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La transizione difficile

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Annamaria Crescimanni
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Professoressa di Teoria dell’inferenza Statistica, Fac. di Scienze Statistiche, Università “La Sapienza”, Roma; membro del Comitato Scientifico di CESTES-PROTEO

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Verso quale università?

Annamaria Crescimanni

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1. Il sistema universitario e la politica per il suo funzionamento

 

er molti giorni ho cercato un bandolo da cui partire per una riflessione sull’Università e il suo stato di salute. Le mie difficoltà a trovarlo nascono da almeno due motivi. Uno personale: rispetto all’argomento avverto come miei diversi ruoli. La compagna che diffida del vento liberista che spira anche sull’Università, la docente che vede sempre più restringersi lo spazio del confronto nel luogo di lavoro, la lavoratrice de “La Sapienza” che non accetta che fatti gravi di cronaca, di costume e malcostume siano stati presentati come ennesimo risultato della natura di piovra immonda del 1° ateneo romano, ma anche la madre che vede nei propri figli un esempio di cattivo inserimento nell’università (la colpa è mia, loro o del sistema?!!). Appena decido da quale punto di vista partire, avverto il disagio di non cominciare da altro.

Un secondo motivo però, lo ascrivo al Ministro della ricerca scientifica, continua a lanciare parole d’ordine in troppe direzioni: verrà attuata una riforma dell’organizzazione dei corsi e dei titoli di studio, saranno modificati i rapporti tra struttura centrale e sedi universitarie, le facoltà daranno vita a forme contrattuali con i propri studenti, che da discenti diverranno consapevoli contraenti del sapere, scompariranno i mega atenei, causa di ogni male, in futuro oltre all’Autonomia avremo il Campus, il Cub, la Flessibilità, la Valutazione, la Contrattazione....

Il ministro dichiara che “l’università deve riappropriarsi della sua primaria funzione storica: la formazione dei quadri professionali per la società”, (a meno che non sia indicato esplicitamente, tutte le frasi virgolettate nel testo sono tratte da documenti firmati dal Ministro) chi ce l’aveva rubata e cosa abbiamo fatto nel frattempo, noi e il nostro ministro, professore e già rettore, cui non è mai mancata autorità in merito?

Eppure la flessibilità nel sistema formativo universitario e il principio dell’autonomia dei singoli atenei erano già in leggi fondamentali, la legge n.382 del 1980, la n. 168 del 1989 e quella del 1990, la n.341 nota come legge Ruberti; non era meglio, anche per l’immagine della nostra classe dirigente, indicare i punti di continuità e innovazione con quanto già iniziato e non condotto a termine?

A titolo d’esempio di seguito mi riferisco alla questione dei diplomi universitari, i corsi triennali, che senz’altro hanno costituito per il nostro ordinamento un importante punto di svolta. Una questione su cui sia il ministro che i suoi consiglieri sono spesso intervenuti e che credo di conoscere abbastanza bene, anche perché in un corso di diploma insegno.

Rileggendo la 341, si poteva dar vita alla prevista regolamentazione in tema di validità concorsuale del titolo di diploma universitario, volendo si potevano dare le necessarie indicazioni ai Ministeri competenti, in armonia con quanto previsto dall’articolo 9, comma 5 della legge 341.

Tra questi il Ministero della funzione pubblica, visto che i diplomi universitari, pur diretti alla formazione di profili professionali, ancora non trovano una corrispondente definizione negli ordinamenti del pubblico impiego e neppure nella classificazione di quello privato. Ha dato direttive all’ARAN (agenzia che stipula i contratti per la PA) affinché la posizione del diplomato universitario trovi un riscontro negli ordinamenti (carriere e qualifiche) delle amministrazioni pubbliche?

Il Ministro del lavoro ha provveduto affinché in sede di Uffici di collocamento sia contemplata la qualifica professionale corrispondente al diploma universitario?

E infine il Ministro della ricerca scientifica si è fatto carico del problema dell’effettivo inserimento produttivo dei diplomati, prevedendo forme d’informazione in ogni ambito lavorativo? Ma soprattutto, siamo sicuri che tutti i corsi di diploma universitario corrispondano a figure professionali di cui si avverte l’effettiva necessità nel mondo della produzione e nel sistema economico?

Niente di tutto questo, che io sappia; però, in una intervista di cui ho purtroppo perduto la documentazione, il Ministro avrebbe detto che l’esperienza dei Diplomi Universitari è, almeno per ora, fallita. Dove sono le analisi che ci confermano il fallimento di quella che, visto la natura profondamente innovativa dei nuovi corsi “brevi” rispetto la nostra tradizionale organizzazione didattica, è un’esperienza che, nella maggior parte dei casi, non ha ancora avuto il tempo di uscire da una fase di sperimentazione?

Ma veniamo al merito di quanto il Ministro ci propone.

Le dichiarazioni d’intenti, sono esplicitamente presentate in modo non organico, come “somma di principi ispiratori” e non atti di riforma, su cui per altro ci è stata a volte consegnata solo o poco più di una parola d’ordine.

E’ poco per aprire una discussione organica, ma una discussione va aperta comunque vista la riconosciuta centralità del problema universitario per lo sviluppo della società.

Per farlo occorre necessariamente partire da alcune considerazioni di fatto.

 

 

2. Le difficoltà del sistema

 

Parto da un fatto incontrovertibile: circa il 70 % degli studenti iscritti all’università rinuncerà allo studio universitario, dopo un periodo più o meno lungo (e crescente) di permanenza e avendo spesso cercato di superare e qualche volta aver superato esami. Anche il numero di esami superati dagli studenti che abbandonano gli studi è crescente e non credo proprio che si possa dire semplicisticamente che si tratta di ragazzi poco motivati. Chiunque abbia analizzato dati sul rendimento dello studio universitario, non può non essere rimasto impressionato ed essersi almeno chiesto se non fosse necessario approfondire questa specifica questione.

Questo non è il problema di uno o pochi atenei, ma di tutti. Viene spesso indicato come il problema del “disagio studentesco”, sorta di mal sottile di una generazione costituzionalmente debole, forse a causa del buco dell’ozono!!

La situazione non è mai sostanzialmente diversa, tra grandi e piccole sedi, tra grandi e piccole facoltà, non è diversa tra facoltà umanistiche e scientifiche, non è diversa tra Nord e Sud. Una ormai ampia letteratura [1] ci conferma la scarsa efficacia del nostro sistema universitario, tra i meno produttivi dei paesi della Cee. Si potrebbe pensare che il sistema assicuri, sia pure in modo così ingiusto, il necessario numero di laureati, ma non è così, la quota di popolazione attiva in possesso di laurea (il 6% della popolazione tra i 25 e i 65 anni secondo dati Istat del 1995), è sotto la media europea e non corrisponde alle necessità del paese.

Nella figura 1 si può confrontare la nostra situazione con quella di altri paesi industrializzati. Si tratta di dati di fonte OCSE, che non si riferiscono però a situazioni perfettamente corrispondenti, per alcuni paesi, come la Gran Bretagna e la Spagna, si tratta in prevalenza di cicli di studi brevi, per altri come l’Italia e la Germania, di cicli prevalentemente lunghi.

Un luogo comune recita che al Sud sono tutti laureati, ovviamente non è vero, in termini relativi al Sud vi è il 20% di laureati in meno (Stefano Gorelli, vedi nota 2), ma resta il fatto che il grado di efficienza degli atenei è sostanzialmente lo stesso, poco più del 30%; ad essere diverso è il grado della partecipazione dei giovani agli studi universitari, percentualmente minore e non maggiore per i giovani del Sud.

Ma l’informazione, nota, di questa gravissima situazione non viene utilizzata per cercare più adatti ausili didattici, per istituire commissioni d’esperti dell’arte di insegnare. Viene invece richiamata (opportunisticamente) come concausa di una “.. delle ben note anomalie del nostro sistema d’istruzione: la concentrazione della più gran parte degli studenti in alcuni atenei e facoltà sovraffollate”.

Ma essere in un grande ateneo (il più grande d’Europa nel caso della Sapienza) non è solo un guaio per studenti e docenti, è anche un grande vantaggio perché sia il ricercatore che lo studente possono trovare e di fatto spesso hanno trovato, risposta a bisogni di conoscenza relativi a linee di ricerca non approfondite nella propria sede; in ogni facoltà ci sono discipline che non divengono asfittiche proprio grazie alla presenza nello stesso ateneo di centri di elaborazione di quel particolare sapere.

Ovviamente molti di noi sperano di poter operare in un ambiente meno affollato e quindi più vivibile, sarà bene che si risolva il problema dell’intasamento di sedi come “la Sapienza”, ma non è la dimensione dell’ateneo la causa dell’inefficacia dell’insegnamento.

La facoltà in cui lavoro, Scienze Statistiche, la più piccola dell’ateneo romano, ha quasi la stessa percentuale di successi di una delle più grandi, Economia, come si può vedere dalla tabella 1.

Gli indicatori che è stato necessario utilizzare per valutare l’efficacia dei corsi, i valori delle ultime due colonne, sono piuttosto grossolani, i laureati sono rispettivamente riferiti agli iscritti e agli immatricolati dello stesso anno accademico, un’informazione precisa si sarebbe avuta solo considerando quanti degli immatricolati di un anno arriveranno a laurearsi, si tratta di collettivi che devono essere seguiti spesso oltre i 12 anni per conoscere l’esito definitivo.

Le rilevazioni effettuate in diverse sedi, Torino, Padova, Firenze, Pisa, Bologna, Roma, Viterbo, Napoli, Bari, Palermo ed altre ancora (e quindi lungo tutto lo stivale), confermano che analizzando le coorti (studenti che si sono immatricolati, ossia hanno iniziato la carriera universitaria, in uno stesso anno accademico) il risultato è più o meno, ma sempre drammaticamente, negativo.


[1] Jannaccone Pazzi R., Ribolzi L., 1991 Università flessibile, Etas libri, Milano; Università degli studi di Firenze, Osservatorio studenti, 1992, Tasso di laurea ed abbandono precoce, Firenze; Gorelli S., 1996,La formazione universitaria: accesso, percorsi, esiti, facoltà di Economia, Università della Tuscia ; Bottiroli, Civardi M., Camiz S., 1997, La popolazione studentesca e le Università italiane: indagini, modelli e risultati, CLEUP editrice, Padova.