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Lo sviluppo socialmente sostenibile

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Elena Battaglini
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Responsabile dell’Osservatorio Permanente sull’Ambiente e lo Sviluppo Sostenibile (OPASS) dell’Istituto Ricerche Economiche e Sociali (IRES) di Roma

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Economia dei cicli chiusi: Germania e Italia a confronto. Sistemi regolativi e sperimentazioni d’impresa

Elena Battaglini

Relazione introduttiva al seminario internazionale del 23 aprile 1998

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Si è posta, dunque, la necessità di riformulare i modelli produttivi e organizzativi coniugandoli con l’attenzione all’ambiente e, quindi, alla sicurezza dei luoghi di lavoro (ambiente interno) e all’impatto del prodotto/processo sul territorio (ambiente esterno). Normalmente si usa distinguere i due ambiti, anche perché fanno riferimento a dei sistemi normativi e regolamentari diversi. In realtà, si pongono come ordini di fattori interrelati, in quanto i prodotti e processi inquinanti hanno un impatto immediato sulla salute e sicurezza dei lavoratori, oltreché sul territorio. Inoltre, come molti casi di conflitto ambientale dimostrano, il negoziato d’impresa, sull’implementazione di nuove tecnologie o sistemi di produzione, si estende anche ad attori non tradizionali, come gli enti locali, i cittadini, le associazioni ambientaliste. Le nuove sfide ambientali, la maggiore consapevolezza dei rischi, impongono al management la necessità di un confronto più ampio, così che la ricerca del consenso, necessaria ai fini della competitività, spesso travalica i confini tradizionali dell’impresa.

L’estensione di tali frontiere diventa, poi, ancora più ampia per le multinazionali o per quelle aziende che fanno riferimento al mercato globale. Relativamente a quest’argomento esiste un interessante filone di ricerca, che fa capo all’industrial ecology (cfr. Hayres, 1995 o Tibbs, 1992) che analizza i legami complessi tra mondializzazione delle imprese e ambiente. La globalizzazione della produzione industriale, dei mercati, delle telecomunicazioni ha favorito, infatti, la creazione di un sistema artificiale che s’inserisce nel preesistente sistema naturale terrestre ed interagisce con esso. Le sfide che questi processi pongono all’industria non sono solo di natura economica, ma anche ecologica. E’ necessario che le imprese si misurino ed affrontino la dimensione globale dei problemi ambientali attraverso la definizione di nuove regole e l’individuazione d’un approccio tecnico-produttivo appropriato. L’impresa globale che continui ad affrontare il problema ambientale a livello settoriale (emissioni cfc, rifiuti etc.), e in un ambito territoriale locale, è, infatti, destinata a perdere.

‘To be competitive you have to be environmetal friendly’ (Kay, 1993). L’emergere del paradigma della produzione sostenibile, che fa perno sul concetto di ‘eco-efficienza’ (OECD, 1995), è il risultato di pressioni sia interne (cfr. supra), che esterne alle imprese. Tra queste sono da annoverare:

• il contesto normativo (come la legge tedesca del 1996 su cicli chiusi e rifiuti, che illustrerà Fleig domani )

• la domanda dei consumatori

• il diffondersi di principi e valori ‘verdi’ tra il management

• l’esigenza di un risparmio dei costi di produzione attraverso il riciclo di energia e materiali

• le dinamiche relative alla competitività dell’impresa (cfr. la relazione di Fleig di oggi, e anche Stahel, 1989 e 1991)

Vorrei soffermarmi specificatamente su quest’ultimo fattore per evidenziare la relazione complessa esistente tra competività/occupazione/questione ecologica. Fino a qualche anno fa, l’economia e l’ecologia venivano intese come mutuamente esclusive: le ragioni del profitto, e quelle relative all’occupazione, escludevano a-priori l’attenzione verso l’ambiente. La sperimentazione di mercati e prodotti innovativi costituisce, oggi, la condizione imprescindibile per sostenere le sfide e le dinamiche della competizione globale tra imprese. Non si tratta soltanto di sostenere la ricerca e favorire la produzione di tecnologie ‘pulite’. L’eco-business rappresenta, infatti, una soluzione parziale del problema, così come il conflitto ambiente/occupazione non si risolve promuovendo la creazione di posti di lavoro ‘verdi’ (come affermano, in sostanza, alcune associazioni ambientaliste).

In questo senso, l’implementazione di sistemi produttivi che permettano la chiusura dei cicli delle risorse, con tutte le implicazioni che ne derivano in termini tecnologici e d’organizzazione del lavoro, può costituire un fattore di sviluppo dell’occupazione. Inoltre, combinando insieme i vantaggi ecologici ed economici, può rappresentare una strategia che soddisfi le esigenze e le sfide poste dalla globalizzazione e dall’ambiente, attraverso la collocazione di beni innovativi in segmenti nuovi di mercato e l’efficienza nell’uso delle risorse.

Il funzionamento dei modelli produttivi ciclo chiuso, che verranno illustrati dalle relazioni di Fleig e Falocco, dipende da una serie di fattori:

• la tipologia del prodotto e la sua progettazione

• l’adesione al modello da parte della rete dei fornitori, sub-fornitori, consulenti etc.

• le condizioni della domanda

• il contesto istituzionale

• le risorse interne all’impresa

Vorrei soffermarmi su quest’ultimo fattore. Con risorse interne all’impresa s’intendono non solo le dotazioni tecnologiche e finanziarie, ma anche i fattori relativi alla cultura manageriale, alla qualificazione e motivazioni degli addetti, all’organizzazione del lavoro e alle procedure di consultazione/informazione/partecipazione dei lavoratori coinvolti nel processo produttivo. In questo senso, una recente ricerca europea (Buitelaar, 1997) ha evidenziato come i processi di eco-innovation, che coniugano, come sostenuto prima, i vantaggi economici ed ecologici, sono il risultato di un mix di fattori quali:

• l’efficienza economica delle imprese

• il dialogo sociale

• l’esistenza o meno di infrastrutture innovative

• le caratteristiche e le strategie degli attori

I paesi che hanno attivato sperimentazioni innovative sotto questo profilo (Austria, Belgio, Danimarca, Germania ed Olanda) sono quelli in cui esiste un sistema di relazioni industriali e di dialogo sociale, la cui caratterizzazione permette la definizione di strategie connesse con l’ambiente (interno ed esterno) di tipo botton-up, in grado, cioè, di condizionare il governo e la regolamentazione normativa di tali tematiche a livello macro.

L’Italia rientrerebbe, invece, tra i paesi, come la Francia, Grecia, Spagna e U.K, in cui le relazioni industriali, per diversi motivi secondo il paese, stentano a trovare una connessione e un’incidenza sulle politiche nazionali relative all’ambiente. Se è vero che le relazioni industriali possano costituire un fattore strategico per l’eco-innovation, la diffusione della cultura ambientale a livello d’impresa e lo sviluppo del dialogo sociale su questi temi, appaiono degli strumenti indispensabili.

Da qui l’interesse dell’IRES a porsi, attraverso questo seminario e l’attività di ricerca su questi temi, come punto di raccordo tra la riflessione teorica sull’economia dei cicli chiusi e l’esperienza pratica che verrà illustrata oggi da Bonaretti e Valles, e domani dagli altri rappresentanti d’imprese, degli enti locali, delle istituzioni e del mondo sindacale che abbiamo invitato e che costituiscono gli attori principali a cui affidare le responsabilità operative dell’implementazione di esperienze a ciclo-chiuso.

Affidando a Giorgio Nebbia, uno degli antesignani degli studi d’economia ambientale in Italia, il compito di aprire i lavori di oggi e dello stesso seminario, noi operiamo una precisa scelta di campo sia in ambito teorico che politico. Condividendo appieno i valori e le tesi su cui si fonda l’apparato teorico e concettuale del Prof. Nebbia, riteniamo che qualsiasi seria operazione d’implementazione di sistemi produttivi a ciclo chiuso sarà fallace se non viene basata su una contabilità “fisica” dei flussi di materia ed energia associata alle merci.