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Sergio Cararo
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Il federalismo dei nuovi boiardi

Sergio Cararo

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5. Tra nuova Tangentopoli e la contea di Nottingham

 

Ma la nostra inchiesta non può che allargarsi ad altri campi in cui i nuovi boiardi del federalismo sono passati all’assalto della ricchezza sociale.

Recentemente, la Corte dei Conti ha condannato l’ex Sindaco di Roma Rutelli e la Giunta, a risarcire circa 3 miliardi e mezzo di lire le casse comunali, per i soldi spesi in consulenze esterne.

La condanna del tribunale contabile, ha suscitato un vespaio, soprattutto perchè la distribuzione delle parcelle d’oro ai consulenti è un fenomeno assai diffuso ed utilizzato da quasi tutte le amministrazioni locali di medie/gradi dimensioni e che ha dato vita ad un nuovo modello di Tangentopoli sostituendo l’assegnazione degli appalti con l’assegnazione di consulenze agli amici e agli amici degli amici. Rutelli si è difeso come Craxi sostenendo che... fanno tutti così.

Ma questo delle consulenze, è uno degli effetti più evidenti dell’introduzione di leggi “federaliste” (la 142/90 ma anche la127/97 voluta da Bassanini) che assegnano maggiori poteri ai Sindaci e agli esecutivi locali: “Gran parte di queste flotte di consulenze sfugge alla rete dei controlli” scrive infatti il Sole 24 Ore “ soprattutto da quando le delibere sfuggono al controllo dei Coreco” (i comitati regionali di controllo, NdR) sulla base della nuove leggi.

Secondo la relazione del procuratore regionale della Corte dei Conti del Piemonte, il ricorso alle consulenze esterne è diventato talmente frequente da assorbire buona parte del bilancio dei singoli enti [1].

Ma un’altra fonte di business e prebende “locali” incentivati e poi legittimati dalla riforma federalista è quello delle esattorie locali.

Anche qui è stata una inchiesta della magistratura (la Procura di Latina) a scoperchiare un verminaio sul quale il governo Amato si è affrettato a rimetterci sopra un macigno liquidando il potere di controllo del Ministero delle Finanze sulle società che gestiscono le esattorie comunali.

Lo scandalo è scoppiato con l’inchiesta sulla società che gestiva l’esattoria nel Comune di Aprilia (ahinoi anche qui una giunta di centro-sinistra e con il PRC in maggioranza).

In questo caso, la A.Ser., società indicata dal Consiglio Comunale di Aprilia per la riscossione dei tributi comunali (ICI, Tarsu, Tosap, ICP), riscuoteva un “aggio” del 30% sui tributi riscossi invece dell’1,5% previsto dalla legge. Alla stessa società verrà poi affidato il servizio di riscossione anche da parte di altri comuni del Lazio (dove la maggioranza è invece di destra). La gestione privata della riscossione, ha fatto sì che alla fine, l’aggio che i soci privati dell’A.Ser. si distribuiscono tra loro arrivi fino al 70%. Ovvero la gran parte dei tributi comunali che i cittadini versano all’amministrazione. È una truffa? No, è quello che consente un’altra “legge federalista”, la 446/97 (anche qui voluta da Bassanini) che da via libera ai Comuni nell’affidare la riscossione dei propri tributi a società private o miste con soci iscritti ad un albo apposito.

Le richieste di chiarimento del Ministero delle Finanze al Comune di Aprilia oltre a subire gli strali della ”politica”(Di Pietro ha difeso quelli di Aprilia come bravi amministratori “messi in cattiva luce” dal Ministero) restano senza risposte [2].

Il caso di Aprilia, come si desume dalle cose dette, non è affatto un caso isolato ma è piuttosto un episodio venuto alla luce di quello che l’inserto enti locali del Sole 24 Ore chiama un “far west” e che ha come posta in gioco un business di ben 80.000 miliardi di tributi comunali. “Un mondo senza regole dove vige la legge del più forte: ecco come si presenta oggi il mercato delle entrate locali, la cui riscossione fa gola a tutti” [3].

Un Far west su cui dal gennaio 2001, grazie al federalismo amministrativo voluto dal governo di centro-sinistra e votato consociativamente da destra e sinistra in Parlamento, il Ministero delle Finanze non potrà più mettere il naso!!!

Dunque oltre i manager della sanità e i consulenti strapagati, il federalismo ci regala anche esattori strapagati, novelli gabellieri che, come riporta una inchiesta del quotidiano romano “Il Messaggero”, non vanno tanto per il sottile nella riscossione dei tributi comunali visto che sono motivati dal “loro aggio” cioè da un interesse privato assai congruo. È uno scenario da Sceriffo di Nottingham al quale però, purtroppo, ancora manca Robin Hood.

 

 

6. Più soldi ai dirigenti ovvero la cooptazione degli apparati

 

La nuova mappa dei poteri federali, non ha coinvolto solo gli amministratori ed il ceto politico ma ha dovuto cooptare anche l’apparato degli enti locali. Trattasi dei dirigenti, degli alti funzionari, dei segretari/direttori generali, di coloro che conoscono la macchina amministrativa fin dentro l’ultimo suo ingranaggio e che in alcune occasioni hanno tenuto in scacco i nuovi arrivati (sindaci, presidenti, assessori). Con il federalismo è diventato possibile cooptarli, pagarli profumatamente, farli partecipare al grande gioco... e soddisfarne le ambizioni. Anche in questo si sono rivelati fondamentali il ministro Bassanini e le sue riforme.

Come abbiamo visto in precedenza, secondo alcune sezioni locali della Corte dei Conti denunciano che le spese per i “consulenti esterni”spesso assorbono buona parte dei bilanci degli enti locali. Un recente studio della stessa Corte dei Conti, rileva come in media il 34% dei bilanci se ne vada per pagare il personale. Alcuni corifei dell’anti-statalismo approfittano di questi dati per rinnovare i loro attacchi contro “l’elevato numero di dipendenti nelle amministrazioni locali” ma una indagine che vada appena un pò in profondità rivela una realtà ben diversa.

Innanzitutto le recenti leggi finanziarie hanno imposto la riduzione sistematica - anno per anno - dei dipendenti che sono già diminuiti di 15.000 unità dal 1997 ad oggi. Gli unici ad andare in controtendenza sono stati i dirigenti, passati da 6.658 a 6.808 solo nelle Province, nei Comuni e nelle Comunità montane mentre nelle Regioni i dirigenti sono saliti a 3.891 unità su un totale di 42.669 dipendenti.

Infatti è proprio nelle Regioni che il rapporto tra numero di dirigenti e numero di lavoratori “comuni mortali” è assai più elevato che in Comuni e Province. Se nei Comuni il rapporto è inferiore all’1%, nelle Regioni sale ad una media del 9,1%. Le conseguenze sul “costo del lavoro” si fanno sentire notevolmente perchè i dirigenti delle Regioni guadagnano da un minimo di 96 milioni all’anno (Abruzzo, dati del 1998) ad un picco di 133 e mezzo (Veneto). L’incremento “salariale” per i dirigenti tra il ’94 e il ’98 è stato del 42,6%, quello per i lavoratori del 15,8%, tenendo conto che la media tra i lavoratori deve darsi tra il II° e l’VIII° livello, si può ricavare facilmente la divaricazione tra i redditi di un dirigente e quelli di un funzionario, di un impiegato o di un usciere ovvero tra i “medi” della nuova fascia B e i “reietti” della nuova fascia A. Occorrerebbe aggiungere a questi ultimi i “reiettissimi” rappresentati dai lavoratori socialmente utili o i lavoratori interinali a cui stanno ricorrendo sistematicamente le amministrazioni locali sia di centro-destra che di centro-sinistra (arrivando al paradosso della Provincia di Roma che intende assumere gli interinali per gestire... “l’emergenza organici degli uffici di collocamento”!!!).

Nelle regioni a statuto ordinario, nel 1994 c’era un dirigente ogni undici dipendenti, nel 1998 c’è uno ogni nove. Infatti un rapporto della Conferenza delle Regioni del 1998, denunciava un “aumento del costo complessivo del lavoro e situazioni molto differenziate tra Regione e Regione”. Ma segnalava anche che “la retribuzione media annua dei dirigenti regionali è passata dai 76 milioni del ’94 agli attuali 108 milioni del 1998”.

Nei Comuni la percentuale media è di 1 dirigente ogni 100 lavoratori mentre nelle Province si sale ad 1 ogni 40 lavoratori [4].

Il boom della dirigenza, così come quello dei consulenti e degli esattori, è una conseguenza diretta delle leggi federaliste di questi dieci anni.

Oggi una “determinazione dirigenziale” conta quanto e più di una delibera. Con la privatizzazione del rapporto di lavoro anche nel pubblico impiego, i poteri dei dirigenti sul personale sono estesissimi e discrezionali. È potere dall’alto contro il basso del quale i dirigenti rispondono solamente ed individualmente al sindaco o ai presidenti di province e regioni.

Dunque nella nuova classe dirigente federalista, dobbiamo iscrivere anche questi quasi undicimila pretoriani delle amministrazioni locali, i cui interessi sono inversamente proporzionali a quelli dei lavoratori pubblici a loro sottoposti e degli utenti dei servizi da loro gestiti, perchè ai dirigenti viene aumentato il bonus individuale sulla base dei risparmi di gestione del budget a loro assegnato. Meno spenderà il loro dipartimento (in retribuzioni del personale o spese di gestione) e più porteranno a casa a fine anno. Nascono così quei surplus di reddito che viene investito in azioni, in titoli di stato o in fondi di investimento che i commentatori chiamano “ risparmio gestito delle famiglie” e che noi definiamo ricchezza sociale rubata ai lavoratori e agli utenti dei servizi.

 

 

7. Composizione di classe e costi del nuovo ceto politico

 

Ogni nuova classe dirigente ha occupato sistematicamente i posti di comando e quelli di prestigio. Il ceto politico post-Tangentopoli non fa eccezione. Fa solo una differenza: oggi si fa pagare di più e direttamente in busta paga per smarcarsi dal vecchio ceto politico che invece ricorreva “ad altri mezzi”.

Come abbiamo visto, la modernizzazione della “politica” e l’assalto al potere della nuova classe dirigente, è avvenuta prima a livello locale e poi a livello centrale.

Sindaci, presidenti, assessori, consiglieri, si sono dotati di risorse finanziarie adeguate per apparire “incorruttibili” ed efficienti. Ma la realtà ci dice che oggi assai più che ieri, la rappresentanza politica si è via via concentrata su élite sociali sempre più ristrette e su una partecipazione elettorale che somiglia sempre meno al suffragio universale e sempre più al voto censuario (la crescita esponenziale e cosciente dell’astensionismo rivela chiaramente questa tendenza).

La composizione sociale del Parlamento che, tra le altre cose, ha varato la riforma federalista dello Stato, vede dunque rappresentata una stragrande maggioranza di settori sociali ricchi, con redditi elevati e con interessi materiali confliggenti con quelli dei lavoratori salariati, dei disoccupati/precari o dei pensionati.

Il deputato semplice, il peone che alza la mano su indicazione del suo capogruppo, si porta a casa da un minimo di 16 milioni ad un massimo di 24 milioni al mese (per via delle diarie, dei rimborsi viaggio e delle spese di rappresentanza). I deputati che invece hanno incarichi (vice-presidente della Camera, questore, presidente di Commissione) aggiungono a questi altre indennità che vanno da un massimo di 8.813.713 ad un minimo di 5.675.761 lire mensili.

La segnalazione di queste cifre e la loro connessione con la composizione sociale del Parlamento, non è un cedimento a tentazioni qualunquiste ma è una fotografia che ci serve per comprendere il contesto in cui vengono discusse, prese, votate o semplicemente ratificate decisioni importanti.

Occorre sottolineare che i gettoni di presenza non vengono elargiti solo in occasione delle sedute dei consigli comunali o provinciali, ma anche per le riunioni delle commissioni di cui ogni consigliere fa parte. Per cui è chiaro che se l’amministratore di un piccolo comune non può “campare” con la retribuzione istituzionale della sua attività, gli amministratori e i consiglieri dei grandi centri urbani cominciano a percepire redditi assai superiori a quelli di un lavoratore dipendente.

Come possiamo verificare su questi dati, il nuovo ceto politico è ancora numeroso ed è sicuramente ricco. Ha comunque a disposizione risorse finanziarie che gli consentono di comprare azioni delle aziende privatizzate, di “guardare al mercato” senza l’insicurezza che domina gran parte dei settori popolari o di non vedere come problema il semplice aumento di ventimila lire mensili del servizio di refezione scolastica o l’introduzione delle addizionali Irpef per regioni, comuni e province.

Il ceto politico ha un atteggiamento morale e materiale assai diverso da quello dei lavoratori dipendenti o dei pensionati, ai quali magari viene riconosciuto un aumento contrattuale di 35.000 lire medie e lorde che viene immediatamente azzerato dal ritocco di qualche tariffa dei servizi pubblici locali (dalla nettezza urbana alla refezione etc.) o nazionali (gas, elettricità, canone Telecom, etc.).

Questa incomunicabilità tra ceto politico nazionale e locale e settori sociali, negli anni ’90 è diventata ancora più profonda. Il sistema maggioritario e il bipolarismo hanno infatti rotto anche quel meccanismo distorto di rapporto tra politica e società che era il voto di scambio. Il problema è che l’hanno sostituito con l’arroganza, l’inamovibilità e la divaricazione tra ceto politico e società.

La componente politica della nuova classe dirigente è dunque “nemica del popolo” ma non è la sola e neanche la peggiore.


[1] “Il consulente incassa, il cittadino paga”, in Sole 24 Ore del 9 ottobre 2000.

[2] “Esattori privati, un affare da 800 miliardi”in Corriere della Sera del 28 ottobre 2000.

[3] “Riscossione: è scoppiato il Far West”, in Enti Locali/Sole 24 Ore del 6 novembre 2000.

[4] I dati sono stati ricavati dagli inserti sugli enti locali del Sole 24 ore del 8 novembre 1999, del 25 settembre e del16 ottobre 2000 e dall’inserto “Autonomie” dell’Unità del 21 ottobre 1999.