiego e nelle lotte del precariato costituito
con la legge 285/77 avviando un percorso di organizzazione stabile. Si affermano
poi come realtà sindacale consolidata, con strutture di federazione radicate su
tutto il territorio nazionale, fortemente caratterizzata da una attenta analisi
e da una corretta strategia che ne legittima il peso sullo panorama sindacale
nazionale. Le RdB sapranno coniugare gli elementi portanti dell’esperienza dei
sindacati di base del decennio precedente (l’indipendenza dai partiti e il
costante rapporto con la base) adeguando costantemente le strategie alla fase
politica di riferimento, con un occhio sempre attento (dalla base) all’involuzione
delle dinamiche sociali frutto del capitalismo selvaggio ed un altro vigile
sullo scenario internazionale. Le RdB saranno elemento indispensabile per la
costruzione della Confederazione Unitaria di Base (CUB), da alcuni anni ormai
unica realtà di base tra le Confederazioni maggiormente rappresentative
presenti nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL).
“La nascita della Rappresentanza di Base è una risposta
nuova e più avanzata alle loro illusioni di aver chiuso la partita coi
lavoratori. È la proposta non di un nuovo sindacato, ma di un terreno di
organizzazione dei lavoratori dove si scontreranno da una parte la volontà di
continuare con la gestione “monarchica” del sindacato e dall’altra l’iniziativa
di base di coloro che hanno interessi giusti da difendere e vogliono rafforzare
il potere contrattuale dentro l’istituto. I principi a cui si ispira la
rappresentanza di base sono quelli delle decisioni assembleari e della
determinazione di strutture che siano interne ai posti di lavoro e la cui
rappresentatività è in funzione delle decisioni che in quelle sedi vengono
prese dai lavoratori. La rappresentanza di base, che nasce come strumento
unitario, si riconosce nella tradizione di lotta che i lavoratori italiani hanno
fino ad oggi espresso per la loro emancipazione e con essa vuole stabilire una
continuità ideale”. (da “Statuto della Rappresentanza di Base dell’INPS”).
Negli anni successivi le RdB si svilupperanno nella Pubblica
Amministrazione come nel privato e nelle fabbriche adeguando le proprie
strategie alle varie fasi politiche, contrastando sempre le pratiche
consociative, anche quando queste si determineranno come unica strategia di
sopravvivenza per il sindacato confederale (accordi di Luglio del ’93) ed
anche quando il sindacato tradizionale da “istituzionalizzabile” diventerà
istituzione, quando cioè ci sarà completa osmosi tra ruoli sindacali e ruoli
di partito e/o di governo. Le RdB rappresenteranno addirittura quasi l’unica
voce fuori dal coro quando i processi di trasformazione della Pubblica
Amministrazione si sposteranno prepotentemente verso la privatizzazione e lo
smantellamento dello Stato sociale diverrà l’unica meta delle compagini
governative, spostate alternativamente a destra a sinistra di quel grande centro
che si riproporrà dopo la farsa conclusiva della prima Repubblica.
Alla metà degli anni ’80 alla esperienza delle RdB, già
realtà confederata seppure ancora ridotta quantitativamente, si aggiungono due
importanti momenti di lotta che rompono l’isolamento dei primi nuclei del
sindacalismo di base. Il primo è quello dei macchinisti delle Ferrovie dello
Stato che, con una serie lunghissima di scioperi, tutti riusciti, vince la
propria battaglia e costituisce “Il Coordinamento Macchinisti Uniti”(COMU).
Il secondo è quello degli insegnanti che, in modo
inaspettato e storicamente inedito per il nostro Paese, scioperano e scendono in
piazza a decine e decine migliaia; una categoria, fino a quel momento, sempre
estranea al conflitto sociale nel nostro Paese. Da quella esperienza nascono i
Cobas della scuola.
Questi due momenti di lotta e di organizzazione seppure molto
radicati nelle necessità specifiche della categoria rompono l’egemonia di
CGIL-CISL-UIL in modo palese e pongono obiettivamente la questione della
ricostruzione di una nuova rappresentanza sindacale di classe.
5. A passi svelti verso la concertazione
L’inadeguatezza del quadro sindacale confederale
dimostrerà tutta la sua pressoché totale subordinazione al potere del capitale
nella stagione dei rinnovi contrattuali dell’83.
Il 13 marzo si chiude il contratto dei chimici.
Scaduto il 30 Giugno 1982, le trattative sono durate 9 mesi
con circa 70 ore di sciopero (300.000 £ circa a lavoratore)la prossima scadenza
è fissata per il 30.6.86 con una durata contrattuale di 4 anni.
Nessun recupero salariale per i 6 mesi dell’82.
Aumenti scaglionati in 3 anni a partire dall’1.1.’83 e
fortemente differenziati a favore dei quadri e dei livelli + alti. Per un
operaio di 3° livello l’aumento lordo complessivo sarà di 82.000£ nel
triennio. Per i quadri, 7° e 8° liv. è prevista una indennità di funzione
pari a 40.000 £ al 7° e 70.000£ all’8°da sommare agli aumenti contrattuali
di 114 e 124.000£ lorde.
L’orario di lavoro resta a 40 ore.
Flessibilità dell’orario settimanale. Viene utilizzata
questa forma per far fronte alle esigenze produttive dell’azienda. In sostanza
si prevede la possibilità, a fronte di un piano annuo di lavoro, di poter
stabilire un regime di orario settimanale diverso da quello contrattuale, sia
aumentandolo che diminuendolo.
Viene fissato un orario annuo flessibile per combattere l’assenteismo,
da 2024 a 2144 ore anno. Il lavoratore che realizzerà l’orario completo, 2144
ore, avrà un premio presenza pari al pagamento delle 120 ore lavorate in più
del minimo orario annuo con maggiorazione del 30%. Si tratta di uno
straordinario mascherato sotto forma di lotta all’assenteismo e che
rappresenta un incentivo alla produttività [6].
Il 31 luglio si rinnova del contratto dei Tessili, scaduto il
31 Maggio dell’82, durata della trattativa 14 mesi con 200 ore di sciopero
(circa 1.000.000 £ per dipendente).
Il contratto scadrà il 31.5.86 con una durata superiore ai 4
anni, gli aumenti salariali scaglionati in 3 anni, 1.7.83, 1.7.84, 1.7.85,
nessun recupero per i 7 mesi dell’82, 120.000 £ una tantum come recupero dei
primi 6 mesi dell’83 (in 3 rate). Aumenti complessivi nel triennio per le
fasce operaie (2° e 3° liv.) dove sono ammassati l’80% dei dipendenti, di 70
e 80.000 £ che al netto scendono a 50, 60.000£.
In questo caso i lavoratori tessili impiegheranno qualche
anno per poter recuperare una parte del salario perso per “strappare” questo
contratto.
[i] “ La Segreteria CGIL alla ripresa post -
feriale” 2/9/1982, oggi su: “I Documenti CGIL dal X° all’XI°
Congresso” Volume I°, EDIESSE, Roma 1986, Pag. 92
[i] “La democrazia autoritaria” F.
Bertinotti, Datanews, Roma settembre 1996, pag. 103.
[1] Vittorio Valli, “Programmazione
e sindacati in Italia” F.Angeli Editore, Milano 1970
[2] “Noi”
Periodico delle Rappresentanze di Base, n°6 - 1 Maggio 1983 pag.3
[3] Relazione di G. Rastrelli, della Seg. Nazionale CGIL, alla Conferenza
Nazionale di Organizzazione della CGIL, Rimini 14 -17 Luglio 1983. Oggi in: “I
Congressi CGIL dal X° all’XI°” EDIESSE 1986, Vol. 2°, pag. 221.
[4] “Noi” Periodico delle Rappresentanze
di Base, n°6 - 1 Maggio 1983 pag.3.
[5] Documentazione curata dalla Rappresentanza
di Base della sede INPS di Roma, oggi presso l’Archivio della Federazione
Nazionale RdB/CUB.
[6] Per approfondimenti vedi: “Noi”
periodico delle Rappresentanze di Base - n°7 pag.7