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Il punto, la pratica, il progetto

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Mauro Fotia
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Professore di Sociologia Politica. Fac. Scienze statistiche nell’Università di Roma “La Sapienza”

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Profit State e crisi delle democrazie contemporanee

Mauro Fotia

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Pochi si rendono conto della necessità di ripensare lo sviluppo in termini di modello sociale. Ancora più pochi sono convinti che la crescita non è il risultato naturale della gestione di mercato e delle politiche di generica espansione, ma piuttosto il possibile esito di politiche di trasformazione attentamente valutate nei diversi contesti e nelle dimensioni specifiche.

Naturalmente questi ultimi sono portatori di filosofie economiche e politiche radicalmente contrapposte a quelle dominanti.

Taluni parlano di ripresa del movimento dei lavoratori, di inversione della corsa dei salari (non più verso il basso, ma verso l’alto), di ricostruzione dell’economia dal basso. Le istituzioni nazionali, essi rilevano, non sono adeguate a realizzare questo programma, ma non lo sono neanche, da un lato, le istituzioni globali centralizzate, dall’altro, i sistemi locali frammentati. Un programma di questo tipo deve essere perseguito a più livelli territoriali: locale, regionale, nazionale, sovranazionale, mondiale, senza tuttavia dimenticare i gruppi non territoriali come le comunità etniche o religiose sparse su più territori [i].

Altri puntano piuttosto ad un assetto geoeconomico e geopolitico imperniato sul policentrismo. Ed esemplificando con l’Europa, vi individuano quattro meso-regioni - l’Unione Europea, l’Europa baltica, L’Europa mediterranea, l’Europa danubiana - quali altrettanti “anelli della solidarietà” da coltivare. Con ciò affermando il superamento della centralità dell’Unione Europea, assestata sul vecchio schema centro-periferia ad essa funzionale, e rigettando anche e in primo luogo l’istanza globalistica del “capitalismo triadico” delle transnazionali [i].

Altri ancora confidano sulla ripresa del discorso dello sviluppo delle aree del Terzo Mondo. La logica del capitale unilaterale, secondo costoro, ha accresciuto enormemente la distribuzione ineguale dei redditi fra le classi sociali, sia sul piano interno, sia sul piano dei rapporti tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati. I gravi rischi dell’assalto etnico, del fondamentalismo religioso e del neofascismo dovrebbero spingere ad avviare concretamente le possibilità di rinascita delle società del Terzo Mondo, arrestando i disegni di sfruttamento da parte del capitalismo mondiale [i].

Pur puntando principalmente sulle aree arretrate, questi studiosi non trascurano la altre aree. Ed in questo senso anche la loro visione si appunta su una regionalizzazione policentrica che offra il contesto nel quale l’interdipendenza sia negoziata e comunque organizzata in modo da offrire a tutti i popoli l’accesso a condizioni di vita sempre più soddisfacenti [1].

Rita Martufi e Luciano Vasapollo ritengono, invece, che la lotta contro la globalizzazione può dispiegare in pieno la sua efficacia solo se viene rilanciata l’iniziativa sociale e politica dei nuovi soggetti del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro. Un’iniziativa che deve concretarsi in un’azione quotidiana perché il salario venga riconosciuto come “grandezza sociale”. Il salario è infatti un’entità relazionata a) all’insieme dei mezzi di sussistenza e dunque alle prestazioni pubbliche a carattere assistenziale e previdenziale, b) ai consumi collettivi erogati gratuitamente o a prezzo controllato, c) all’impiego di tempo in lavori non retribuiti (si pensi al lavoro delle casalinghe) e tuttavia esprimenti sul piano della forza lavoro un forte valore sociale.

Coerentemente con questa posizione i nostri autori propugnano la creazione di un “reddito sociale minimo” per tutti i disoccupati. Un reddito che non ha i caratteri dell’elargizione caritatevole del “soccorso agli esclusi”, ma vuol essere il frutto della riappropriazione da parte dello Stato del suo irrinunciabile ruolo di creatore di occupazione e di garante della dignitosa sopravvivenza di tutti coloro che, per una qualsiasi ragione, non ricollegabile a loro colpa, ne sono temporaneamente privi. In tal senso, nell’ottica dei due studiosi, il “reddito sociale minimo” si pone anche come “uno strumento di iniziativa politica che si contrappone alle forme al ribasso di uguaglianza che puntano a ripartire tra i poveri solo la miseria, contrapponendo i giovani agli anziani, gli occupati ai disoccupati, il diritto al lavoro ai diritti al lavoro, gli aumenti occupazionali ai salari ridotti, alla flessibilità, alla grande precarietà, al continuo abbassamento della qualità del lavoro e della qualità della vita” 13.

Tutto ciò implica la riproposizione in forme nuove del conflitto lavoro-capitale. Tale conflitto deve sicuramente dipartirsi da una riunificazione delle diverse soggettività critiche e della loro riqualificazione come nuove figure dell’antagonismo sociale. Ma deve andare oltre. E spingersi verso una nuova fiscalità che procuri allo Stato le risorse necessarie perché agisca coerentemente in una prospettiva di effettiva giustizia sociale.

Su questa strada urgente appare ai nostri autori la lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Solo nei confronti della prima, infatti, stime note a tutti stabiliscono perdite a danno dello Stato italiano per circa 300 mila miliardi all’anno. Ma indifferibile risulta anche la tassazione dei capitali. E precisamente la tassazione delle transazioni speculative realizzate nel mercato dei cambi e delle valute (Martufi e Vasapollo si richiamano al riguardo alla famosa Tobin Tax, proposta dal grande keynesiano, premio Nobel per l’economia, James Tobin) e quella su tutte le altre transazioni finanziarie compiute sui mercati borsistici. Le une e le altre in realtà muovono quotidianamente per finalità speculative migliaia di miliardi di dollari [i].

In pratica i due studiosi “impegnati”, secondo la sempre valida accezione gramsciana del termine, in quanto animatori dei ricordati “Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali” e della rivista “Proteo”, danno vita al “Comitato promotore nazionale per il reddito sociale minimo”, promuovono una proposta di legge popolare per l’istituzione del reddito sociale minimo, decidono l’adesione del Cestes all’”Associazione internazionale per una Tobin tax di aiuto ai cittadini” (Attac), mettono in piedi numerose altre iniziative sociali e culturali capaci di sospingere in avanti il sogno di una lotta efficace contro la globalizzazione finanziaria neoliberista ed i dissesti sociali da essa provocati [2].

Si tratta di obiettivi sostanzialmente improntati ad una visione economica neokeynesiana. Dico sostanzialmente perché i due analisti sono caricati aggiuntivamente di un forte volontarismo, che non risulta affatto un velleitarismo utopistico, ma una volontà seriamente radicata nel rigore dell’analisi scientifica e nella concretezza dell’azione di ogni giorno. Certo neppure i neokeynesiani, come osserva Bruno Amoroso, sfuggono oggi al trend della globalizzazione [i]: questo vuol dire che se non rielaborano le loro griglie macroeconomiche in materia di strumenti di intervento a tutela della piena occupazione e dell’indirizzo sociale della produzione, la nuove contraddizioni tra società e capitalismo non saranno intaccate. Ma non è azzardato pensare, che avviato l’arresto del fascino della rivoluzione culturale neoliberista [3], il neokeynesismo comincerà a dare nuovi frutti, idonei ad arrestare il cammino della “locomotiva mondiale” verso il traguardo dello schiacciamento dell’uomo. Solo in questo caso, comunque, potrà realizzarsi finalmente il sogno di Gunnar Myrdal di far transitare la realtà sociale del pianeta dallo “Stato del benessere al Mondo del benessere” [i].

 

 

5. Mitologie intorno ad una democrazia politica globale

 

Martufi e Vasapollo sono due cultori di economia; ma la dimensione socio-politica di questa disciplina è così presente nel loro libro da non consentire dubbi sulla loro consapevolezza dell’intreccio tra aspetti produttivi, sociali, politici e istituzionali esistente in seno ai processi di globalizzazione dell’economia contemporanea. Ancorché mai affiori in essi la pretesa di affrontarne una trattazione sistematica, ogni passaggio del volume ne è impregnato. Ed evidente risulta altresì l’alto grado di autocoscienza nei confronti soprattutto dei problemi politici ed istituzionali.

Quando penso all’idea sostenuta con enfasi da Richard Falk, che stia emergendo, parallelamente ai processi di globalizzazione dell’economia, una global civil society, che renderebbe possibile l’unificazione politica del pianeta e concretamente un governo ed un parlamento mondiali democraticamente eletti [4], mi confermo nella convinzione su quanta parte di astratto ed ingenuo illuminismo affligga ancora certa produzione politologica contemporanea.

Ma Falk non è il solo a peccare di ottimismo illuministico. Seppure in maniera più accorta, coltiva una prospettiva cosmopolitica anche David Held. Questi dichiara espressamente che l’era del post guerra fredda esalti “la possibilità di un nuovo ordine internazionale basato sull’estensione della democrazia nel mondo e su un nuovo spirito di cooperazione e di pace” [i]. Tale possibilità per Held diviene addirittura un’esigenza ineludibile perché imposta da numerose fratture interne ed esterne tra la sfera formale dell’autorità politica rivendicata dagli Stati, e le strutture e le attività del sistema che viene ad imporsi a livello mondiale. Fratture rappresentate a) dal diritto internazionale, b) dall’internazionalizzazione dei processi decisionali politici, c) dall’organizzazione internazionale delle forze militari per la sicurezza, d) dalla globalizzazione della cultura, e) dalla mondializzazione dell’economia [i].

Ora, per parlare solo di alcune di questa rotture, Held non si avvede, ad esempio, che la normazione dell’arena internazionale risiede tutta nelle mani di alcune superpotenze a vocazione egemonica; potenze che controllano le maggiori istituzioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, conferendo loro un carattere illiberale e gerarchico. Così pure il politologo anglosassone trascura di considerare i gravi dissesti operati dalla globalizzazione dell’economia, evidenziati dallo studio di Martufi e Vasapollo e da noi avanti richiamati. Dissesti consistenti nel potenziamento delle aree geoeconomiche e geopolitiche più ricche e sviluppate del pianeta e nell’emarginazione delle aree più deboli ed arretrate. Egli, infine, attribuisce scarsa o nessuna importanza al rischio segnalato da taluni analisti, consistente nel fatto che un governo politico globale democraticamente ispirato mirerebbe necessariamente ad un “ordine politico ottimale”, che di fatto potrebbe essere assicurato solo attraverso interventi normativi intensi e alla fine autoritari [5].

 

 

6. Conclusione

 

Concludendo, mi pare importante rilevare come il libro di Martufi e Vasapollo si raccolga tutto intorno ad un’idea centrale: la prospettiva di “un’altra società”, qualitativamente diversa e lontana da quella disegnata dal pensiero neoliberista mondiale, non è stata definitivamente abbandonata da tutti gli studiosi ed operatori politici [6].

L’incontro di Firenze dei maggiori leader socialdemocratici europei con Clinton e Cardozo sul tema del riformismo del XXI secolo, come la conferenza del “World trade organization” (Wto) di Seattle, che ha raggruppato nella città della microsoft 135 Paesi, sugli scambi commerciali del futuro, hanno evidenziato, ancora nel recente novembre del 1999, la forte divergenza, fortunatamente persistente, tra visione angloamericana e visione europea della riforma del capitalismo contemporaneo.

Alle mire egemoniche globalistiche degli Stati Uniti d’America si può dunque resistere sul piano dell’analisi scientifica e dell’azione sociale e politica. Il volume dei due studiosi dell’Ateneo romano “La Sapienza” ci dice che non solo si può ma si deve.


[i] S. Brecher - T. Costello, Contro il capitale globale. Strategie di resistenza, Milano, 1996, pp. 175-220.

[i] B. Amoroso, Della globalizzazione, Molfetta (BA), 1996, pp. 154-168.

[i] S. Amin, Il capitalismo nell’era della globalizzazione. La gestione della società contemporanea, Trieste, 1997, pp. 116-131.

[1] E così Amin si spinge a parlare idealisticamente di “risposta umanista alla sfida della globalizzazione” e di “prospettiva di socialismo globale” (o.c., pp. 25-26). Ma di lui v. anche: Oltre la mondializzazione, Roma, 1999, (in particolare le pp. 57-111).

[i] E. Martufi - L. Vasapollo, o.c., pp. 280-291.

[2] L’ultima parte del libro raccoglie una ricca documentazione inerente a tali iniziative (pp. 295-393).

[i] B. Amoroso, o.c., pp. 152-153.

[3] Per un approccio al pensiero neoliberista e alle sue aporie di fondo, rinvio alla mia Introduzione a M. Fotia - A. Pilieri, Il neoliberismo in Italia, 3° ed., Roma, 1998, pp. 29-91. Ma cfr. anche B. Cartosio, L’autunno degli Stati Uniti. Neoliberismo e declino sociale da Reagan a Clinton, Milano, 1998.

[i] G. Myrdal, Beyond the Welfare State, Greenwood Press, Publishers Wesport, Connecticus: 176, 1960.

[4] Cfr. E. Falk, A global approach to national policy, Cambridge (Mass.), 1975; Idem, Per un governo umano. Verso una nuova politica mondiale, Trieste, 1998.

[i] D. Held, Democrazia e ordine globale. Dallo stato moderno al governo cosmopolitico, Trieste, 1999, p. 268.

[i] D. Held, o.c., capp. 5 e 6.

[5] Cfr. H. Bull, The anarchical society, London, 1977. Ma per l’intera questione v. di Danilo Zolo la perspicua prefazione all’edizione italiana del volume di Held da noi richiamato di Danilo Zolo (pp. XIII-XVI), nonché il volume “Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale”, Milano, 1995 (in particolare le pp. 117-196).

[6] Un libro che mostra in maniera penetrante come l’economia capitalistica debba essere ricondotta al suo statuto di <<evento>> determinato entro una congiuntura e sottratto alla pervasività totalizzante di legge invalicabile e metastorica è quello di P.Barcellona, Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Bari, 1998.