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Mauro Fotia
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Professore di Sociologia Politica. Fac. Scienze statistiche nell’Università di Roma “La Sapienza”

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I partiti tra reinvenzione e rinnovamento

Mauro Fotia

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1. Il processo di delegittimazione dei partiti

 

Rpartiti italiani così come oggi si propongono non sono più credibili. Essi appaiono a) poveri di idee e di programmi rispondenti alle aspettative dei cittadini, b) privi di strategie di largo respiro, c) lacerati tra di loro e dentro di loro da lotte di mero potere, d) dominati all’interno da oligarchie staccate dalla base e tutte volte a perseguire interessi di gruppo minoritario privilegiato. Un tale quadro risulta, poi, in tutta la sua disfunzionalità se a questi cinque tratti si aggiunge quello relativo all’esasperata frammentazione nella legislatura in corso dentro il parlamento italiano, si contano più di cinquanta partiti e partitini, i quali, sia sotto il profilo politico che sotto quello istituzionale originano una pesante situazione di stress, influenzando negativamente l’intera area delle relazioni tra forze sociali e vita pubblica.

Sul primo piano non poche delle microformazioni partitiche hanno la loro esclusiva ragion d’essere nel far capo o a personaggi noti ma politicamente consumati e come tali totalmente disancorati da ogni rapporto con la società o a uomini quasi sconosciuti, suscettibili di acquisire visibilità politica solo mediante l’assunzione di un ruolo di leadership in politica, visto che nella competizione sociale rimarrebbero appunto ai margini dell’arena. Sul piano istituzionale esse danno vita alla proliferazione dei gruppi parlamentari, alla fluidità degli stessi, alla conseguente, continua espansione del gruppo misto che raccoglie i numerosi fuorusciti dalle varie formazioni [1].

Sì che non stupisce che la realtà partitica del nostro Paese risulti collassata. Gli iscritti sono fortemente diminuiti. Solo per fare un esempio, e significativo perché riguarda i Ds, vale a dire, il partito di maggioranza relativa, essi da 1 milione e 800 mila del 1971, nel 1999 sono calati a circa 800 mila, perdendo quasi 100 mila unità solo nel 1998. I militanti sono divenuti una specie rara. I giovani vi si tengono lontani, anzi, sembra avvertano una vera e propria ripugnanza. Molte sezioni hanno chiuso, il funzionariato è stato drasticamente ridotto (solo in seno ai Ds dalle 2.407 unità del 1989 si è passati alle meno di 400 di oggi). La stampa stenta a sopravvivere.

Così pure sul piano elettorale trovano più adeguata spiegazione sia la crescita dell’astensionismo sia il calo dell’identificazione col partito votato.

In ordine al primo fenomeno, dati non poco significativi provengono da una ricerca condotta da Bingham Powell. Su trenta paesi, dal 1960 al 1978, l’Italia risulta al primo posto per il livello di partecipazione elettorale. Mentre la media delle nazioni considerate si attesta sul 76 per cento, il nostro Paese raggiunge il 94 per cento di partecipazione [2]. Dal 1979 in poi, invece, l’astensionismo, come mostra Arendt Lisphart in un indagine realizzata in venti democrazie industrializzate, è in crescita costante e supera nel ritmo di avanzamento quello degli altri paesi analizzati: la media italiana della partecipazione elettorale nel solo ventennio 1976-1996 verifica un calo di oltre dieci punti percentuali mentre la media delle altre nazioni registra un calo di cinque punti [3].

Una particolare accelerazione del fenomeno, aggiungiamo noi, si registra nell’ultimo quinquennio, in concomitanza con l’avvio della trasformazione del sistema dei partiti e l’introduzione di nuove logiche competitive nonché di diverse modalità di svolgimento delle elezioni.

Importante è rilevare peraltro che l’elevato tasso di partecipazione italiana del primo ventennio prima ancora che a fattori normativi ed istituzionali (obbligatorietà del voto, rappresentanza proporzionale), viene attribuito, seppur non esplicitamente, ad un radicamento sociale dei partiti.

Quanto all’identificazione col partito votato, l’Italia, fra le nazioni studiate, risulta - ed è questo un dato comune a tutte le ricerche - quella a maggiore sfiducia nei partiti e negli uomini politici, a più alta insoddisfazione per il funzionamento del sistema politico [4]. E perciò risulta in calo non solo l’identificazione non partecipe ma anche quella partecipe. La prima caratterizza coloro che hanno una forma di legame col partito acquisita passivamente attraverso l’appartenenza subculturale o le reti di relazioni personali e familiari. La seconda sottolinea coloro che scelgono il partito sulla base di consapevoli motivazioni ideali e programmatiche [5]. Negli uni e negli altri la relazione emozionale col partito perde progressivamente di intensità sino a sfociare nell’indifferenza emotiva.

 

 

2. Il governo di partito

 

Il nesso tra la situazione descritta e la consolidata pratica del modello del governo di partito (party government) è evidente [6].

Tale modello, come è noto, trova legittimazione e sostegno in particolare nella vita politica americana e britannica (presso quest’ultima assume la denominazione di “modello di Westminster”) [7]. L’idea di fondo, in particolare nella pratica inglese, è che il principale compito dei partiti al governo consista nel far funzionare in modo stabile ed efficiente le istituzioni dello Stato, a partire dal parlamento. Ciò può accadere perché, grazie all’unità raggiunta attraverso l’organizzazione dei parlamentari in partiti, il legislativo si mostra in grado di garantire una coerente, prolungata attività di governo [8].

Sull’astrattezza teorica ed i limiti e le contraddizioni operative di siffatto assunto la già ricca letteratura politologica trova sempre nuovi apporti.

In ogni caso, nel nostro Paese la pratica del modello in questione ha portato ad uno snaturamento della stessa ragion d’essere dei partiti. Questi ultimi erano nati con il compito di essere a) i tramiti principali della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, b) i protagonisti del reclutamento del ceto politico, c) le forze di elaborazione delle politiche pubbliche, esprimenti quello che i giuristi chiamano “indirizzo politico” del parlamento e del governo. Con l’avvento del modello in questione essi vengono invece ad impossessarsi di tutti i principali poteri di decisione e di nomina, attribuendosi la guida e il controllo dell’intera vita istituzionale dello Stato e degli altri enti pubblici (regioni, provincie, comuni, ecc.), nonché del parastato. E così nominano di fatto (formalmente, com’è ovvio la loro si configura come una semplice designazione) non soltanto i policy maker del parlamento e del governo centrali, regionali e locali cioè a dire, i parlamentari, i ministri e i sottosegretari, i capi delle giunte locali e regionali, gli assessori deputati a ruoli strategici, una parte dei membri della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura e delle Authority, ma anche tutti coloro che hanno il compito di gestire risorse pubbliche negli enti pubblici economici, nelle banche, nelle finanziarie, nelle società assicuratrici. Preoccupandosi che tutti siano portatori di un sicuro lealismo verso il partito o i partiti che li hanno nominati; e che dunque sul piano operativo rimangano costantemente subordinati ad essi.

Naturalmente, quando, a formare la maggioranza di governo non è più un solo partito o una coalizione ristretta ed egemonizzata - com’è accaduto per oltre quarant’anni per la Democrazia Cristiana - [9], ma una coalizione ampia e per di più eterogenea e conflittuale, si impone una distribuzione di tali nomine fra i partiti membri della coalizione. Si ricorre perciò al metodo spartitorio, che in genere tiene conto non tanto dell’effettiva consistenza elettorale di ciascun partito, quanto del suo potere di condizionamento o addirittura di veto all’interno della coalizione. Anche se, per completezza di riferimento storico - politico, va ricordato che tale metodo, già a partire dalla seconda metà degli anni settanta, venne praticato dal regime consociativo instauratosi tra le due maggiori soggettività politiche del tempo, la Dc e il Pci. Ovviamente in versione diversa. Una versione di cui la più “nobile” interpretazione è quella fornita da Alfio Mastropaolo. “Tra le due forze politiche che si contrapponevano si è (...) instaurata, egli rileva, una vera e propria divisione del lavoro. Assunto quasi da subito il controllo degli apparati dello stato, e quindi il monopolio dei mezzi legittimi di coercizione, la Dc sul piano politico è stato il partito della democrazia “formale”, mentre, sul piano economico e sociale, profittando della congiuntura internazionale favorevole, ha promosso lo sviluppo, pur essendo almeno in parte culturalmente restia ad accettare regole e principi dell’economia capitalistica. Di contro, assicuratosi il monopolio dell’opposizione sociale, che costituiva il suo fondamentale deterrente, il Pci, è stato il partito della democrazia “sostanziale”, la cui pressione, a dispetto della sua profonda diffidenza verso le potenzialità dell’economia italiana, si è rivelata decisiva affinché i benefici dello sviluppo fossero ridistribuiti ed estesi”  [10].

Se questi sono gli effetti prodotti dal governo di partito sul piano istituzionale, non meno rilevanti sono quelli indotti nella vita socio
 culturale del Paese. Questi sono riassumibili nell’assunzione del trasformismo clientelare a paradigma di tutta l’azione politica. Per cui il metro di coerenza degli uomini di potere non va cercato nella fedeltà ad un quadro ideologico ed alla impostazione programmatica che ad esso si accompagna ma nella capacità di schierarsi sempre con le forze al governo, allo scopo di conservare la posizione di dominio, d’essere in grado di soddisfare le richieste dei loro elettori, considerati come clienti, e, attraverso il sostegno crescente di questi, rafforzare progressivamente la posizione stessa [11].

 

3. Il trasformismo clientelare

 

Tale paradigma, peraltro, è presente nella cultura e nella vita politica del nostro Paese fin dai primi decenni che seguono all’Unità e trova le sue più alte espressioni in un continuum storico che non conosce interruzioni, nel giolittismo, nel fascismo e nel doroteismo [12]. Quest’ultimo, inaugurato nel secondo dopoguerra, non trova incarnazione, come potrebbe pensarsi, solo nella Dc o post Dc, ma figura in misura maggiore o minore come appannaggio o connotato essenziale di tutti i partiti italiani. Esso rappresenta la forma più compiuta di degrado politico conosciuto dalla nostra vita associata per almeno un quarantennio. E, dopo una breve parentesi, che in qualche modo sembrava volesse stabilire un’inversione di tendenza, è tornato pesantemente in vigore. Consiste in pratica nella legittimazione di un’idea del potere che lo consacra come capacità di diritto e di fatto da parte dei leader partitici della maggioranza di governo di occupare tutti i centri della vita istituzionale centrale e locale e l’intera economia pubblica.

L’area, naturalmente, nella quale più pesantemente il modello del governo di partito dispiega i suoi più deteriori effetti è quella delle regioni meridionali. Quivi la storia dell’intermediazione politica assume una specificità che la connota molto più negativamente che nel resto d’Italia. Altro non è, infatti, nella sua sostanza, che una storia di moduli trasformistici attraverso i quali la domanda e l’offerta politica vengono ad organizzarsi nei diversi momenti con passaggi che si succedono dall’unificazione ad oggi.

Un primo modulo è quello che vede come soggetti attivi dell’intermediazione i notabili agrari tradizionali, giunti all’attività politica in virtù di una consolidata posizione patrimoniale, di natura fondiaria, capace di procurare loro il rispetto sociale ed il conseguente seguito elettorale dei loro clienti. Tale modulo è anteriore alla nascita dei partiti e si svolge secondo la dinamica dei rapporti personali e diretti patrono - clienti. L’intermediazione del primo a favore dei secondi si attua attraverso interventi sulle istituzioni pubbliche, spesso locali. Tre sono, invece, gli attori del processo mediativo, caratteristico di un secondo modulo trasformistico che viene a farsi strada col tempo: il patrono (proprietario terriero), i clienti (non più singoli, ma masse di contadini), l’affittuario. Il vero agente intermediario è quest’ultimo, non di rado mafioso o legato al crimine organizzato. Col passare degli anni, egli acquista un peso sempre maggiore, spartendo il potere con il patrono, la cui figura, anche in conseguenza degli sviluppi economici e sociali che vanno producendosi, perde costantemente di peso, in rapporto a quello crescente dell’intermediario che si inserisce sempre attivamente nella macchina politica. Un terzo modulo di intermediazione trasformistica si ha, poi, con la nascita delle prime aggregazioni partitiche, spesso nella veste di comitati elettorali. Esso non si esaurisce nel rapporto triangolare testé descritto, poiché i patroni cominciano ad acquisire una qualche consuetudine di vita di stampo municipalista ed animati da spinte personsalistico - elettorali. Per la prima volta il mercato politico si lega al consenso elettorale. L’evoluzione, del resto, dei comitati elettorali verso veri e propri partiti provvisti di una ideologia, un programma, un’organizzazione, una leadership, porta ad una quarta forma di intermediazione. I notabili, legati ora non solo alla proprietà terriere, ma anche alla speculazione fondiaria urbana e ai commerci, sono ancora presenti nel circuito mediativo; e tuttavia, parallelamente all’attivazione di forme di vera e propria competizione elettorale, emergono una serie di nuovi soggetti, i quali fondano il loro potere sulla posizione occupata nei partiti e sui contatti con le istituzioni locali e nazionali che la posizione stessa consente. I partiti avviano, in realtà, quel processo di penetrazione e di conquista degli apparati pubblici che li porterà ad essere gestori dei poteri di indirizzo e di nomina di cui ho detto avanti. I contatti con le istituzioni, naturalmente, vengono utilizzati dai loro leader per costruire o estendere una personale posizione economica e politica e per ottenere interventi in favore dei gruppi sociali cui si sentono legati. Si tratta di aggregazioni provenienti dal mondo delle libere professioni, della cultura, degli impieghi pubblici [13]. Quando queste si accorgono che un’emergente richiesta di rilancio minaccia di confinarle nell’emarginazione si inseriscono nelle strutture dei partiti, riuscendo a raggiungere in poco tempo ruoli dirigenziali e livelli di potere capaci di dar vita ad un fenomeno inedito nella politica meridionale. Sostituendo, infatti, nel rapporto tripolare sopra descritto i vecchi affittuari, non solo si affermano come i nuovi agenti intermediari, ma si infrappongono tra le due frazioni presenti nei nuovi circuiti del trasformismo clientelare - i notabili tradizionali o rurali e quelli moderni o urbani -, condizionando nella lotta per la conquista di più alte fette di elettorato ora gli uni ora gli altri, e contrattando le prestazioni e i favori che questi intendono procurare alle diverse masse dei loro clienti [14].

L’approdo, comunque, di questi quattro momenti che annodano il percorso storico del trasformismo clientelare del Sud, e lo segnano di altrettanti moduli o esperienze politico - culturali è un clientelismo di massa
 il mass patronage di cui parla la letteratura politologica anglosassone - nel quale l’erogazione di risorse pubbliche si rivolge non più a singole persone ma a intere categorie o gruppi sociali e ad ampie quote di popolazione; e perciò ha bisogno di organizzarsi in associazioni o formazioni politiche varie
 partiti in testa -, che facciano da tramite tra lo Stato e le categorie o gruppi di cui ho detto.

Non è casuale dunque che da questa palude che è la classe politica meridionale, centrale regionale e locale, venga fuori una vera e propria selva di cespugli partitici, dietro i quali si organizza quotidianamente una guerriglia per bande intessuta di imboscate, tradimenti, minacce, ricatti, insulti. Così come non è casuale che i rovesciamenti delle maggioranze espresse dal corpo elettorale, altrimenti detti ribaltoni, trovino nelle regioni del Sud i loro luoghi privilegiati [15].

Il tumultuare di interessi inconfessabili, contrabbandati come interessi della collettività, dà vita, in realtà, a giochi altrettanto inconfessabili di potere ad opera di saltimbanchi, che seguendo, per così dire un’ondata sismica che non conosce tregua, si spostano perennemente da un partito all’altro togliendo alla fine al comune cittadino ogni possibilità di vederli assettati in un’area partitica chicchessia.

 

4. Le cause della delegittimazione

 

Ma a questo punto non si possono non rilevare due cose. Primo, che la delegittimazione dei partiti ha radici antiche. Il riferimento già fatto alle pratiche trasformistiche della Sinistra storica di Depretis e Giolitti e del fascismo deve bastare in questa sede a mostrarcelo e a convincerci dell’utilità di un minimo di riflessione di lungo periodo per una migliore comprensione del problema. Secondo, che la delegittimazione medesima non è un problema solo italiano, ma europeo, anzi, occidentale. Sì che il politologo deve opportunamente inquadrare la sua analisi in un’ottica oltre che storica, anche comparata. All’indomani delle fasi concitate della rivoluzione del 1848 con la caduta della monarchia e degli Orléans, A. de Tocqueville così annotava nei suoi Souvenirs: “Trovai i vecchi capipartito divisi tra di loro, si sarebbe potuto pensare che ognuno fosse ancora più diviso con se stesso, almeno a giudicare dall’incoerenza del linguaggio e della mobilità delle opinioni. Quegli uomini politici somigliavano a dei piccoli battelli che avendo sempre navigato lungo i fiumi, vengono gettati all’improvviso in pieno mare. L’esperienza che avevano acquistato durante i piccoli viaggi li confondeva più che servire loro nella grande avventura, e spesso si mostravano più interdetti e più incerti degli stessi passeggeri”. Dal che mi pare possa ricavarsi che lo studioso si aggirava tra le macerie della politica ed esprimeva una perplessità che era soprattutto un giudizio storico, perché in quel momento il futuro a lui - come forse a noi oggi - appariva un’incognita.


[1] Cfr. L.Verzichelli, “I gruppi parlamentari dopo il 1994. Fluidità e riaggregazioni”, Rivista italiana di scienza politica, 1996, n.2.

[2] G.B.Powell sr.,”Voting turnout in thirty democracies: partisan, legal and socio-economic influences”, in R. Rose (ed.), Electoral participation: a comparative analysis, Beverly Hills, Sage, 1980.

[3] A. Lijphart, “Unequal participation: democracy’s unresolved dilemma”, “American political science review”, 1997, vol. 91. Per le difficoltà di formulare ipotesi sulle linee di tendenza in atto e di prevedere il futuro, v. P.Corbetta, “Astensionismo elettorale anni ’90: verso un “paese normale” oppure verso una crisi del sistema di rappresentanza democratica?”, in A. Mussino (a cura di), Le nuove forme di astensionismo elettorale, Roma, Università degli Studi “a Sapienza”, 1999 (Atti del convegno internazionale organizzato dalla Società Italiana di Studi Elettorali, Roma, 21-23 gennaio 1998).

[4] Cfr. P.Corbetta, o.c., pp. 55-56.

[5] Per i concetti di identificazione non partecipe e identificazione partecipe, v. R.Biorcio - R. Mannheimer, Elettorato e fratture culturali, “Studi e ricerche”, supplemento a “Politica ed Economia”, 1098, n.3, pp. 33-37. Nel merito un quadro più articolato, oltre che più aggiornato, vien fuori da D. Campus, “La conoscenza politica dell’elettorato italiano: una mappa cognitiva”, “Rivista Italiana di scienza politica”, 2000, n.1.

[6] Cfr. S. Vassallo”, Il governo di partito in Italia” (1943-1993), Bologna, Il Mulino, 1994.

[7] Cfr. A. Lijphart, “Democracies. Patterns of majoritarian and consensus government in twenty-one countries”, New Haven, Yale University Press, 2° ed., 1988 (tr. it., Bologna, Il Mulino, 1988).

[8] Cfr. M. Calise, Introduzione a “Come cambiano i partiti”, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 16.

[9] Sul L’argomento cfr. le interpretazioni classiche di G.Galli, “Il bipartitismo imperfetto”, Bologna, Il Mulino, 1996 e di G.Sartori, “Teoria dei partiti e caso italiano”, Milano, Sugarco, 1982, riferite ai modelli, rispettivamente, del “bipartitismo imperfetto” e del “pluralismo polarizzato”.

[10] Sul A. Mastropaolo, “Le repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant’anni di democrazia in Italia, Firenze”, La Nuova Italia, 1996, p. 15. Ma sul problema v. anche G.Pasquino (a cura di), “Il sistema politico italiano”, Roma-Bari, Laterza, 1985 (in particolare i saggi di M. Camogli e G. Pasquino).

[11] Sul Per il concetto socio-politico di clientela rinvio al mio “Clientela”, Dizionario di sociologia, Milano-Torino, E.P., 1987; mentre per un approccio di politica comparato segnalo AA.VV., “Political Cleintelism and comparative perspectives”, “International political science review”, 1983, n.4.

[12] Sul Cfr. S.Rogari, “Alle origini del trasformismo. Partiti e sistema politico nell’Italia liberale”, Roma-Bari, Laterza, 1998. Un lavoro singolarmente ricco e penetrante che, oltre al trasformismo, prende in esame anche il familismo, il particolarismo, il municipalismo, la sfiducia nello Stato delle genti italiane è quello di C.Tullio Altan, “La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo dall’Unità ad oggi”, Milano, Feltrinelli, 1986.

[13] Sul Cfr. E. Gribaudi, Mediatori, Torino, Rosemberg & Sellier, 1980.

[14] Sul Al riguardo le riflessioni avanzate da G. De Luca, “Lunga durata e fine del predominio democristiano in Calabria (1946-1994)”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1994, n.32, appaiono estensibili alle altre regioni meridionali. Per il problema della persistenza delle differenze dei comportamenti e delle scelte elettorali nelle due aree territoriali del Paese, v. G. Bruso, “Geografia elettorale nell’Italia del dopoguerra”, Milano, Unicopli, 1983; R. Pavsic, “Esiste una tendenza all’omogeneizzazione territoriale nei partiti italiani?”, “Rivista italiana di scienza politica”, 1985, n.1; F. Anderlini, “Una modellizzazione per zone socio-politiche dell’Italia repubblicana”, “Polis”, 1987, n.3; P. Nuvoli, “Il dualismo elettorale Nord-Sud in Italia: persistenza o progressiva riduzione?”, “Quaderni dell’osservatorio elettorale”, 1989, n.23.

[15] Ricordo qui soltanto quanto emblematicamente è accaduto nel gennaio 1999 in Campania, dove il presidente della giunta regionale eletto con 2 milioni di voti venne sostituito con un consigliere che aveva raccolto 7mila voti.