Il mutamento ambientale globale: il recupero della dimensione umana

Francesca Occhionero

Gabriele Favero

1. Il quadro generale

Oggi sembra sempre più difficile riferirsi all’ambiente naturale nel senso classico del termine; l’ambiente infatti, nel corso dei secoli, è andato mutando, perdendo le caratteristiche “naturali” per acquistare quelle di un ambiente progressivamente “umanizzato”, in cui cioè appaiono sempre più visibili le impronte e i segni dell’intervento umano.

Premesso che per ambiente “naturale” si intende quello costituito dai tre elementi suolo, aria ed acqua, nel tempo stesso ha subito profonde modificazione che hanno portato all’aggiunta da parte dell’uomo di altri elementi come edifici per abitazioni o per altri usi, strade, fabbriche, campi coltivati, etc.. L’umanità infatti, in continua espansione e sempre alla ricerca di nuovi spazi e risorse, costruisce per rendere più “comodo” e più ospitale (o meno ostile) l’ambiente in cui vive.

Nel tentativo, vecchio quanto la storia, di superare o di rendere meno insormontabili i limiti posti da condizioni naturali avverse, l’uomo ha svolto tutta la sua azione trasformatrice, e spesso purtroppo anche distruttrice, della natura: un’azione sempre più intensa e vistosa, via via che i suoi mezzi tecnici si sono evoluti e perfezionati, finalizzata a rendere il proprio “habitat” più confortevole, ma spesso con l’effetto indesiderato di modificarne e stravolgerne alcune delle peculiarità essenziali per l’equilibrio uomo-ambiente.

Fin dall’antichità, infatti, l’uomo ha plasmato l’universo che lo circonda per farne il suo ambiente di vita, ma solo di recente si è avuta la chiara percezione di quanto sia delicato il rapporto tra uomo e ambiente e di come esso sia in pericolo serio. Le grosse concentrazioni industriali che rischiano di compromettere irreversibilmente le condizioni bio-ecologiche, le aree di insediamento, la crescita smisurata degli agglomerati urbani che rompe i tradizionali legami sociali, l’incontrollato boom demografico, specialmente nei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, l’agitazione frenetica e il vuoto psicologico della società dei consumi, costituiscono delle minacce reali per il suo equilibrio.

Mentre inizialmente, nel lunghissimo arco di tempo che va dal neolitico ai primi anni dell’800, il rapporto uomo-ambiente è stato caratterizzato da una situazione omeostatica, in quanto non era ancora predominante il concetto che la natura fosse esclusivamente una riserva inesauribile di risorse, successivamente l’uomo ha perfezionato la sua capacità di intervento sulla natura, facendo prevalere la concezione utilitaristica del mondo.

Con questa affermazione, non si vuole implicitamente dare un giudizio di qualità, dal momento che non è possibile affermare che l’era pretecnica fosse una specie di paradiso terrestre e che ogni intervento sull’ambiente naturale sia da considerare un fatto negativo. Tuttavia non si può negare che, se l’umanità non fosse esistita, la vita animale e vegetale sulla Terra avrebbe seguito un ritmo molto diverso e che il “paesaggio”, nel senso più ampio del termine, avrebbe una fisionomia completamente diversa.

La pratica della deforestazione, spesso perpetrata mediante l’incendio della macchia o della foresta, è stato uno dei primi esempi di modificazione del paesaggio; altrettanto si può dire delle savane che, se per alcuni studiosi sono da considerare formazioni naturali, per molti altri sono il frutto per l’appunto dell’azione umana. Un’azione umana devastatrice.

Le zone in cui originariamente esistevano foreste erano infatti moltissime sulla Terra ma l’uomo con costanza e regolarità e con mezzi prima rudimentali e poi sempre più sofisticati, si è sostituito a quelle foreste, modificando profondamente quell’ambiente e quel paesaggio.

Questo mutamento globale in termini di “umanizzazione” del paesaggio, in realtà ha cominciato a manifestarsi diecimila anni fa con la nascita dell’agricoltura e della pastorizia. In un primo tempo il “campo” ha convissuto con la foresta, poi l’uomo ha cominciato ad alterare il manto forestale per fare posto a nuova terra coltivabile. Successivamente, in quella che il sociologo urbano Lewis Mumford ha definito periodo eotecnico (circa dal 1000 al 1700), i primi sviluppi della tecnologia hanno consentito di utilizzare l’acqua ed il legno (sempre ricavato a spese delle risorse forestali) quali fonti di energia. Con il disboscamento la terra è stata convogliata alle pianure ed al mare dai monti non più protetti dalla vegetazione; i rilievi ne sono risultati impoveriti; si sono avuti i primi fenomeni di dissesto idrogeologico e, a lungo andare, si sono verificate profonde ed irreversibili alterazioni anche nella composizione della fauna e nello sviluppo delle popolazioni.

Si è giunti così al paradosso che l’uomo, sempre alla spasmodica ricerca di nuovi spazi e nuove risorse per fronteggiare il continuo accrescimento demografico, ha provocato e provoca la diminuzione della produttività della terra abbandonando i terreni ai danni dell’erosione.

E’ noto infatti che la copertura vegetale protegge il suolo e regola le acque; dove questo manto protettivo non esiste più, il suolo viene eroso, asportato e reso sterile sino a giungere alla roccia nuda ed improduttiva.

Le acque, il cui flusso non è più trattenuto e regolato, defluiscono tumultuosamente provocando alluvioni ed altre rovine: l’Italia ha, in proposito, una lunga e dolorosa esperienza e si calcola che circa 50.000 chilometri quadrati di territorio, in buona parte nell’Appennino, siano preda dell’erosione. I disastri correlati alle recenti alluvioni in tutta la penisola sono una conferma della drammaticità di questa situazione.

L’intenso ed irrazionale disboscamento dei secoli scorsi, ma anche di tempi recenti, ha provocato danni incalcolabili, danni che, anche nell’ipotesi di porre rimedio a questa situazione, dovremo subire per anni, dal momento che la ricostituzione di condizioni di equilibrio è un’operazione lunga e molto difficile: basta pensare al fatto che, per riportare l’Italia a condizioni forestali di equilibrio, continuando con l’attuale ritmo di rimboschimento, occorrerebbero almeno 300 anni.

E’ noto, poi, come anche l’industrializzazione che, come vedremo più avanti, domina il processo evolutivo delle società contemporanee, abbia modificato vistosamente l’ambiente, sia quello cosiddetto socioeconomico, sia quello più propriamente naturale. E’ proprio su quest’ultimo che le modificazioni risultano più vistose perché l’industria (specialmente alcuni settori come la siderurgia, la petrolchimica, la cementiera) si è progressivamente insediata e si insedia tuttora nel paesaggio, ne diventa una componente, trasformandolo sino a dargli una sua impronta.

Anche il processo di industrializzazione, quindi, modella uno specifico paesaggio agendo, più o meno in profondità, sull’utilizzazione del suolo, sul popolamento e sulla fisionomia dei corsi d’acqua e, addirittura, sul clima delle zone di insediamento.

Attraverso questi correttivi e modificazioni apportati all’ambiente, l’uomo ha esercitato il suo impatto sulla natura, con un’azione che è andata via via aumentando con le continue tecnologie messe a disposizione da un processo tecnico sempre più sofisticato e perfezionato.

Da queste azioni perpetrate dall’uomo sulla natura derivano però delle conseguenze sull’uomo stesso, sulla sua fisiologia e sul suo comportamento: il clima dei grossi agglomerati urbani è ormai ben diverso da quello delle campagne, l’elevato tasso di rumore, l’aria e l’acqua inquinate contribuiscono a formare una sorta di “patologia” degli abitanti delle grandi città.

Per questi motivi, per un’analisi ed una riflessione sulla relazione tra l’uomo e l’ambiente, è indispensabile prendere in considerazione il ruolo estremamente importante e complesso giocato nel mutamento ambientale dalle società nei confronti della società stessa e degli individui che la compongono.


2. Il ciclo delle interrelazioni tra il sistema ambientale e quello umano

 

Le attività umane risultano essere una piccola, ma importante, e soprattutto pericolosa, componente di un insieme complessivo di ecosistemi globali e processi ecologici che includono per esempio i processi biologici, fisici e chimici.

Nella Figura 1 vengono rappresentate le relazioni tra i sistemi naturali e l’uomo ponendo l’attenzione sui flussi fisici di energia e di materia che caratterizzano questa relazione; le attività umane rappresentate al centro del grafico, interagiscono in vari modi con l’ambiente che le circonda: ad esempio sono rappresentate le emissioni ed i residui, che hanno un impatto sia locale che globale, l’estrazione, la gestione e la sottrazione delle risorse perpetrata dalle attività umane sui sistemi naturali e gli impatti concomitanti sugli habitat e le risorse genetiche.

Chiaramente, una visione del flusso fisico del tipo illustrato nella Figura 1, è una componente necessaria di qualunque ricerca tesa a considerare seriamente le dimensioni umane dei problemi del cambiamento globale [1]. In questa visione, risulta di particolare importanza, l’enfasi adottata nel descrivere le attività umane in termini dei flussi fisici di materia e delle azioni che portano all’insorgere di problemi ambientali. Questo permette di fare una connessione diretta tra attività umane e processi ambientali; la comprensione della natura di queste connessioni è una condizione necessaria per lo sviluppo appropriato delle risposte sui rimedi ed i correttivi.

In ogni modo, una visione del mondo semplicemente in termini di flussi fisici, fornisce una base inadeguata per fornire queste risposte. Tale visione, infatti, non include le attività derivanti da decisioni umane o le scelte istituzionali di carattere comportamentale e politico, che non possono essere rappresentate in termini di flussi fisici ma che devono essere considerate in ogni tentativo di analisi delle potenziali risposte umane al cambiamento globale.

La distinzione tra questi due tipi di attività umane è rappresentata nella Figura 1 che mostra la differenza tra i due settori che definiscono l’insieme delle attività umane: il settore indicato con P.F. rappresenta i ‘processi fisici’ costituiti dalle attività umane definite in termini fisici (p.e. i processi demografici, le attività di consumo, la produzione industriale, l’estrazione delle risorse, etc.), mentre il settore indicato con P.D. rappresenta i ‘processi decisionali’ ovvero quelle attività umane che consistono in processi mediante ed attraverso i quali vengono prese le decisioni umane (p.e. l’organizzazione e l’assetto istituzionale, le attitudini e le decisioni individuali, le relazioni tra potere ed autorità etc.). Quest’ultimo insieme di attività non può essere rappresentato in termini di flussi fisici e tende pertanto ad essere trascurato o del tutto ignorato in una visione del mondo di questo tipo.

L’impatto dell’uomo sull’ambiente naturale, come abbiamo visto, si è rivelato nei secoli sconvolgente; in particolare con l’avvento della rivoluzione industriale l’uomo ha ampliato a dismisura il cosiddetto ecumene, ovvero quell’ambiente “umanizzato” che è diventato spazio a sua disposizione.

Con la seconda metà del XVIII secolo i mezzi tecnici a disposizione per intervenire e addomesticare ambienti “ostili”, diventano più sofisticati e l’urbanizzazione comincia a crescere con ritmi rapidissimi, segnando l’inizio del processo di inquinamento, processo che si protrarrà a lungo.

Queste osservazioni potrebbero condurre, come si è già osservato, ad un frettoloso giudizio, fortemente negativo, sull’impatto ambientale della rivoluzione industriale ed alla criminalizzazione dell’industria nei suoi rapporti con l’ambiente; in realtà, benché sia difficile contestare che il rapporto tra impresa ed ambiente sia stato sempre complicato, bisognerebbe sottolineare che nel comportamento sostanzialmente inquinante dell’industria non vi è nulla di ineluttabile, immanente ed inevitabile. Piuttosto è più corretto affermare che non è l’industria ad essere necessariamente inquinante, bensì modi di produzione suggeriti dal desiderio di realizzare il massimo profitto nel minor tempo possibile.

Già nel secolo scorso lo strapotere dell’industria veniva osservato con attenzione e preoccupazione da molti scrittori, poeti ed artisti europei i quali, “di fronte alla incalzante industrializzazione dei maggiori paesi dell’Europa occidentale, all’arricchimento di una borghesia avida e speculatrice, all’inquinamento ed al degrado civile di città e di periferie industrializzate, reagirono con inquietudine e rabbia” (Lucio Villari, 1989).

Oggi tutti questi aspetti vengono in parte trascurati per dare maggiore risalto alle “magnifiche e progressive sorti” che certamente ha portato la rivoluzione industriale. Se questo è vero, è altrettanto sicuro che essa ha provocato un impatto brusco ed evidente sull’ambiente in termini di occupazione del suolo, di inquinamento dell’acqua, dell’aria, del suolo e dell’udito, di produzione di rifiuti, spesso anche tossici e nocivi. In pratica agli effetti positivi se ne aggiungono altri, decisamente negativi.

Esiste però oggi la possibilità che le industrie “sporche” producano in modo pulito (ancorché più costoso) ed esistono le industrie “pulite” che consentono di realizzare un migliore rapporto industria/ambiente capace di non incidere negativamente sulla qualità dell’ambiente e sulla estensione dello spazio “umanizzato”.

Pertanto il problema non risiede tanto nell’industria come entità astratta o nella rivoluzione industriale che l’ha prodotta, ma va più correttamente ricercato nei metodi di produzione i quali, pur potendo essere, specialmente oggi, più “puliti” e rispettosi dell’ambiente, continuano ad avere su quest’ultimo un impatto negativo perché produrre “sporco” costa meno e fa realizzare maggiori profitti.

E’ proprio a causa di motivi come questo che la biosfera ha subito da parte dell’uomo, negli ultimi cinquant’anni, danni di notevole entità, tanto che si parla di degrado ambientale in senso generalizzato e ci si interroga sia sulla capacità della natura di sopportare il peso dell’economia globale sia sullo stato e sul futuro della biosfera stessa.

Molti infatti sono stati i cambiamenti, talvolta irreversibili, indotti dalle attività industriali che hanno determinato danni ed impoverimento dell’ecosistema; ad esempio, i fenomeni di combustione del legno, del carbone, del petrolio e del gas naturale hanno alterato il normale flusso di energia all’interno della biosfera ed il mancato controllo delle emissioni industriali ha determinato gravi perturbazioni nell’atmosfera, nella stratosfera e nei bacini idrici. In particolare, per quanto riguarda l’atmosfera, la crescita della concentrazione di anidride carbonica, è ritenuta la principale responsabile dell’effetto serra [2], ossia il riscaldamento della stessa (global warming [3] ); basti pensare che dal 1950 ad oggi, le emissioni di CO2 si sono quasi quadruplicate [4] (vedi Figura 2).; d’altro canto la produzione di ingenti quantità di ossidi di zolfo e di azoto (che in presenza di vapore d’acqua e per effetto della radiazione solare si trasformano in acido solforico ed acido nitrico) ha prodotto il fenomeno delle cosiddette piogge acide che ricadono al suolo producendo enormi danni a quest’ultimo ed alla vegetazione.

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La portata globale dei pericoli connessi con il global warming [5] è ormai universalmente percepita: alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, i leader di 154 nazioni hanno siglato un accordo per la riduzione volontaria entro l’anno 2000 delle emissioni di diossido di carbonio e degli altri gas responsabili dell’effetto serra al di sotto dei livelli raggiunti nel 1990. Nel 1995 i rappresentanti dei paesi firmatari, incontratisi a Bonn, hanno riconosciuto che l’obiettivo stabilito a Rio de Janeiro non potrà comunque essere conseguito e pertanto si sono accordati per prorogare il termine al di là del 2000.

La prima proposta formale per la riduzione delle emissioni è pervenuta da parte dei paesi dell’Unione Europea che hanno indicato una riduzione entro il 2010 del 15% del livello delle emissioni del 1990 di tre gas, il diossido di carbonio, il metano e l’ossido di azoto. In seguito, anche il Giappone e gli Stati Uniti hanno stilato dei piani di intervento volti alla restrizione delle emissioni non solo dei tre principali ma anche degli altri gas responsabili dell’effetto serra.

Anche in questo caso emerge tragicamente la differenza tra i paesi ricchi ed i paesi poveri. Sono i paesi industrializzati, infatti, a portare le maggiori responsabilità della situazione attuale ed è quindi naturale che siano proprio questi a dover intervenire in maniera più radicale per porvi rimedio. I leader dei paesi in via di sviluppo, dal canto loro, portano avanti la propria richiesta affinché le nazioni industrializzate decidano responsabilmente gli interventi necessari prima che venga loro imposto di farlo.

Tuttavia, come si osserva nella Figura 3, se le emissioni dei paesi in via di sviluppo vengono lasciate crescere senza controllo finiranno per raggiungere e superare quelle relative ai paesi industrializzati; assumendo che nessuna delle nazioni in via di sviluppo ponga in essere meccanismi per contenere il consumo energetico e ridurre le emissioni, esse si renderanno responsabili di circa metà dell’immissione totale di CO2 nell’atmosfera entro il 2015.

È sconcertante rilevare come nell’ottica del profitto ad ogni costo, le compagnie degli Stati Uniti abbiano cominciato a preoccuparsi, anziché dei problemi ambientali in quanto tali, dell’impatto negativo sull’economia nazionale che potrebbe prodursi qualora i paesi industrializzati venissero costretti a ridurre le emissioni in atmosfera mentre i paesi in via di sviluppo vengono lasciati senza controllo. E’ noto come organizzazioni quali la Camera di Commercio ed altri organismi federali, stiano facendo pressioni sull’Amministrazione Clinton affinché adotti un atteggiamento maggiormente condiscendente che consenta loro di non perdere fette di mercato a vantaggio delle nazioni in via di sviluppo.

Al temine del 1997, nel corso dei negoziati internazionali sull’ambiente svoltisi a Kyoto, si sono poste le basi per lo sviluppo di un programma di riduzione delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra, che però non verrà applicato prima di dieci anni.

Per quanto concerne invece la stratosfera, l’immissione di agenti chimici clorurati e bromurati, tra cui i famosi clorofluorocarburi [6] o CFC, viene indicata come la causa scatenante del progressivo assottigliamento della fascia di ozono [7]; poiché quest’ultimo si comporta da filtro nei confronti dei raggi ultravioletti provenienti dalla radiazione solare lasciandone passare una dose non pericolosa per l’uomo, la sua riduzione può comportare pericoli ingenti per l’uomo, la flora e la fauna.

Attualmente in campo scientifico si sta affermando sempre di più l’idea che le sostanze chimiche responsabili della riduzione dello strato di ozono, contribuiscano anche all’aumento dell’effetto serra [8]; la regolamentazione del loro impiego e quindi della loro immissione nella stratosfera risulta pertanto indispensabile ed imprenscindibile.

Per quanto riguarda i bacini idrici bisogna innanzitutto premettere che la qualità dell’acqua potabile dipende da quella dell’acqua emunta e dal tipo di trattamento che essa subisce prima di essere immessa in rete.

Attualmente l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, il crescente inurbamento, l’allontanamento dei reflui, sfruttando il potere diluitorio e di rimozione idraulica dei corpi idrici superficiali, hanno arricchito l’ambiente acqueo, sia di superficie che di falda, di agenti inquinanti e contaminanti [9].

Inoltre, i trattamenti effettuati per potabilizzare le acque, interagiscono con la miscela di tali composti chimici dando luogo ad un’acqua ricca di microquantità di inquinanti e sottoprodotti clorurati che possono presentare effetti tossici.

A livello di prevenzione occorre ridurre il versamento di prodotti chimici oltre i limiti di autodepurabilità propria di ciascun corpo regolatore ed eliminare l’impiego sul territorio di sostanze tossiche persistenti e bioaccumulabili nella catena alimentare.

Un’altra delle principali problematiche legate all’aumento dell’attività industriale è, come già accennato precedentemente, la distruzione delle ricchezze del suolo, delle foreste [10], paludi e praterie. Ad esempio, la deforestazione, in tutto il mondo ha portato alla perdita di più di tre milioni di miglia quadrate di foresta con gravi conseguenze come l’erosione dei terreni, la mancata ossigenazione ed umidificazione dell’atmosfera, il notevole aumento della concentrazione di anidride carbonica, in seguito al ridotto processo della fotosintesi clorofilliana che ne consente la fissazione e la trasformazione in presenza di luce e di acqua in materiale organico per l’accrescimento delle piante.

Un’altra fonte di inquinamento è certamentecostituita dalla problematica relativa al trattamento dei rifiuti, intendendo per rifiuto un prodotto di scarto che rimane come avanzo, non solo dai consumi domestici, ma anche e soprattutto dalla produzione industriale sotto forma di materia prima in eccesso, intermedio di lavorazione e scarti di lavorazione nel processo di trasformazione di una risorsa in bene materiale, in accordo con il “ciclo di produzione” schematizzato in Figura 4:

I rifiuti rappresentano infatti un problema molto rilevante per la società moderna [11] sia per l’aspetto dei quantitativi da smaltire, sia per il corretto smaltimento, sia, ancora, per gli aspetti economici e sociali connessi.

La gestione dei rifiuti, in primo luogo, implica un impegno da parte della pubblica amministrazione la quale deve al momento attuale superare numerosi ostacoli tra cui: una scarsa capacità decisionale, l’indeterminatezza e la mancata coerenza delle scelte di pianificazione e di programmazione, l’impossibilità di ricorrere a meccanismi economici capaci di promuovere soluzioni avanzate, anche se costose, come sono i sistemi di raccolta differenziata integrati con impianti a tecnologia complessa, che hanno finito per premiare sistemi di smaltimento più semplici e meno dispendiosi, ma, come le discariche, assai più dannosi per l’ambiente.

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3. I costi sociali delle problematiche ambientali

Dalla rapida panoramica su alcune delle principali problematiche ambientali legate al processo produttivo, emerge chiaramente come il problema ambientale attualmente coinvolga molti attori: gli Stati, gli Organismi internazionali e nazionali, le imprese e i cittadini, e necessiti soprattutto di attività di prevenzione dal momento che le azioni di interventi riparatori non cancellano le perdite sociali ed economiche che si possono verificare per cause derivanti dagli inquinamenti finora esaminati.

Le imprese industriali, responsabili dei maggiori disastri in campo sociale, hanno infatti l’obbligo di sviluppare un management ambientale che deve essere considerato non un vincolo economico, bensì un mezzo di opportunità per lo sviluppo di prodotti competitivi e di know how da cedere ad altre imprese.

D’altro canto l’economia di mercato ha portato sempre di più verso una divergenza fra il valore sociale e quello privato dell’attività innovativa dal momento che le imprese investono in ricerca e sviluppo meno di quanto sarebbe ottimale dal punto di vista sociale; in altri termini le innovazioni sono molto costose per le imprese che le effettuano ma poco costose da imitare per cui esistono scarse incentivazioni allo studio ed alla ricerca di soluzioni innovative.

In realtà bisogna dire che l’impresa industriale italiana, ritenuta uno dei maggiori responsabili del degrado ambientale del nostro paese, sta ormai prendendo coscienza, salvo rarissime eccezioni, e con molto ritardo rispetto ad imprese industriali di altri paesi, dei problemi ambientali.

In effetti prima degli anni ottanta l’impresa italiana non aveva individuato ed eleborato alcun piano di “politica ambientale”, limitandosi a rispondere secondo la logica del caso per caso, contrapponendo singole soluzioni a singoli problemi (v. ad esempio inquinamento e depurazione, crisi energetica e centrali nucleari).

La conseguenza è stata che molte soluzioni, adottate al di fuori di un quadro generale e realistico, si sono dimostrate inadeguate nel breve e medio periodo per la non aderenza alla mutata situazione ambientale ed hanno finito col determinare molto spesso non solo gravi perdite economiche alle imprese (a volte la stessa cessazione della loro attività), ma anche e soprattutto gravissimi danni all’ambiente e alla società.

Agli inizi degli anni ottanta, grazie anche ad una serie di sollecitazioni esterne, l’impresa italiana si è finalmente sensibilizzata ai mutamenti ed alla domanda di mercato e ha cercato di “imitare” le imprese di paesi più attivi nella politica ambientale, cercando di comprendere le dimensioni del problema ambientale e quindi di affrontarlo realisticamente ponendosi dei precisi obiettivi.

I rapporti tra impresa e ambiente investono ormai tutti i campi dell’attività imprenditoriale; infatti gli aspetti ambientali che le imprese devono necessariamente considerare rilevanti ed imprenscindibili sono quelli:

Economici Tecnologici Normativi Sociali Politici

Dal punto di vista macroeconomico, secondo dati OCSE, i paesi industrializzati spendono complessivamente per l’ambiente tra lo 0.5 ed il 5% del loro reddito nazionale; recenti studi della CEE e dell’OCSE hanno infatti dimostrato che paesi industrializzati, come ad esempio gli USA ed il Giappone, che hanno investito sulla politica ambientale tra l’uno ed il due per cento del loro prodotto interno lordo (PIL), sono riusciti a ridurre notevolmente il tasso di alcuni inquinanti tradizionali (v. ad esempio ossidi di zolfo).

Ciò sta a dimostrare l’effetto positivo determinato dalle spese per l’ambiente sostenuti da paesi fortemente industrializzati e sottolinea il fatto che senza l’impegno per la tutela dell’ambiente, l’aumentata ed indiscriminata produzione di beni e di servizi porterebbe inevitabilmente ad un notevole degrado ambientale.

Per quanto riguarda gli aspetti economici della tutela dell’ambiente da parte delle singole aziende, bisogna dire che ogni impresa si deve assumere:

• I costi per produrre prodotti a norma (costi di investimento per gli impianti e costi di esercizio per la produzione ed i controlli)

• Gli effetti economici nella commercializzazione dei prodotti

• I costi per eventuali danni da risarcire, nel caso di misure di protezione insufficienti.

Le spese di investimento comprendono tutte quelle spese necessarie per gli impianti e i sistemi per la prevenzione dell’inquinamento non solo per l’ambiente esterno ma anche per quello in cui operano i lavoratori; tali spese vengono approssimativamente stimate tra lo 0.5 ed il 40% del totale degli investimenti a seconda del tipo di attività.

I costi di esercizio (v. ad esempio i costi di esercizio sostenuti per la desolforazione in raffineria, per la desolforazione dei fumi dei camini delle centrali termoelettriche a combustibili fossili o i costi per la denitrificazione dei fumi delle centrali elettriche) variano notevolmente e risulta piuttosto difficile la loro quantificazione se non considerando caso per caso e sempre come ordine di grandezza data la mancanza di dati certi soprattutto in campo nazionale.

In merito agli effetti economici determinati dal commercio dei prodotti, data la crescita di domanda ambientale, cresce in effetti la pressione commerciale dei paesi impegnati nella tutela ambientale, i quali chiedono che anche i prezzi dei concorrenti includano i maggiori costi derivanti da produzioni eseguite nel rispetto ambientale.

Infine le imprese devono impegnarsi a sostenere le spese dei danni per risarcimento se le misure di protezione non si sono rivelate efficaci ed efficienti (ad esempio l’ICMESA ha dovuto risarcire le persone colpite a Seveso dalla fuoriuscita di diossina dai propri impianti produttivi).

Per quanto concerne gli aspetti tecnologici del rapporto tra impresa ed ambiente, occorre dire che la ricerca di soluzioni ai problemi ambientali ha fortemente contribuito, come vedremo successivamente, al rinnovamento tecnologico delle imprese sia sotto l’aspetto di introduzione di nuove tecnologie, sia di quello dell’innovazione del processo e del prodotto.

Per favorire lo sviluppo e l’adozione di tecnologie pulite sono anche stati predisposti in questi ultimi anni in tutti i paesi industrializzati sia dei sistemi di sostegno strutturale che degli strumenti di incentivazione finanziaria.

Le Figure 5, 6 e 7 mostrano il panorama dell’industria comunitaria tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta ed evidenziano chiaramente come il grado di avanzamento delle tecnologie pulite sia stato determinato dal grado della ricerca e sviluppo dei vari paesi: dalle Figure 6 e 7 emerge infatti che Germania, Stati Uniti, Giappone e Francia sono quelli che hanno realizzato il maggior numero di brevetti per il settore ambientale.

L’azione dell’Italia in questo campo risulta piuttosto poco significativa poiché sono mancate sia delle specifiche motivazioni sia una effettiva pianificazione degli interventi.

Per quanto riguarda invece gli aspetti normativi, le imprese industriali devono ormai operare rispettando le norme di legge che in questi ultimi anni sono sorte per la tutela e la prevenzione ambientale.

Un fattore molto importante che tutte le imprese dovrebbero tenere ben presente è il “carattere evolutivo” delle norme, nel senso che il progresso e le continue acquisizioni scientifiche portano inevitabilmente alla fissazione di nuovi livelli di rischio per i diversi inquinanti, cosicché impianti predisposti con la normativa vigente al momento della progettazione possono risultare, anzi lo sono quasi sempre, sorpassati nel momento dell’entrata in funzione.

Oltre ad una severità dei limiti di accettabilità dei vari inquinanti, le leggi per la tutela dell’ambiente si evolvono verso pene più severe sia sotto l’aspetto pecuniario che sotto quello di restrizione della libertà; in altre parole sta lentamente venendo a cadere il concetto che alcuni beni comuni, come aria, acqua, paesaggio etc., siano res nullius, e si sta contemporaneamente facendo strada il concetto di proprietà di tutta la comunità.

Gli aspetti sociali sono forse quelli più rilevanti per le imprese che molto spesso sono state protagoniste di gravi incidenti nei riguardi non solo degli addetti ai lavori nell’impresa, ma anche della popolazione residente nelle vicinanze degli impianti industriali (v. ad esempio gli episodi di Seveso nel 1976 e di Chernobyl nel 1986).

E’ fuor di dubbio che l’inosservanza delle norme di sicurezza, ma soprattutto l’aumentata probabilità di rischio per il forte sviluppo delle attività industriali, hanno fortemente concorso al determinarsi di incidenti gravi sempre più frequenti; ciò comporta l’insorgenza di conflitti tra la popolazione e l’impresa sulla localizzazione di attività industriali.

In conclusione, per le imprese sono molti i vincoli che derivano dagli aspetti sociali, vincoli che possono essere rimossi solo con il perseguimento di una corretta tutela e politica ambientale [12], la quale potrebbe fornire opportunità di occupazione oltre che di sicurezza sociale.

Per le imprese industriali sono molteplici anche i vincoli che stanno nascendo per gli aspetti politici che ruotano intorno al problema ambientale e che derivano sia da organismi nazionali che internazionali.

A livello nazionale sono sorti i cosiddetti movimenti “verdi” che hanno ottenuto voti e seggi nelle elezioni politiche e, a livello internazionale, molte sono le associazioni e gli organismi che si battono per i problemi ambientali su temi di ampio respiro quali: le convenzioni internazionali per l’uso dei mari e la regolamentazione internazionale per la produzione di prodotti pericolosi e l’inquinamento oltre frontiera (v. ad esempio le piogge acide in Scandinavia, riconducibili alle emissioni degli impianti industriali inglesi, tedeschi e francesi).

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4. Produzione e consumi ecocompatibili: strategie da intraprendere

Da quanto precede, emerge chiaramente come la protezione dell’ambiente debba ormai diventare un imperativo per tutto il sistema industriale: la sempre maggiore consapevolezza della criticità del fattore ambientale sta determinando una pressione crescente sia esogena, in quanto proveniente dall’opinione pubblica, sia endogena al sistema industriale stesso.

Sotto la spinta ambientale, infatti, tutto cambia o è destinato a cambiare: dai prodotti ai processi, dal rapporto con i consumatori finali alle relazioni intersettoriali e interaziendali, dall’orientamento della ricerca alle scelte di localizzazione e via dicendo.

In altre parole per le imprese non si tratta solamente di elaborare ed attuare doverose strategie sociali, si tratta altresì di cominciare a considerare l’ambiente un elemento chiave delle proprie strategie di sviluppo: non bisogna avviarsi con ritardo su un sentiero di sviluppo di lungo periodo, quale è quello dello sviluppo compatibile, destinato ad essere intrapreso da tutti i settori e, dunque da tutte le imprese.

L’impresa non deve quindi porsi di fronte al problema ambientale con un atteggiamento passivo o di semplice adeguamento all’evoluzione della normativa; il problema ambientale deve, vista la sua criticità, essere risolto indipendentemente dal comportamento del legislatore.

L’attività produttiva deve cominciare necessariamente a basarsi esclusivamente su tecnologie intrinsecamente pulite [13] dando luogo a prodotti ecocompatibili; se questa impostazione non viene tempestivamente adottata, le imprese devono essere messe di fronte alle proprie responsabilità e deve iniziare un processo legislativo teso a far si che esse siano costrette ad affrontare il problema ambientale non come un vincolo né tantomeno come opportunità di espansione dell’attività industriale ma come uno dei fattori che rientrano nel quadro gestionale della loro attività, nel rispetto dell’ambiente e della collettività, sancendo il principio del diritto di quest’ultima a rivendicare il potere di controllo sui cicli produttivi e sui loro esiti.

In altre parole, è necessario che le imprese riducano l’accumulo del capitale investendo invece i profitti nella salvaguardia del territorio e dei beni ambientali, nella ricerca e nell’adozione di tecnologie innovative ed appropriate alle diverse situazioni socio-economiche-ambientali, al fine di massimizzare l’impiego delle risorse rinnovabili attraverso il riciclo ed il recupero di prodotti e minimizzare per contro quello delle risorse non rinnovabili.

Questi presupposti possono così consentire alle imprese di continuare a produrre legittimando la propria attività di fronte all’opinione pubblica. A tal fine, deve risultare prioritario che le imprese modifichino anzitutto il proprio atteggiamento nei confronti dei problemi ambientali e, di conseguenza, diano il via a modificazioni strutturali e funzionali della propria attività nel senso di organizzarsi verso nuovi cicli produttivi e nuovi prodotti.

Si tratta per le imprese di essere messe di fronte alla necessità di sviluppare un concetto nuovo di ‘management ambientale’ che dia meno spazio alle logiche d’impresa tradizionali, basate su un capitalismo sfrenato, fallimentare e cieco di fronte a qualunque problematica sociale e ambientale, a favore delle aspettative della popolazione, fissando strategie per raggiungere tali obiettivi nel rispetto della collettività; in tal modo l’impresa viene a sviluppare strumenti validi di gestione ambientale facendo affidamento sulle proprie capacità tecniche oltre che sui propri mezzi finanziari, cosciente della necessità di gestire un sistema complesso comprendente componenti dell’ambiente fisico (risorse) e dell’ambiente sociale (comunità, istituzioni, etc.).

In pratica, per raggiungere nel lungo periodo una maggiore compatibilità ambientale, le imprese, avvalendosi dell’analisi ambientale attraverso la valutazione di impatto ambientale, devono sviluppare una nuova strategia perseguendo il raggiungimento dei seguenti obiettivi:

• La riduzione degli input di produzione, attraverso la semplificazione dei processi e l’introduzione di nuove tecnologie comportanti risparmi, recuperi ed aumenti delle rese al fine di ridurre per unità di prodotto la quantità di energia, di materie prime, prodotti ausiliari, acqua e quant’altro rientra nel processo produttivo.

• La riconversione e riqualificazione degli input, vale a dire la sostituzione degli input di origine fossile con materie prime e fonti di energia rinnovabili e la modificazione degli input di materie prime e prodotti ausiliari in funzione del riutilizzo o del riciclo dei residui e degli scarti di lavorazione.

• La riduzione dell’impatto ambientale attraverso la minimizzazione delle emissioni liquide e gassose e dei rifiuti solidi derivanti dai processi industriali e la realizzazione di prodotti con elevate caratteristiche di accettabilità ambientale sia nella fase della loro vita utile che in quella della loro dismissione.

• La scelta di siti appropriati per la collocazione degli impianti produttivi, attraverso la razionalizzazione della localizzazione dei siti industriali sulla base di nuovi criteri che tengano conto delle caratteristiche socio-economiche e di sviluppo insediativo, dei valori naturali, paesaggistici e turistici, nonché dei rischi per la salute umana e di compromissione ambientale del territorio.

Alcuni esempi concreti, peraltro già attuati da alcune imprese e in fase di studio da parte di altre, per ottenere una maggiore compatibilità ambientale ad esempio nel settore chimico, vedono l’impiego di risorse vegetali al posto di risorse fossili (petrolio, carbone e metano) come materie prime per l’industria chimica e lo sfruttamento di processi biotecnologici, ossia dei processi di sintesi che imitano la natura.

L’utilizzo di materie prime vegetali e lo sfruttamento delle biotecnologie per produzioni di tipo chimico appare oggi tanto più interessante se si tiene conto sia delle sempre maggiori disponibilità di prodotti agricoli, che si stanno verificando in più parti del globo, sia dei risultati ottenuti con le tecniche tradizionali di selezione genetica delle piante e, soprattutto, di quelli conseguiti con l’ausilio delle biotecnologie avanzate: ingegneria genetica e coltivazione di cellule di piante.

L’affermarsi su larga scala di un’industria chimica del tipo di quella qui delineata, avrebbe diverse conseguenze positive, con implicazioni di notevole rilevanza socioeconomica anche su scala mondiale. Lo sviluppo di questo tipo di chimica porterebbe infatti ad una migliore integrazione delle attività di tipo chimico nel contesto produttivo-ambientale, ad un miglior utilizzo del territorio, ad un incremento dell’impiego di sostanze chimiche (naturali) non nocive e alla realizzazione in diversi casi di processi più puliti, essendo i prodotti naturali più facilmente biodegradabili.

Alcuni tra gli esempi più noti di derivati della cosiddetta chimica verde sono:

• Le materie plastiche biodegradabili (che possono essere attaccate e demolite fino ai componenti elementari dai microrganismi naturalmente presenti nel terreno e nelle acque) e fotodegradabili (plastiche degradate sotto l’azione della luce)

• I tensioattivi sintetici prodotti mediante oli vegetali

• I carburanti vegetali.

Infine, per effettuare un più efficace controllo sulle emissioni di agenti inquinanti, e quindi un controllo del loro impatto ambientale, sarebbe auspicabile intervenire sul settore energetico, caratterizzato da sempre maggiori fabbisogni sia dei Pesi industrializzati che di quelli in via di sviluppo, dalla ridotta disponibilità delle materie prime tradizionali e dall’aumento dei costi e delle difficoltà per una corretta gestione degli impianti. Si potrebbe ad esempio pensare di sostituire progressivamente l’impiego delle fonti energetiche di origine fossile (petrolio, metano e carbone fossile), incrementando l’uso delle cosiddette fonti rinnovabili, ovvero di quelle fonti le cui risorse non sono esauribili ma vengono prodotte a “ciclo continuo” (acqua, sole, vento, geotermia, biomasse) ma che, nel fabbisogno mondiale energetico, concorrono attualmente solo per una piccola percentuale

E’ quindi indubbio che i mercati si devono orientare verso materiali e prodotti che abbiano un basso rischio di inquinamento in tutto il loro ciclo vitale, dalla scelta della materia prima (vedi Figura 8), fino al prodotto finito.

 

Prodotti facilmente riciclabili, convertibili in energia o smaltibili senza conseguenze dannose per l’ambiente, costituiscono certamente una soluzione da seguire per molte aziende, ma risulta altrettanto vero che, se non ci si oppone efficacemente all’idea che il consumismo sia l’unico modello economico possibile, anche nei paesi in via di sviluppo cresceranno quelle richieste che nel mondo occidentale si sono a poco a poco trasformate in esigenze inderogabili e allo stesso tempo hanno determinato un forte e negativo impatto ambientale e allo stesso tempo hanno acutizzato le tensioni sociali accrescendo, ad esempio, il divario Nord-Sud.


[1] International Social Science Journal, n.130 - November 1991, “Modelling the interactions between human and natural systems”, John B. Robinson

[2] San Francisco: Sierra Club Books, “Global Warming”, 1989, S. Scheider

[3] The New York Times, “Temperature for world rises sharply in the 1980’s”, March 29: C1 1988, P. Shabecoff

[4] Enviromental Science & Technology, vol. 31 n.11 - 1997, Catherine M. Cooney

[5] The New York Times, “Global Warming has begun, expert tells Senate”, June 24 1988, P. Shabecoff

[6] Nature, n.249 1974, “Stratospheric sink for chlorofluoromethanes: Chlorine atoms catalysed destruction of ozone”, M. Molina and F. Rowland

[7] “Ozone Crisis”, New York: John Wiley, 1989, S. Roan

[8] Science, vol. 278, November 1997, Donald J. Webbles and James M. Calm

[9] Acqua e Aria, Gennaio 1997, Laura Volterra

[10] Professional Geographer, n.43 1991, “Environmental degradation in Brazilian Amazonia”, J. Bendix and C. Liebler

[11] Technology Review, n.90/91 maggio 1996, Antonio Polimene

[12] “Cambiare rotta”, Il Mulino 1992, S. Schimdheiny

[13] “Tecnologie pulite: strategie e politiche”, Istituto per l’ambiente 1994, E. Gerelli