Stato, regioni e autonomie locali: il trasferimento delle funzioni legislative ed amministrative tra norme ordinarie e Costituzione

Arturo Salerni

Nel precedente numero di Proteo abbiamo passato in rassegna sia pure in termini generali gli interventi - anche in corso di approvazione - di modifica costituzionale e sul piano della legislazione ordinaria nell’ambito del complesso tema della ripartizione delle funzioni tra Stato, Regioni ed Autonomie Locali.

Riforma costituzionale e mondo del lavoro

Abbiamo illustrato alcuni elementi della proposta di legge costituzionale di modifica al titolo quinto della Costituzione. Quella proposta è stata approvata - in seconda deliberazione, con la maggioranza dei suoi componenti - dal Senato della Repubblica nella seduta dell’8 marzo 2001.

L’art. 138 della Costituzione detta le regole per il procedimento di revisione costituzionale.

Il meccanismo previsto è il seguente: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.

Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.

Orbene, non essendosi raggiunto il quorum previsto dal terzo comma dell’art. 138 (e cioè i due terzi dei componenti di entrambe le camere) ed a seguito della richiesta proveniente sia dalla maggioranza che dall’opposizione, si andrà al referendum confermativo. E cioè la modifica costituzionale sarà promulgata solo se approvata dalla maggioranza dei voti validi degli elettori, indipendentemente dal numero di coloro che si recheranno alle urne.

Il 13 maggio 2001 si terranno le elezioni politiche, ed in un primo momento si era ritenuto (da parte degli esponenti dei diversi schieramenti politici) che la data del referendum confermativo potesse coincidere con quella prevista per il rinnovo delle Camere. Tale ipotesi è successivamente svanita, ma il confronto referendario è inevitabile.

Nella vicenda si è peraltro inserita la nota polemica sul referendum consultivo chiesto in tema di trasferimento di funzioni dallo Stato, nel campo della sanità e dell’istruzione oltreché della polizia locale, dalla Regione Lombardia, e questa polemica rischia di far perdere di vista (inserendola nell’ambito di uno scontro elettorale) la vera natura dello scontro in atto. [1]

La necessità di affrontare le urne e la consultazione popolare sulla questione della modifica del rapporto tra lo Stato, le Regioni e le autonomie locali ci costringe a riflettere sulla portata ed il senso della modifica introdotta nell’ultimo scorcio della XIII legislatura: si conoscono le posizioni (pur sempre mutevoli) assunte dai partiti, ma spesso le reazioni sono dettate più da esigenze contingenti di natura politico-elettorale che da una reale valutazione di che cosa è in gioco e di cosa si sta mettendo in campo.

Va notato che in un incontro recente [2] alcuni esponenti di primo piano del centro-sinistra, ovvero dello schieramento che ha fatto approvare la riforma, hanno sostenuto che la modifica costituzionale in effetti è stata un po’ affrettata e che i suoi contenuti andavano sicuramente migliorati [3].

Si verifica sul federalismo ciò che si è determinato al tempo della Commissione bicamerale istituita per cambiare la seconda parte della Costituzione: un panorama sconfortante di spostamenti tattici, di balletti frenetici, sullo sfondo di una concezione della vita democratica sempre meno caratterizzata da effettiva rappresentanza degli interessi sociali e da reale partecipazione popolare.

Anche in questo caso uno schieramento urla alla vittoria (sia pure per pochi giorni o addirittura per poche ore) per il solo fatto di essersi compattato e l’altro grida al colpo di mano, salvo il giorno dopo assumere la posizione opposta.

Certo - anche con riferimento a questo scenario - alcune idee di fondo legano i due grossi schieramenti politici del Paese.

Al di là di queste grida, il compito che la rivista si sta assumendo (ed intende assumersi in futuro) è quello di indagare ciò che si verifica nel sempre magmatico rapporto tra questione istituzionale e sfera economico/sociale, tra le forme che assumono la politica e la rappresentanza degli interessi e gli assetti complessivi della nostra formazione sociale, ed in particolare quanto tale dialettica investa il mondo del lavoro (e le sue forme giuridiche), avvertendo distintamente il senso di pericolo ingenerato da un disinvolta valutazione delle problematiche relative alla fissazione ed allo svolgimento delle regole democratiche e dei principi che dovrebbero comunque informare il sistema politico nel suo complesso.

Compito di questo dossier è anche quello di ripercorrere la vicenda del decentramento delle funzioni e di ciò che questo determina sotto il profilo delle funzioni e delle attività di chi svolge il proprio lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione.

Va peraltro fatto notare che, attraverso l’approvazione a maggioranza della modifica costituzionale ed il mancato coinvolgimento dell’opposizione, si viene a determinare un precedente pericolosissimo: da ora in poi ogni schieramento politico maggioritario in Parlamento si sentirà di intervenire a colpi di maggioranza sul testo costituzionale. Certamente non è possibile prevedere quale sarà il possibile limite ad interventi di riforma costituzionale, su quali parti della costituzione si interverrà, quanto dell’originario assetto costituzionale risulterà modificato o stravolto, sia sul piano dell’affermazione dei diritti che sul piano dei rapporti tra i diversi organi costituzionali e del loro funzionamento.

2. Ritorniamo al testo approvato dal Parlamento: esso costituirà inevitabilmente il punto di riferimento non solo della necessaria prossima elaborazione degli Statuti regionali (prevista dalla legge costituzionale n.1 del 1999 [4]) ma anche della normativa ordinaria in tema di decentramento delle funzioni.

Ma non solo: tutti dobbiamo avere la piena consapevolezza che
 ove ratificata - la recente modifica della Costituzione comporta il fatto che in gran parte delle materie la competenza legislativa passa, in via esclusiva o in via concorrente, alle regioni (siano esse a statuto ordinario o a statuto speciale) [5].

Lo Stato nella riforma - infatti - è solo una delle entità che compongono la Repubblica (insieme a Comuni, Province, Regioni e Città metropolitane), ed i suoi compiti sul piano legislativo sono limitati ed espressamente indicati, senza alcuna funzione che lo collochi in posizione sovraordinata rispetto alle altre entità che fanno parte della Repubblica.

Se ci soffermiamo sulle questioni attinenti le politiche sociali e del lavoro - richiamando sotto tale profilo l’elencazione integralmente riportata nel primo numero di questo dossier [6] con riferimento alla nuova formulazione dell’art. 117 della Costituzione
 ci accorgiamo che la previdenza sociale rientra nelle materie di esclusiva competenza legislativa dello Stato (lett. o) mentre la “previdenza complementare ed integrativa” rientra nella cosiddetta legislazione concorrente, ovvero in quel campo in cui la potestà legislativa spetta alla Regione “salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.

Certo occorrerà tempo ed impegno interpretativo per distinguere, ad esempio, sul rapporto tra la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di previdenza sociale, e potestà legislativa dello Stato per la fissazione dei principi fondamentali e potestà legislativa delle Regioni per la materia della previdenza complementare ed integrativa.

Non possiamo fare a meno di immaginare una serie costante di conflitti avanti la Corte Costituzionale, organo al quale lo Stato può rivolgersi quando ritiene che una legge regionale ecceda la competenza della Regione così come la Regione “quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza” (art. 127 della Costituzione, nella nuova formulazione).

Ma andiamo ancora avanti: ciò che appare veramente incredibile si è realizzato.

La competenza legislativa in tema di “tutela e sicurezza del lavoro” passa alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali (laddove, a mente del terzo comma dell’art. 117 della Costituzione “riformata”, la potestà resta riservata al Parlamento nazionale).

Se è evidente cosa si intende per “sicurezza” del lavoro, ovvero la materia oggi compiutamente disciplinata dal Decreto legislativo 626 del 1994 in attuazione di una direttiva comunitaria, più complesso diventa definire con certezza cosa debba essere compreso nel termine “tutela” del lavoro. Si consideri infatti che l’”ordinamento civile” rientra nell’attribuzione esclusiva della legislazione statale (art. 117, secondo comma, lettera l).

Oltre a prevedere anche in questo caso una messe infinita di ricorsi all’organo di giustizia costituzionale competente a decidere nell’ipotesi in cui Stato e Regione contendano tra loro in ordine a chi spetti la competenza a legiferare rispetto ad una o ad altro aspetto della legislazione lavoristica, quello che si avvia è un processo di progressiva frantumazione della normativa sul lavoro, un’onda che investe il concetto stesso di contrattazione collettiva nazionale di lavoro nella direzione evidente della introduzione di “gabbie salariali”.

Non si tratta di ordinaria amministrazione, si tratta di un rivolgimento che rischia di essere decisivo: chi stabilirà concretamente la disciplina dei licenziamenti (le cause di legittima risoluzione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e le conseguenze dell’accertamento dell’illegittimità dei licenziamenti), del diritto di sciopero, dei lavori atipici o a termine? Ed uno spezzettamento delle discipline determinerà anche un mutamento delle condizioni contrattuali e dei minimi retributivi?

Insomma - se ben guardiamo la configurazione del nuovo testo dell’art. 117 della Costituzione - ci accorgiamo che mentre i principi fondamentali della normativa a tutela del lavoro vengono attributi alla legislazione dello Stato tutta la legislazione di dettaglio resta affidata alle Regioni.

Torniamo allora alla questione dei licenziamenti (ovvero ad una materia su cui ci si è confrontati nel recente passato in occasione della tornata referendaria del maggio 2000): potrebbe stabilirsi in sede di determinazione dei principi fondamentali - ovvero nell’ambito della potestà legislativa dello Stato - che il licenziamento non può avvenire senza giusta causa o giustificato motivo e che al licenziamento che difetta di tali presupposti (cioè il licenziamento illegittimo) debba seguire necessariamente una sanzione. La legge regionale si troverebbe così nella condizione di scegliere quale sia la conseguenza del licenziamento illegittimo: se la tutela obbligatoria (ovvero la monetizzazione del licenziamento illegittimo) o se invece la tutela reale (cioè la reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato nel proprio posto di lavoro). Ed ancora nell’ambito della tutela obbligatoria le possibilità possono varia da una minima determinazione del risarcimento del danno (una mensilità) a conseguenze dai contenuti economici molto più rilevanti.

E noi dobbiamo porre questo ragionamento in uno scenario più vasto, anzi nello spirito e nella filosofia che informano l’intero intervento sul titolo quinto della parte seconda della Costituzione: ovvero la logica della concorrenza tra ambiti territoriali.

Utilizzare la normativa sul lavoro (e la presenza di un numero minore di garanzie in favore dei lavoratori dipendenti) quale elemento differenziale tra diverse aree, nel senso di rendere più appetibile l’investimento in taluni territori, in cui la legge regionale sancisce l’esistenza di minore rigidità (per esempio sugli ingressi o sui licenziamenti) diventa uno scenario assolutamente credibile ed addirittura di possibile immediata realizzazione.

Più statuti dei lavoratori, aree geografiche con un sempre più ridotto nocciolo di diritti per i dipendenti e per i loro sindacati, in una spirale costantemente al ribasso. Differenziazione delle condizioni normative (e delle disposizioni in tema di sicurezza dei lavoratori) quale presupposto per una diversificazione anche dei minimi salariali.

Diverse normative regionali e differenti contratti collettivi: questo è ciò che può accadere nel caso in cui il referendum popolare avesse come esito l’approvazione della riforma.

E quanto potrebbe incidere, anche sul piano della appetibilità dei territori, nel senso di promuovere investimenti di capitali una differenziazione della normativa sugli scioperi, non solo limitata ai pubblici servizi?

E quanto ancora una differente disciplina - sia nel settore pubblico che nel settore privato - delle regole in tema di rappresentatività e rappresentanza sindacale?-----

Soglie più alte per il conferimento della sufficiente rappresentatività, riduzione del numero dei sindacati titolari dei diritti e per questa via (anche per questa via) riduzione del grado di conflittualità sociale.

Credo sia incontestabile che l’esistenza di una pluralità di condizioni normative, così come di tipologie contrattuali [7], determina un complessivo indebolimento delle possibilità di contrattazione delle condizioni giuridiche e retributive per l’intero mondo del lavoro dipendente.

Le false chimere del federalismo ad oltranza portano a costruire nelle regioni più ricche un immaginario per cui il mondo del lavoro (in termini indifferenziati), e cioè coloro che concorrono alla produzione di beni e servizi, nelle regioni più ricche del settentrione d’Italia liberandosi del fardello della redistribuzione territoriale degli introiti fiscali potrebbe usufruire di una consistente diminuzione del carico fiscale.

Un giovamento significativo quindi per le singole imprese ed i singoli lavoratori residenti nelle regioni economicamente più robuste tale da determinare un considerevole aumento dei redditi. Ciò evidentemente unito alla rottura dell’uniformità delle prestazioni sociali ed assistenziali, evidenziabile dal complesso delle disposizioni di modifica costituzionale, e dalla allocazione delle entrate fiscali in ragione delle loro aree di provenienza.

Ma sappiamo bene - per constatazione logica e per insegnamento della storia - che dare al padronato la possibilità di scegliere dove investire in relazione alle differenze esistenti in ragione del costo della manodopera, della rigidità di utilizzo della stessa, degli oneri derivanti dalla necessità di determinare dispositivi di sicurezza degli impianti significa determinare una spirale al ribasso (il cui livello minimo non è a priori individuabile) nelle condizioni di vita dei lavoratori subordinati ed un generale peggioramento delle normative poste a tutela del lavoro, in un clima di divisione sul piano politico e sindacale.

Sappiamo quanto la Confindustria abbia salutato con favore il percorso di modifica costituzionale ed istituzionale nella direzione del federalismo, e ciò non soltanto con riferimento alla devoluzione in favore della legislazione concorrente delle normative in tema di tutela e sicurezza del lavoro.

Il percorso che si è avviato - e rispetto al quale le forze di centrodestra ed i governi delle Regioni del Nord Italia chiedono un ulteriore approfondimento, una devolution più marcata [8] - determina la possibilità di muoversi nella jungla degli incentivi fiscali differenziati, dei patti territoriali di sviluppo gestiti autonomamente dalle regioni, delle “condizioni per lo sviluppo” che si traducono in agevolazioni di vario tipo (costo del lavoro, tipologie contrattuali, normative di carattere urbanistico, etc.), ma anche la gestione da parte delle Regioni e degli Enti Locali della politica delle grandi opere pubbliche compresi porti ed aeroporti, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, “ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi”.

È ovvio che la possibilità per i grandi gruppi economici di trattare con Regioni ed Enti Locali apre per le imprese possibilità diverse, anche sotto il profilo della forza contrattuale e della capacità di determinare le scelte degli organismi pubblici, rispetto a quelle offerte dal rapporto negoziale con lo Stato: basta immaginare il rapporto che potrebbe esistere tra una grande impresa multinazionale che promette un investimento notevole di capitali (con le conseguenze in termini di occupazione e di ricavi fiscali) ed una regione meridionale medio-piccola alla quale (sia pur nel rispetto dei principi fondamentali, la cui determinazione è riservata alla legislazione dello Stato) viene chiesto di introdurre modifiche in tema di tutela e sicurezza del lavoro in cambio di significativi investimenti.

3. Sul piano fiscale - per restare ad un’altra questione che, combinandosi con quelle trattate, assume rilievo centrale rispetto al ragionamento che si sta sviluppando - resta affidato alla legislazione esclusiva dello Stato il “sistema tributario e contabile dello Stato” unitamente alla materia della “perequazione delle risorse finanziarie” (art. 117, comma secondo lettera e), mentre si attribuisce alla legislazione concorrente la materia così descritta: “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica” (art. 117 Cost. terzo comma). Ovvero lo Stato avrà il potere legislativo esclusivo su sistema tributario e perequazione delle risorse finanziarie ed il potere legislativo per la determinazione dei principi fondamentali per ciò che concerne il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, ma la potestà legislativa passa alle Regioni.

Anche qui un guazzabuglio di dimensioni notevoli, ma la direzione ed il senso di marcia sono al tempo stesso evidenti: valore interpretativo riveste in tal senso la nuova formulazione dell’art. 119 che conviene richiamare.

Innanzitutto il nuovo articolo 119 contiene il principio dell’attribuzione a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni di “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”. Ed ancora in esso si afferma che detti enti hanno risorse autonome e “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Essi “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” e le risorse di cui dispongono consentono di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Inoltre vi è il principio per cui lo Stato istituisce un fondo perequativo per i “territori con minore capacità fiscale per abitante” e destina risorse aggiuntive in favore di enti determinati per favorire lo sviluppo.

Ovvero abbiamo una attribuzione di sempre maggiori poteri sul piano della determinazione ed applicazione dei tributi in favore della Regione e degli Enti locali, da stabilirsi nel quadro di alcuni principi - per lo più attinenti alla funzione di coordinamento - la cui fissazione spetta alla potestà legislativa dello Stato.

Si tratta di una evidente rideterminazione delle funzioni e dei poteri, che significa non solo possibilità di differenziazione in relazione alle collocazioni territoriali dei carichi fiscali nei confronti dei cittadini e delle imprese, l’utilizzo articolato della leva fiscale con riguardo alla possibilità di attrarre capitali ed investimenti, ma anche la differenziazione delle capacità di spesa (e quindi anche di spesa riferibile alle prestazioni sociali) tra regione e regione.

Se consideriamo ancora quanto già argomentato nella prima parte del dossier in ordine alla spesa sociale (ed alla evidente articolazione dell’offerta scolastica sul piano territoriale, resa possibile dalle indicazioni contenute nella modifica costituzionale con riferimento alla voce “istruzione”, le cui norme generali sono solo apparentemente lasciate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, e dalla recente costruzione normativa dell’autonomia scolastica) vien fuori un quadro così variegato da rendere difficile - se non attraverso una ricerca più minuziosa e dettagliata da condurre nei prossimi mesi - anche un abbozzo del quadro normativo, della redistribuzione delle competenze e di ciò che sarà lo scenario dei diritti e della vita sociale nei diversi ambiti territoriali del nostro Paese.

E questo scenario va collegato al fatto che “un altro aspetto caratterizzante della riforma sta nell’ingresso trionfale del principio di sussidiarietà, sia in senso verticale che in senso orizzontale”  [9].

Sul piano della cosiddetta sussidiarietà in senso orizzontale, ovvero del principio contenuto nell’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione (“Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”) va detto che la nuova formulazione non solo rende legittima (con qualche limitazione ricavabile da altri articoli della Costituzione) “la devoluzione ai privati di attività di interesse generale, ma addirittura obbliga gli enti pubblici a giustificare, in base al principio di sussidiarietà, l’assunzione in proprio di tali attività, giacché esse in principio, se i cittadini singoli e associati sono in grado di svolgerle, spettano a loro e non agli enti pubblici. Scuola, sanità, assistenza, previdenza, cultura e in generale tutti i servizi sociali vanno svolti anzitutto dai privati, e poi, solo se questi si dimostrano incapaci di assicurarli, possono essere assunti dagli enti pubblici. Le sole attività di interesse generali che non possono essere attribuite ai privati sono quelle che comportano poteri autoritativi, e cioè poteri di imposizione di obblighi e divieti: è da ritenere che, in forza della restante parte della Costituzione, solo atti dei poteri pubblici possano imporre obblighi e divieti. Tutta la prima parte della vigente Costituzione, per quanto riguarda i servizi sociali, diventa ufficialmente carta straccia (si pensi, per contrasto, alla formulazione dell’art. 33, secondo comma: “La Repubblica ...istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”, con cui, esattamente all’opposto di quanto dice il principio di sussidiarietà, lo Stato ha comunque l’obbligo di istituire scuole per tutti gli ordini e gradi). Nel migliore dei casi si assisterà a lotte furibonde nelle diverse sedi sulla opportunità o meno di affidare ai privati questo o quel servizio pubblico”. [10]

A questo punto la scadenza che coinvolgerà il paese non potrà che essere il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione, la cui data di svolgimento non è dato conoscere al momento in cui quest’articolo va in stampa: le forze politiche e sociali saranno chiamate ad esprimersi sul complesso delle variazioni introdotte. Noi crediamo di poter fornire attraverso queste prime - e per forza di cose ancora superficiali - valutazioni alcuni elementi di valutazione, sul senso complessivo della riforma, sulle dinamiche ulteriori che essa può attivare, sui gravi pericoli che minacciano complessivamente il mondo del lavoro dipendente, le sue potenzialità di complessiva sindacalizzazione e vertenzialità, i gravi attacchi - ulteriori rispetto agli incisivi fendenti che già sono stati portati al welfare state
 che si profilano ai diritti sociali.

Altro elemento decisivo diventa l’adozione da parte delle Regioni dei propri statuti, così come previsto dalla legge costituzionale 1/1999: un vero e proprio potere costituente in capo all’ente regione, le cui competenze - specie legislative - risultano modificate ed arricchite (nel senso che abbiamo visto) ad esito della riforma costituzionale del 2001.

4. Ulteriore elemento di riflessione è quello relativo alla necessariamente crescente conflittualità tra Regioni ed autonomie locali dovuto anche ad una strutturazione delle norme tale da ingenerare solo confusione, sia in termini generali che con riguardo alle specifiche attribuzioni in determinate materie.

La regola generale è che le funzioni amministrative sono attribuire in generale ai Comuni. Cioè sono attribuite ai Comuni “tutte le funzioni amministrative, salvo quelle attribuite ad altri soggetti. Il problema naturalmente (tralasciando la sorpresa di un’attribuzione generale ai Comuni di tutte le funzioni amministrative, che costituirebbe un unicum nel mondo) è sapere chi ha il potere di sottrarre funzioni amministrative ai Comuni e attribuirle ad altri. Il primo comma dell’art. 118 si dimentica semplicemente di questo punto cruciale: usa la forma passiva (“le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato...”)”. [11]

Afferma Rescigno, nel commento alla riforma costituzionale apparso sulla “Rivista del manifesto”, che il secondo comma complica il problema arrivando a sostenere qualcosa che si colloca all’opposto di quanto sostenuto nel comma precedente. Infatti nel secondo comma dell’art. 118 si afferma: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.

Quindi si parla, differenziandole, di funzioni amministrative proprie e funzioni conferite. Ma seguiamo ancora il ragionamento sviluppato da Rescigno, che evidenzia il panorama di caos istituzionale ed amministrativo che rischia di crearsi: “In primo luogo, per quanto riguarda i Comuni, si usa un nuovo aggettivo (“proprie” rispetto ad “attribuite”), e questo fa nascere il sospetto che si tratti di due cose diverse; in secondo luogo, nel primo comma le funzioni attribuite sono tutte meno quelle “conferite” (da qualcuno con un proprio atto, evidentemente, ance se non sappiamo ancora chi e come), mentre nel secondo comma si fa distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite di Province e Città metropolitane, cosicché per questi enti non tutte le funzioni amministrative sono conferite, in contraddizione col primo comma; in terzo luogo, quel che è più grave, le funzioni proprie spettano anche a Province e Città metropolitane, cosicché se le funzioni proprie dei Comuni sono le stesse di quelle chiamate “attribuite” nel primo comma, non è più vero che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che siano conferite ad altri, giacché anche Province e Città metropolitane hanno funzioni “proprie-attribuite”; se invece le funzioni proprie sono diverse da quelle attribuite, non si capisce in che cosa consista la qualità di “proprie” rispetto ad “attribuite” e “conferite”; in quarto luogo, stabilito che le funzioni proprie spettano sia ai Comuni, sia alle Province sia alle Città metropolitane, se si dà alla parola “proprie” il significato “assunte per propria determinazione” (visto che non sono conferite), non si capisce come e chi riuscirà ad arbitrare i conflitti tra Comuni, Province e Città metropolitane che intendono attribuirsi la medesima funzione amministrativa da ciascuna considerata come propria”.-----

Ed ancora - nel medesimo articolo [12] - si evidenzia che tale difficoltà ricostruttiva è aggravata dalla considerazione che nell’art. 117 [13] si afferma che alla competenza esclusiva della legge statale spetta la disciplina delle “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane” (oltre che la materia della legge elettorale e degli organi di governo relativa agli enti locali): per cui oltre ai tre aggettivi riferiti alle funzioni di Comuni, Province e Città metropolitane (proprie, attribuite e conferite) si aggiunge il concetto di “funzioni fondamentali”, “e non si capisce se le funzioni fondamentali rientrano tra le proprie, o tra quelle conferite (ovviamente dallo Stato) o sono una categoria diversa (del tutto separata dalle prime due, o comprensiva in parte o in tutto anche di funzioni proprie o di funzioni conferite, o ambedue).

Il seguito del secondo comma dell’art. 118 aggiunge altri elementi di confusione nel panorama si qui descritto, in quanto in esso si prevede che a Comuni, Province e Città metropolitane spettano le funzioni ad essi “conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze” (e qui si tratta delle competenze attribuite alla legge statale e alla legge regionale).

Orbene le competenze della legislazione sono indicate nell’art. 117 (sia nell’ambito della legislazione esclusiva che nell’ambito della legislazione concorrente) ed in tali materie la legge - statale - può prevedere di attribuire le funzioni amministrative ad organi dello Stato oppure di attribuirle agli enti locali.

Invece per ciò che concerne le Regioni - competenti a legiferare in tutte le materie non espressamente indicate dall’art. 117 e, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, anche in quelle di legislazione concorrente [14] - la legge regionale può riservare alle Regioni direttamente le funzioni amministrative oppure conferirle a Comuni, Province e Città metropolitane.

Ed aggiunge Rescigno nello scritto già ampiamente richiamato: “non è affatto vero che le funzioni amministrative spettano in principio ai Comuni (come dice il primo comma [dell’art. 118]): i Comuni avranno tante competenze quanto saranno indicate o da leggi statali o da leggi regionali. Al più, stando alla lettera dell’art. 118, si potranno ipotizzare casi nei quali, in assenza di leggi e riserve di legge, i Comuni potranno svolgere funzioni amministrative che si auto-attribuiscono, fermo restando però che nei casi di riserva di legge ci vuole sempre la previa legge, e nei casi non ricoperti da riserva la legge statale o regionale può sempre intervenire e quindi modificare anche le funzioni amministrative dei Comuni (resta fermo, si spera, che le funzioni che comportano poteri autoritativi hanno sempre bisogno di una previa legge).

Ma è evidente che laddove le forze politiche che governano Comuni, Province e Città metropolitane - riportandosi al primo comma dell’art. 118 - decidessero di opporsi al conferimento di funzioni amministrative a Stato e Regioni (per opera della legge statale o regionale), in nome del principio di “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”, si aprirebbe una serie infinita di conflitti istituzionali.

Conflitti tra istituzioni che peraltro costituiranno - sia pur nell’ambito delle linee generali che abbiamo tracciato - un tratto saliente del percorso che seguirebbe l’entrata in vigore della modifica costituzionale, nell’ipotesi in cui venisse approvata la riforma a seguito del referendum previsto dall’art. 138 anche con riferimento - come già abbiamo

accennato nella prima parte di questo dossier - al tema delle scelte di natura tributaria, confusamente delineato dalla nuova formulazione dell’art. 119.

Sembrerebbe addirittura, in base a quanto contenuto nel secondo comma dell’art. 119 (per cui Regioni ed enti locali “stabiliscono ed applicano tributi ed entrate propri”) che Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane decidano da sé l’eventuale introduzione di tributi e la loro configurazione, e ciò in palese contraddizione con quanto disposto dall’art. 23 della nostra Costituzione per cui è solo con la legge che si possono imporre tributi (e com’è evidente Comuni, Province e Città metropolitane non hanno il potere di legiferare).

Ma sicuramente appare dal testo dell’art. 119 una assoluta difficoltà di coordinamento tra i diversi enti impositori, anche alla luce dell’incomprensibile disposizione contenuta nell’art. 117 con riferimento alla concorrente competenza legislativa di Stato e Regioni in ordine al coordinamento del sistema tributario.

Il pubblico impiego: dalle riforme a Costituzione invariata alle modifiche della Costituzione

5. Come si colloca la materia del pubblico impiego, anzi del rapporto di lavoro con le Pubbliche Amministrazioni, alla luce della riforma costituzionale del 2001 è sicuramente uno degli argomenti da analizzare ed affrontare.

Più volte la rivista ha analizzato le trasformazioni normative del pubblico impiego, avvenute a costituzione invariata, ed i segni, il senso e la direzione di quel complesso di disposizioni che si sono susseguite a partire dal decreto legislativo n.29 del 1993.

La privatizzazione del rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione da un lato (con ciò che esso significa sul piano della contrattualizzazione del rapporto e sul terreno delle relazioni sindacali) e dall’altro il perseguimento degli obiettivi di economicità, di efficienza e economicità dell’attività della pubblica amministrazione, nel senso descritto da Rita Martufi e Luciano Vasapollo [i], sono i dati che principalmente emergono nell’opera di riforma partita con il primo governo Amato e portata avanti - specie con il decreto legislativo n.80 del 1998
 dal Ministro della Funzione Pubblica Bassanini durante il Governo Prodi.

A chi spetta la competenza legislativa in tema di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, siano esse statali o regionali, oppure enti locali o aziende pubbliche (in primis le AA.SS.LL.)? La lettura dell’art. 117 terzo comma induce a dire che per ciò che concerne gli aspetti più propriamente lavoristici del rapporto di lavoro tra la Pubblica Amministrazione ed il pubblico dipendente siamo nel campo della cosiddetta legislazione concorrente tra Stato e regioni, ed ovvero che resta riservata alla legislazione dello Stato la sola determinazione dei principi fondamentali in materia.

Non si può, quindi, sul punto che rimandare a quanto già detto sulla materia della “tutela e sicurezza del lavoro”, e su tutte le implicazioni che la ripartizione delle competenze legislative in questo campo comporta (si pensi alla materia dei licenziamenti, della rappresentanza sindacale, dell’esercizio del diritto di sciopero, delle forme di flessibilità del rapporto di lavoro), pur consapevoli della diversità esistente - sul piano della concreta applicazione del principio della concorrenza tra aree territoriali - tra scopi ed essenza del lavoro nel settore privato e nel settore pubblico.

Ma sul piano degli aspetti organizzativi della pubblica funzione, con le conseguenti ricadute sul piano del concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, occorre districarsi nella selva delle disposizioni contenute nel titolo quinto della seconda parte della Costituzione (siccome modificata dal Parlamento) per individuare a chi spetti la funzione legislativa ed a chi il potere regolamentare.

Per ciò che concerne “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali” [15] la potestà legislativa spetta esclusivamente allo Stato ed allo Stato, “salva delega alle Regioni” [16], spetta anche la potestà regolamentare (come in tutte le materie di legislazione esclusiva).

Per tutte le materie non espressamente attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato o alla legislazione concorrente la potestà legislativa spetta alla regione. È da ritenersi che le questioni relative ad ordinamento e funzionamento degli uffici siano questioni interne alle materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato (per esempio, previdenza sociale) o attribuite alla legislazione concorrente (ad esempio, protezione civile).

Va considerato che, sempre a mente dell’art. 117, sesto comma, la potestà regolamentare spetta alle Regioni nelle materie non attribuite alla legislazione esclusiva dello Stato e che “i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” (torna qui evidentemente in ballo tutto il discorso che abbiamo sommariamente indicato in precedenza sul significato da attribuire all’aggettivo “attribuite” nel nuovo testo costituzionale).

È inutile ribadire che tutto il ragionamento sugli ambiti diversificati di contrattazione collettiva torna in ballo in relazione ad una evidente possibile diversificazione della disciplina legislativa e regolamentare del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, la cui trasformazione in senso privatistico, peraltro (come già accennato), si è sviluppata - senza necessità di modifiche costituzionali - nel corso dell’ultimo decennio.

L’obiettivo della applicazione di “condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato” è fissato dall’art. 1 del decreto legislativo n.80 del 1998 (che sostituisce la definizione originariamente contenuta nell’art. 1 del decreto legislativo n.29 del 1993, “integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato”) ed è evidente che l’assimilazione delle condizioni giuridiche delle due tipologie di rapporto di lavoro rende assimilabile l’impatto che su di esse può determinare il nuovo impianto costituzionale, frettolosamente approvato in chiusura di legislatura.

La legislazione regionale potrà intervenire massicciamente su diversi aspetti della condizione lavorativa del pubblico dipendente, determinando modifiche la cui portata oggi non è facilmente prevedibile e sicuramente determinando differenziazioni notevoli in ragioni delle aree geografiche di appartenenza.

6. Con riferimento al percorso di assimilazione delle due tipologie lavorative, e richiamando alcuni elementi di analisi di cui la rivista si è fatta negli anni portatrice, è opportuno riportare i primi tre commi dell’art. 2 del decreto legislativo n.29 del 1993, così come sostituiti dal decreto legislativo n.80 del 1993:

1. Le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi. Esse ispirano la loro organizzazione ai seguenti criteri:

a) funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività, nel perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità. A tal fine, periodicamente e comunque all’atto della definizione dei programmi operativi e dell’assegnazione delle risorse, si procede a speciale verifica ed eventuale revisione;

b) ampia flessibilità, garantendo adeguati margini alle determinazioni operative e gestionali da assumersi ai sensi dell’art. 4, comma 2 [17];

c) collegamento delle attività degli uffici, adeguandosi al dovere di comunicazione interna ed esterna, ed interconnessione mediante sistmi informatici e statistici;

d) garanzia dell’imparzialità e della trasparenza dell’azione amministrativa, anche attraverso l’istituzione di apposite strutture per l’informazione ai cittadini e attribuzione ad un unico ufficio, per ciascun procedimento, della responsabilità complessiva dello stesso;

e) armonizzazione degli orari di servizio e di apertura degli uffici con le esigenze dell’utenza e con gli orari della amministrazioni pubbliche dell’Unione Europea.

2. I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario.

3. I rapporti individuali di lavoro di cui al comma 2 sono regolati contrattualmente. I contratti collettivi sono stipulati secondo i criteri e con le modalità previste nel titolo III del presente decreto; i contratti individuali devono conformarsi ai principi di cui all’art. 49, comma 2 [18]. L’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali. Le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale, I trattamenti economici più favorevoli in godimento sono riassorbiti con le modalità e nelle misure previste dai contratti collettivi e i risparmi di spesa che ne conseguono incrementano le risorse disponibili per la contrattazione collettiva”.-----

L’art. 4 comma 2 del decreto legislativo n.29 del 1993 - anch’esso modificato dal decreto legislativo n.80 del 1998, adottato a seguito della legge “Bassanini” n.59 del 1997 [19] - testualmente recita: “Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’articolo 2, comma 1, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.

Nella versione originaria dell’art. 2 del decreto originario - che è utile richiamare per evidenziare le modificazioni in ordine al comune concetto di “privatizzazione del rapporto di pubblico impiego” determinatesi nell’arco di un quinquennio, dalla parte terminale della “prima repubblica” al governo del centro-sinistra - i primi tre commi prevedevano quanto segue:

1. Le amministrazioni pubbliche sono ordinate secondo disposizioni di legge e di regolamento ovvero, sulla base delle medesime, mediante atti di organizzazione.

2. I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, salvi i limiti stabiliti dal presente decreto per il perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione amministrativa sono indirizzate.

3. I rapporti individuali di lavoro e di impiego di cui al comma 2 sono regolati contrattualmente. I contratti collettivi secondo i criteri e le modalità previste nel titolo III del presente decreto; i contratti collettivi devono conformarsi ai principi di cui all’articolo 49, comma 2.

Scompare ad esempio nella nuova formulazione del secondo comma - ed è un fatto significativo - quel riferimento al “perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione amministrativa sono indirizzate” che ancora nel 1993 veniva mantenuto come criterio di discrimine tra lavoro nel settore privato e lavoro in favore di una pubblica amministrazione e come limite, contestualmente, alla assimilazione tout court del pubblico impiego all’attività prestata in favore di un’impresa.

La differenza - essenziale - e la qualificazione dell’attività della pubblica amministrazione, la sua caratterizzazione, la sua specificità, il suo fondamento costituzionale si perdono in una indistinta collocazione nell’area delle attività lavorative, le cui finalità sfuggono ed i cui termini si confondono.

Se riflettiamo al rapporto tra questa configurazione normativa ed il concetto di sussidiarietà orizzontale contenuto nella nuova formulazione dell’art. 118 della Costituzione, con la implicita considerazione dell’indifferenza in ordine al fatto che le attività di pubblico servizio siano svolte da soggetti privati (e mossi da una logica di impresa) o da pubbliche amministrazioni - ed anzi il disfavore che si manifesta nel nuovo testo costituzionale rispetto alla diretta assunzione delle attività di rilevanza pubblica da parte di enti pubblici - si colgono segni e tratti che uniscono i momenti dell’intervento legislativo a Costituzione invariata sulla variegata materia del pubblico impiego e l’intervento di modifica costituzionale in ordine al ruolo ed al significato complessivo della funzione amministrativa; sicché possiamo affermare che non è certo indifferente la caratterizzazione giuridica del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione rispetto al ruolo complessivo della pubblica funzione nell’ambito dell’ordinamento e della vita sociale. Se questo è vero, si può anche affermare che esiste un rapporto, non solo di mera contiguità temporale ma anche di successione e logica conseguenzialità, tra le linee di intervento calibrate sul rapporto di pubblico impiego a partire dal 1993 ed il complessivo disegno - che va ben oltre il trasferimento di funzioni dal centro alla periferia - della “moderna” pubblica amministrazione (della cui modernità peraltro dubitiamo fortemente), sfociato nella riforma costituzionale del marzo 2001 - che quindi - sia pur formalmente limitata al titolo quinto della seconda parte della Costituzione - non intervenire esclusivamente sui rapporti tra Stato, Regioni ed Enti locali.

7. Nell’ambito della riforma del pubblico impiego uno degli elementi caratterizzanti - accanto alla assimiliazione del rapporto di lavoro al rapporto di lavoro privato - è il nuovo ruolo che assume la dirigenza.

Ed infatti, prevede il secondo comma dell’art. 3 del decreto legislativo n.29 del 1993 (anch’esso modificato dal decreto legislativo 31 marzo 1998 n.80), “ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministraativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati” [20].

Quindi abbiamo dirigenti con poteri di gestione piena e responsabilità in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei risultati dell’attività: si tratta quindi di coloro rispetto ai quali si soggettivizza la locuzione - contenuta nel già richiamato art. 4, comma 2 - “organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.

Resta all’organo politico-amministrativo la definizione degli obiettivi dell’azione amministrativa e l’indicazione delle priorità e dei programmi da attuare, con il connesso potere di emanare le direttive generali per l’attività amministrativa e per la gestione e di effettuare “l’assegnazione ai dirigenti preposti ai centri di responsabilità delle rispettive amministrazione delle risorse” (art. 14 decreto legislativo n.29 del 1993)  [21].

In particolare - è sempre l’art. 14 - “il Ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti. In caso di inerzia o ritardo il Ministro può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti” e solo laddove l’inerzia permanga (“o in caso di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente, che determinino pregiudizio per l’interesse pubblico”) può nominare un commissario ad acta.

Prevede ancora l’art. 14 terzo comma del decreto 29/1993 che “resta salvo il potere di annullamento ministeriale per motivi di legittimità”.

Si prevedono due fasce nell’ambito del ruolo unico della dirigenza delle amministrazioni pubbliche, e cioè i dirigenti di uffici dirigenziali generali (i cui compiti e poteri sono tratteggiati dall’art. 16 del decreto legislativo n.29 del 1993) ed i dirigenti, cui si riferisce l’art. 17 (anch’esso come il precedente modificato a seguito dell’adozione del decreto legislativo n.80 del 1998), con un complessivo ampliamento delle prerogative della dirigenza ed una corrispondente diminuzione dell’ambito di intervento dell’organo politico-amministrativo e con una conseguente espansione dell’area di responsabilità dirigenziale (ai sensi delle previsioni contenute nell’art. 21 del decreto legislativo n.29/1993).

Il ruolo unico dei dirigenti delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, - conformemente alle disposizioni di cui all’art. 23 del decreto legislativo 29/1993, sostituito dall’art. 15 del decreto legislativo 80/1993 - è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e la retribuzione del personale con qualifica dirigenziale viene determinata da contratti collettivi appositamente previsti per le aree dirigenziali. Viene prevista in modo distinto - dall’art. 25 bis dello stesso decreto legislativo - la qualifica dirigenziale per i capi di istituto preposti alle istituzioni scolastiche ed educative alle quali viene attribuita personalità giuridica ed autonomia ai sensi della legge delega n.59/1997 [22].

Riportiamo qui integralmente il secondo comma ed i commi successivi del richiamato articolo 25 bis, anche al fine di rilevare - sul versante della modifica delle funzioni nell’ambito del rapporto di lavoro e dell’ampio potere conferito ai dirigenti rispetto all’insieme del corpo docente - alcuni dei mutamenti introdotti attraverso l’istituzione della cosiddetta “autonomia scolastica”: “2. Il dirigente scolastico assicura la gestione unitaria dell’istituzione, ne ha la legale rappresentanza, è responsabile della gestione delle risorse finanziarie e strumentali e dei risultati del servizio [come debbano essere misurati questi risultati, per la verità, è questione che non emerge dal testo, e crediamo che si tratti di questione assai complessa, certo non riconducibile ad strumenti ed obiettivi matematici e quantitativi]. Nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici, spettano al dirigente scolastico autonomi poteri di direzione, di coordinamento e di valorizzazione delle risorse umane, In particolare il dirigente scolastico organizza l’attività scolastica secondo criteri di efficienza e di efficacia formative ed è titolare delle relazioni sindacali.

3. Nell’esercizio delle competenze di cui al comma 2 il dirigente scolastico promuove gli interventi per assicurare la qualità dei processi formativi e la collaborazione delle risorse culturali, professionali, sociali ed economiche del territorio, per l’esercizio della libertà di insegnamento, intesa anche come libertà di ricerca e innovazione metodologica e didattica, per l’esercizio della libertà di scelta educativa delle famiglie e per l’attuazione del diritto all’apprendimento da parte degli alunni.

4. Nell’ambito delle funzioni attribuite alle istituzioni scolastiche, spetta al dirigente l’adozione dei provvedimenti di gestione delle risorse e del personale.

5. Nello svolgimento delle proprie funzioni organizzative e amministrative il dirigente può avvalersi di docenti da lui individuati, ai quali possono essere delegati specifici compiti, ed è coadiuvato dal responsabile amministrativo, che sovrintende, con autonomia operativa, nell’ambito di direttive di massima impartite e degli obiettivi assegnati, ai servizi amministrativi ed ai servizi generali dell’istituzione scolastica, coordinando il relativo personale.

6. Il dirigente presenta periodicamente al consiglio di circolo o al consiglio di istituto motivata relazione sulla direzione e il coordinamento dell’attività formativa, organizzativa e amministrativa, al fine di garantire la più ampia informazione e un efficace raccordo per l’esercizio delle competenze degli organi dell’istituzione scolastica”.

Lo stesso decreto legislativo del 1993 detta norme per la dirigenza del Servizio sanitario nazionale e prevede che [23] “le regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche amministrazioni, nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano ai principi dell’art. 3 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle rispettive peculiarità. Gli enti pubblici non economici nazionali si adeguano, anche in deroga alle speciali disposizioni di legge che li disciplinano, adottando appositi regolamenti di organizzazione”.

Va considerato che il capo III del titolo II del decreto legislativo numero 29 del 1993- nell’ambito dei principi che lo informano e nello spirito che guida la complessiva ristrutturazione della pubblica amministrazione - detta norme specifiche per l’attuazione del principio di mobilità (ed in particolare con riferimento al passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse - art. 33 -, al passaggio di dipendenti per effetto di trasferimento di attività “svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture ad altri soggetti, pubblici o privati
 art. 34 -, alle eccedenze di personale ed alla mobilità collettiva - art. 35
 ed alla gestione del personale in disponibilità -art. 35 bis [24]) e per il reclutamento del personale, la cui assunzione “avviene con contratto individuale di lavoro” (art. 36).

Non è questo il luogo per richiamare le disposizioni su contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale [25], che pure segnano - anche attraverso l’istituzione delle r.s.u. - un momento qualificante della nuova normativa (specie a seguito dell’approvazione del decreto legislativo n.396/97 in attuazione della delega contenuta nella legge n.59 del 1997): sul punto e sulla specifica questione della rappresentanza e della rappresentatività sindacale si rimanda alle argomentazioni già sviluppate nei primi numeri della rivista. Anche in relazione a questa materia occorrerà però in seguito concentrare la nostra attenzione al fine di valutare l’impatto che su di essa potrà determinare la riforma costituzionale del marzo 2001.

Il rapporto di lavoro nel suo complesso è disciplinato (salvo il rinvio alla contrattazione collettivo) dal titolo IV del decreto legislativo n.29 del 1993 nel senso di un significativo ingresso di disposizioni di stampo privatistico sia pur temperate da previsioni specifiche (si pensi all’art. 57 sulla disciplina delle mansioni, che si discosta significativamente dai principi contenuti nell’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori).-----

L’attribuzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, delle controversie relative ai rapporti di pubblico impiego (prevista dagli articoli 68 e seguenti del decreto legislativo n.29 del 1993 significativamente motivati dal decreto legislativo n.80 del 1998), anche qui con significative peculiarità (si pensi alla particolare procedura - prevista dall’art. 68 bis - in ordine all’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, la validità e l’interpretazione dei contratti collettivi) chiude il cerchio dell’avvicinamento della sfera del lavoro pubblico e di quella del lavoro privato, quadro con il quale si viene a porre in relazione il doppio movimento del trasferimento delle funzioni dal centro alla periferia e dell’attribuzione ai privati della gestione dei pubblici servizi.

Trasferimento di funzioni e riorganizzazione dello Stato: il complesso dei decreti attuativi della “Bassanini”

8. Dedichiamo l’ultima parte di questo scritto ad una analisi, cui avevamo rinviato nella prima parte del nostro lavoro (comparsa sul precedente numero della rivista), di alcuni decreti legislativi: il decreto n.112 del 1998 relativo al conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed agli Enti Locali ed il decreto n.300 del 1999 sulla riforma dell’organizzazione del governo. Inoltre abbiamo preferito - rispetto alla strutturazione del lavoro indicata nel numero 3/2000 di Proteo - dedicare un paragrafo al decreto legislativo n.469 del 23 dicembre 1997 in tema di decentramento delle funzioni relative alla materia del mercato del lavoro, per un evidente raccordo (sia pur svolto in maniera assolutamente schematica e sintentica) con la complessiva materia del rapproto tra nuova articolazione delle funzioni amministrative e mondo del lavoro, fornendo al riguardo qualche ulteriore elemento di riflessione.

Ad una più attenta considerazione della collocazione sistematica delle questioni trattate in questa sede abbiamo ritenuto non utile - contrariamente a quanto annunciato nel corso della prima parte del lavoro - sottoporre all’attenzione del lettore il decreto legislativo n.419 del 29 ottobre 1999 relativo al “riordinamento del sistema degli enti pubblici nazionali” e il testo unico di recente approvazione sugli enti locali.

Con il decreto legislativo n.112 del 31 marzo 1998 si attua la delega prevista dal capo I della legge 59 del 1997 in ordine al conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali.

Si afferma nell’articolo 3, secondo comma, che “la generalità dei compiti e delle funzioni amministrative è attribuita ai comuni, alle province e alle comunità montane, in base ai principi di cui all’articolo 4, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59, secondo le loro dimensioni territoriali, associative ed organizzative, con esclusione delle solo funzioni che richiedono l’unitario esercizio a livello regionale. Le regioni [...attraverso apposita legge regionale] attuano il trasferimento delle funzioni nei confronti della generalità dei comuni. Al fine di favorire l’esercizio associato delle funzioni dei comuni di minore dimensione demografica, le regioni individuano livelli ottimali di esercizio delle stesse, concordandoli nelle sedi concertative di cui al comma 5 del presente articolo. [26] Nell’ambito della previsione regionale, i comuni esercitano le funzioni in forma associata, individuando autonomamente i soggetti, le forme e le metodologie, entro il termine temporale indicato dalla legislazione regionale. Decorso inutilmente il termine di cui sopra, la regione esercita il potere sostitutivo nelle forme stabilite dalla legge stessa. La legge regionale prevede altresì appositi strumenti di incentivazione per favorire l’esercizio associato delle funzioni”.

La legge regionale - ai sensi del terzo comma del medesimo articolo - “attribuisce agli enti locali le risorse umane, finanziarie, organizzative e strumentali in misura tale da garantire la congrua copertura degli oneri derivanti dall’esercizio delle funzioni e dei compiti trasferiti, nel rispetto dell’autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali”.

Se la regione non provvede nel tempo assegnatole si prevede il potere sostitutivo del Governo. Ed una serie di poteri sostitutivi è previsti dall’art. 5, i cui commi espressamente prevedono quanto segue: “1. Con riferimento alle funzioni e ai compiti spettanti alle regioni e agli enti locali, in caso di accertata inattività che comporti inadempimento agli obblighi derivanti dall’appartenenza alla Unione europea o pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali, il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro competente per materia, assegna all’ente inadempiente un congruo termine per provvedere.

2. Decorso inutilmente tale termine, il Consiglio dei Ministri, sentito il soggetto inadempiente, nomina un commissario che provvede in via sostitutiva”.

Per garantire l’effettivo esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti si prevede - all’art 7 del decreto legislativo - la decorrenza dell’esercizio delle funzioni e dei compiti “contestualmente all’effettivo trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, organizzative e strumentali” e la devoluzione a regioni ed enti locali di una quota delle risorse erariali per garantire la congrua copertura “degli oneri derivanti dall’esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti nel rispetto dell’autonomia politica e di programmazione degli enti”.

Si prevede altresì l’ “individuazione delle modalità e delle procedure di trasferimento, nonché dei criteri di ripartizione del personale”. Il comma quarto dello stesso articolo 7 stabilisce che “ferma restando l’autonomia normativa e organizzativa degli enti territoriali riceventi, al personale trasferito è comunque garantito il mantenimento della posizione retributiva già maturata. Il personale medesimo può optare per il mantenimento del trattamento previdenziale previdente”. Ed il comma 5 aggiunge: “Al personale inquadrato nei ruoli delle regioni, delle province, dei comuni e delle comunità montane, si applica la disciplina sul trattamento economico e stipendiale e sul salario accessorio prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro per il comparto regioni-autonomie locali” (fatta salva evidentemente la garanzia del mantenimento della posizione retributiva maturata).

Con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri - sentita la Conferenza unificata Stato, regioni, città ed autonomie locali - si provvede alla “definizione dei contingenti complessivi, per qualifica e profilo professionale, del personale necessario per l’esercizio delle funzioni amministrative conferite e del personale da trasferire” con conseguente quantificazione dei relativi oneri.

Il titolo II del decreto legislativo 112 del 1998 disciplina il conferimento alle regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti esercitati dallo Stato o da enti pubblici dipendenti dallo Stato “nel settore dello sviluppo economico”, ovvero artigianato, industria, energia, miniere e risorse geotermiche, ordinamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, fiere, mercati e commercio, turismo ed industria alberghiera, oltre ala materia riguardante agricoltura e foreste disciplinata dal decreto legislativo n.143 del 1997.

Con riferimento all’industria sono conservate allo Stato (art. 18 del decreto legislativo n.112 del 1998) diverse funzioni amministrative, relative talaltro a brevetti e proprietà industriale, definizione dei criteri generali per la tutela dei consumatori e degli utenti, industrie operanti nel settore della difesa militare (comprese “le funzioni concernenti l’autorizzazione alla fabbricazione, all’importazione e all’esportazione di armi da guerra”) fabbricazione e importazione di armi non da guerra e di materiali esplodenti, classificazione dei gas tossici, criteri generali su agevolazioni e sovvenzioni all’industria, incentivi per l’attività di ricerca, individuazione delle aree economicamente depresse, “il coordinamento, la programmazione e la vigilanza sul complesso dell’azione di intervento pubblico nelle aree economicamente depresse del territorio nazionale, la programmazione e il coordinamento delle grandi infrastrutture a carattere interregionale o di interesse nazionale”, coordinamento delle intese istituzionali di programma e dei connessi strumenti di programmazione negoziata, concessione di sovvenzioni nel settore della cinematografia.

Inoltre lo Stato (“senza pregiudizio delle attività concorrenti che possono svolgere le regioni”) continua a svolgere funzioni e compiti concernenti talaltro i crediti all’esportazione, “la partecipazione ad imprese e società miste, promosse o partecipate da imprese italiane; la promozione ed il sostegno finanziario, tecnico-economico ed organizzativo di iniziative di penetrazione commerciale, di investimento e di cooperazione commerciale ed industriale da parte di imprese italiane”, l’attività promozionale di rilievo nazionale.

Tutte le restanti funzioni - anche quelle concernenti l’attuazione di interventi dell’Unione europea - sono delegate alle regioni, salva l’attribuzione a province e camere di commercio.

Specifica l’articolo 19 del decreto legislativo n.112 del 1998 che “sono incluse fra le funzioni delegate alle regioni quelle inerenti alla concessione di agevolazioni, contributi, sovvenzioni, incentivi e benefici di qualsiasi genere all’industria, ivi compresi quelli per le piccole e medie imprese, per le aree ricompresse in programmi comunitari, per programmi di innovazione e trasferimento tecnologico, nonché quelli per singoli settori industriali, per l’incentivazione, per la cooperazione nel settore industriale, per il sostegno agli investimenti per impianti ed acquisto di macchine, per il sostegno allo sviluppo della commercializzazione e dell’internazionalizzazione delle imprese, per lo sviluppo dell’occupazione e dei servizi reali alle industrie. Alle funzioni delegate ineriscono anche l’accertamento di speciali qualità delle imprese, che siano richieste specificamente dalla legge ai fini della concessione di tali agevolazioni, contributi, sovvenzioni, incentivi e benefici. Alle funzioni delegate ineriscono, inoltre, gli adempimenti tecnici, amministrativi e di controllo per la concessione e l’erogazione delle agevolazioni alle attività produttive nelle aree individuate dallo Stato come economicamente depresse. Alle funzioni delegate ineriscono, infine, le determinazioni delle modalità di attuazione degli strumenti della programmazione negoziata, per quanto attiene alle relazioni tra regioni ed enti locali anche in ordine alle competenze che verranno affidate ai soggetti responsabili”.

Tutta l’operazione del trasferimento di funzioni amministrative in favore delle regioni e delle camere di commercio è accompagnata da una serie di misure definite dal decreto legislativo come “liberalizzazioni e semplificazioni”.

Ai comuni, ai sensi dell’art. 23 del decreto, sono attribuite “le funzioni amministrative concernenti la realizzazione, l’ampliamento, la cessazione, la riattivazione, la localizzazione e la rilocalizzazione di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie”. Lo stesso articolo prevede la creazione di sportelli unici per le attività produttive al fine del prioritario esercizio delle funzioni di assistenza all’impresa.

In materia di ricerca, produzione, trasporto e distribuzione di energia lo Stato conserva “le funzioni e i compiti concernenti l’elaborazione e la definizione degli obiettivi e delle linee della politica energetica nazionale, nonché l’adozione degli atti di indirizzo e coordinamento per una articolata programmazione energetica a livello regionale” [27].

Lo Stato mantiene alcune significative funzioni amministrative tra cui quelle concernenti la ricerca scientifica in campo energetico, la vigilanza sull’ENEA (Ente nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente), l’emanazione di norme tecniche relative alla realizzazione di elettrodotti.

Sono delegate alle regioni - salvo che non siano riservate allo Stato o che non siano attribuite agli enti locali - “le funzioni amministrative in tema di energia, ivi comprese quelle relative alle fonte rinnovabili, all’elettricità, all’energia nucleare, al petrolio ed al gas” (art. 30 del decreto).

L’art. 31 del decreto legislativo n. 112 del 1998 testualmente recita: “1. Sono attribuite agli enti locali, in conformità a quanto disposto dalle norme sul principio di adeguatezza, le funzioni amministrative in materia di controllo sul risparmio energetico e l’uso razionale dell’energia e le altre funzioni che siano previste dalla legislazione regionale.

2. Sono attribuite in particolare alle province, nell’ambito delle linee di indirizzo e di coordinamento previste dai piani energetici regionali, le seguenti funzioni:

a) la redazione e l’adozione di programmi di intervento per la promozione delle fonti rinnovabili e del risparmio energetico;

b) l’autorizzazione all’installazione ed all’esercizio degli impianti di produzione di energia;

c) il controllo sul rendimento energetico degli impianti termici

È importante al fine di comprendere (il che è anche lo scopo di questa esposizione, sia pur sommaria, delle attribuzioni conferite dal decreto legislativo n.112 del 1998) come a Costituzione invariata - ovvero prima delle modifiche approvate nel marzo 2001 e sulle quali dovrà esprimersi il referendum previsto dall’art. 138 della Costituzione - sia avvenuto il trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle regioni ed alle autonomie locali in una materia delicata e centrale quale quella relativa ai settori produttivi - ed anche al fine di avviare un ragionamento su quanto ulteriormente influirà in questa materia la riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione - un richiamo all’art. 47 del decreto, ed in particolare ai suoi primi due commi.-----

Essi prevedono: “1. Nelle materie oggetto di trasferimento di funzioni ai sensi del presente titolo, è conservata allo Stato la definizione degli indirizzi generali delle politiche economiche e delle politiche di settore.

2. Sono conservate, altresì, allo Stato le funzioni amministrative concernenti la definizione, nei limiti della normativa comunitaria, di norme tecniche uniformi e standard di qualità per prodotti e servizi, di caratteristiche merceologiche dei prodotti, ivi compresi quelli alimentari e dei servizi, nonché le condizioni generali di sicurezza negli impianti e nelle produzioni, ivi comprese le strutture ricettive”.

Una analisi simile a quella sopra prospettata andrebbe compiuta con riferimento alla materia trattata nel titolo III del decreto legislativo 112 del 1998, ovvero “territorio, ambiente ed infrastrutture”, e cioè il conferimento a regioni ed enti locali di funzioni e compiti amministrativi in tema di territorio e urbanistica, protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, risorse idriche e difesa del suolo, opere pubbliche, viabilità, trasporti e protezione civile.

Ad esempio con riguardo alle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale l’art. 52 del decreto afferma che “hanno rilievo nazionale i compiti relativi alla identificazione delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali ed ambientali, alla difesa del suolo e alla articolazione territoriale delle reti infrastrutturali e delle opere di competenza statale, nonché al sistema delle città e delle aree metropolitane, anche ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno e delle aree depresse del paese” e che spettano allo Stato i rapporti con gli organismi internazionali e il coordinamento con l’Unione europea in materia di politiche urbane e di assetto territoriale.

Simile schema di ripartizione delle competenze amministrative
 con il mantenimento di un numero definito e ristretto di funzioni in favore dello Stato - è quello relativo ai servizi alla persona e alla comunità.

Il titolo IV del decreto è articolato in diversi capi attinenti la tutela della salute (salute umana e sanità veterinaria), i servizi sociali, l’istruzione scolastica, la formazione professionale, i beni e le attività culturali, lo spettacolo, lo sport. Il titolo V è invece interamente dedicata a polizia amministrativa regionale e locale e al regime autorizzatorio.

Sarebbe utile - ma non è questa la sede per un approfondimento di tal fatta - ripercorrere con riferimento alle diverse materie il concreto nuovo dislocarsi dei poteri e delle competenze, coglierne gli elementi peculiari e anche le incongruenze, evidenziare il tasso di regolamentazione complessiva che accompagna il trasferimento delle funzioni. È un compito che ci riserviamo di svolgere in futuro enucleando qualcuna tra le materie indicate; ma è sicuramente utile conoscere prima gli esiti del processo di riforma costituzionale che abbiamo descritto nelle due parti di questo dossier.

9. Peraltro occorre ricordare che con decreto legislativo n.469 del 23 dicembre 1997 si è deliberato il conferimento alle regioni e agli enti locali di funzioni e compiti in materia di mercato del lavoro (in attuazione delle previsioni contenute nell’art. 1 della legge n.59 del 1997): più precisamente si tratta delle funzioni amministrative relative al collocamento e alle politiche attive del lavoro trasferite alle regioni “nell’ambito di un ruolo generale di indirizzo, promozione e coordinamento dello Stato”.

Restano alla competenza dello Stato le seguenti funzioni (indicate dall’art. 1, comma 3, del decreto legislativo n.469 del 1997): “a) vigilanza in materia di lavoro, dei flussi di entrata dei lavoratori non appartenenti all’Unione europea, nonché procedimenti di autorizzazione per attività lavorativa all’estero; b) conciliazione delle controversie di lavoro individuali e plurime; c) risoluzione delle controversie collettive di rilevanza pluriregionale; d) conduzione coordinata ed integrata del Sistema informatico lavoro [...]; e) raccordo congli organismi internazionali e coordinamento dei rapporti con l’Unione europea”.

Invece sono conferiti alla regione funzioni e compiti relativi al collocamento ed alle politiche attive del lavoro, ed in particolare sul primo versante (art. 2, comma 1, del D.L.vo 460/1997) collocamento ordinario, agricolo, dello spettacolo,obbligatorio,dei lavoratori non appartenenti all’Unione Europea, dei lavoratori a domicilio, dei lavoratori domestici, “avviamento a selezione negli enti pubblici e nella pubblica amministrazione, ad eccezione di quello riguardante le amministrazioni centrali dello Stato e gli uffici centrali degli enti pubblici”, “preselezione ed incontro tra domanda e offerta di lavoro”, “iniziative volte ad incrementare l’occupazione e ad incentivare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro anche con riferimento all’occupazione femminile”.

Va evidenziato che da anni ormai (a partire quantomeno dalla legge n.56 del 1987) la funzione del collocamento pubblico si è andata progressivamente svuotando, in particolare attraverso il quasi totale superamento dell’istituto della chiamata numerica, sicché il ruolo del nuovo collocamento (decentrato) viene di fatto ridotto ad alcune specifiche aree di operatività ed ad una generale funzione certificativa.

Con riferimento alle funzioni ed ai compiti in materia di politica attiva del lavoro il secondo comma dell’art. 2 del decreto legislativo n.469 del 1997 il conferimento alle regioni riguarda in particolare: “a) programmazione e coordinamento di iniziative volte ad incrementare l’occupazione e ad incentivare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro anche con riferimento all’occupazione femminile; b) collaborazione alla elaborazione di progetti relativi all’occupazione di soggetti tossicodipendenti ed ex detenuti; c) programmazione e coordinamento di iniziative volte a favorire l’occupazione degli iscritti delle liste di collocamento con particolare riferimento ai soggetti destinatari di riserva di cui all’art. 25 della legge 23 luglio 1991, n.223 [28]

; d) programmazione e coordinamento delle iniziative finalizzate al reimpiego dei lavoratori posti in mobilità e all’inserimento lavorativo di categorie svantaggiate; e) indirizzo, programmazione e verifica dei tirocini formativi e di orientamento e borse di lavoro; f) indirizzo, programmazione e verifica dei lavori socialmente utili ai sensi delle normative in materia; g) compilazione e tenuta della lista di mobilità dei lavoratori previa analisi tecnica”.

Si prevede che con legge regionale vengano disciplinati organizzazione amministrativa e modalità di esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti in materia, “anche al fine di assicurare l’integrazione tra i servizi per l’impiego, le politiche attive del lavoro e le politiche formative” (art. 4 del decreto 469/1997).

I criteri cui deve attenersi la legislazione regionale sono l’attribuzione alle province delle funzioni e dei compiti relativi al collocamento, la costituzione di una commissione regionale “quale sede concertativa di progettazione, proposta, valutazione e verifica rispetto alle linee programmatiche e alle politiche del lavoro di competenza regionale” (con la presenza “delle parti sociali sulla base della rappresentatività determinata secondo i criteri previsti dall’ordinamento”), la costituzione di un organismo istituzionale per rendere effettiva l’integrazione suddetta tra servizi per l’impiego, politiche attive del lavoro e politiche formative (con la presenza di rappresentanti della regione, delle province e degli altri enti locali), affidamento delle funzioni di assistenza tecnica e monitoraggio delle politiche attive “ad apposita struttura regionale dotata di personalità giuridica” (Agenzia lavoro secondo la terminologia utilizzata per il Lazio dalla legge regionale n.38 del 1998), creazione per la gestione dei compiti affidati alle province di strutture denominate “centri per l’impiego”.

Vengono soppresse la Commissione regionale e la commissione provinciale per l’impiego ed altre commissioni per il lavoro a domicilio, per il lavoro domestico, per la manodopera agricola e per il collocamento obbligatorio.

A tale decentramento di funzioni corrisponde naturalmente una ripartizione del personale appartenente ai ruoli del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, affidata alla decretazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, con mantenimento per il personale trasferito della posizione retributiva già maturata e con soppressione di alcuni uffici periferici del Ministero del lavoro tra cui le sezioni circoscrizionali per l’impiego e per il collocamento in agricoltura.

L’art. 10 del decreto prevede inoltre le modalità necessarie per ottenere - ai sensi di quanto previsto dalla legge n.59 del 1997
 “l’autorizzazione a svolgere attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro a idonee strutture organizzative” (art. 10 del decreto 469 del 1997) che può essere svolta da imprese o gruppi di imprese, anche società cooperative.

Decentramento da un lato, affidamento di funzioni pubbliche a soggetti esterni alla pubblica amministrazione dall’altro, anche nel campo delicatissimo delle attività di collocamento della manodopera: il fatto è ricorrente, il segno complessivo della riforma (pre-modifica costituzionale) è evidente. Il tutto - anche in questo caso - è accompagnato da norme per la semplificazione del procedimento (le regole con riferimento al collocamento ordinario dei lavoratori sono state dettate con decreto del Presidente della Repubblica 7 luglio 2000 n. 442.

10. Il decreto legislativo n.300 del 30 luglio 1999 - a seguito delle deleghe contenute nella legge 59 e nella legge 127 del 1997, nella legge 191 del 1998 e nella legge 50 del 1999 - “detta norme per la razionalizzazione, il riordino, la soppressione e la fusione di ministeri, l’istituzione di agenzie, il riordino dell’amministrazione periferica dello Stato”, facendo presente (art. 1) che “in nessun caso le norme del presente decreto legislativo possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione allo Stato, alle sue amministrazioni o ad enti pubblici nazionali, di funzioni e compiti trasferiti, delegati o comunque attribuiti alle regioni, agli enti locali e alle autonomie funzionali” in attuazione della legge 59 del 1997.

Si prevede - a partire dalla prossima legislatura - la presenza di soli dodici ministeri (Ministero degli affari esteri, dell’interno, della giustizia, della difesa, dell’economia e delle finanze, delle attività produttive, delle politiche agricole e forestali, dell’ambiente e della tutela del territorio, delle infrastrutture e dei trasporti, ed ancora l’unico Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, l’unico Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca ed il Ministero per i beni e le attività culturali). Quindi una sostanziosa riduzione del numero dei Ministeri rispetto a quelli attualmente esistenti.

Le strutture di primo livello in alcuni Ministeri assumono il nome di dipartimenti ed in altri (difesa, affari esteri, beni ed attività culturali) di direzioni generali.

Nel titolo II del decreto si prevede la costituzione di agenzie che - ai sensi dell’art. 8 - “sono strutture che, secondo le previsioni del presente decreto legislativo, svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale, in atto esercitate da ministeri ed enti pubblici. Esse operano al servizio delle amministrazioni pubbliche, comprese anche quelle regionali e locali”.

Esse sono dotate di piena autonomia e soggette al controllo della Corte dei Conti. Le agenzie sono sottoposte ai poteri di indirizzo e vigilanza del ministro competente.

Ampio potere viene attribuito al direttore generale dell’agenzia sulla base di statuti - i cui criteri direttivi e principi sono previsti dal decreto - adottati con regolamento, con regolazione su base convenzionale dei rapporti di collaborazione e consulenza con altre pubbliche amministrazioni e con “determinazione di una organizzazione dell’agenzia rispondente alle esigenze di speditezza, efficienza ed efficacia dell’adozione amministrativa”.

Si provvede alle dotazioni organiche delle agenzie mediante inquadramento del personale trasferito dai ministeri e dagli enti pubblici e mediante procedure di mobilità, con mantenimento al personale inquadrato nell’organico dell’agenzia del trattamento giuridico ed economico spettante presso gli enti, le amministrazioni e gli organismi di provenienza, sino alla stipulazione del primo contratto integrativo collettivo di ciascuna agenzia.

Il III titolo del decreto legislativo che stiamo esaminando è dedicato all’amministrazione periferica dello Stato, e prevede innanzitutto la trasformazione delle prefetture in uffici territoriali del governo, “titolari di tutte le attribuzioni dell’amministrazione periferica dello Stato non espressamente conferite ad altri uffici” (art. 11).

Le agenzie prevista dal decreto legislativo sono l’Agenzia Industre Difesa (nell’ambito delle competenze prima esercitate dal Ministero della Difesa), l’Agenzia per le normative e controlli tecnici e l’Agenzia per la proprietà industriale (nell’ambito delle competenze delle amministrazioni che confluiscono nel Ministero delle attività produttive, ovvero quelle precedentemente assegnate al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, al Ministero del commercio con l’estero, al Ministero delle comunicazioni ed al dipartimento del turismo nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri), l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (cui si attribuiscono competenze del Ministero per l’ambiente e della soppressa A.N.P.A.), l’Agenzia dei trasporti terrestri e delle infrastrutture (che rientra nell’orbita del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti), nonché le agenzie finanziarie (un intero capo del decreto è dedicato alla riforma del Ministero delle finanze e dell’amministrazione fiscale) l’Agenzia di protezione civile e l’Agenzia per la formazione e l’istruzione professionale.

Le agenzie fiscali (articoli 61 e seguenti del decreto legislativo) sono l’Agenzia delle Entrate, l’Agenzia delle dogane, l’Agenzia del territorio, l’Agenzia del demanio.

Per ciò che concerne il trattamento del personale si prevede la definizione di un comparto di contrattazione collettiva per le agenzie fiscali ed un livello di contrattazione integrativa per ciascuna agenzia.

All’agenzia di protezione civile (art. 79) “sono trasferite le funzioni ed i compiti tecnico-operativi e scientifici in materia di protezione civile svolti dalla direzione generale della protezione civile e dei servizi antincendi del ministero dell’interno, dal dipartimento della protezione civile, istituito presso la presidenza del consiglio dei ministri, e del servizio sismico nazionale”.

Ed ancora: “Il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, per le attività di protezione civile, dipende funzionalmente dall’agenzia.

L’attività dell’agenzia è disciplinata, per quanto non previsto dal presente decreto legislativo, dalle norme del codice civile

La vigilanza sull’agenzia è affidata al ministro dell’interno, che esercita rispetto alla attività della stessa poteri di indirizzo.

All’Agenzia per la formazione e l’istruzione professionale vengono trasferiti i compiti esercitati in materia dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale e dal Ministero della pubblica istruzione.


[1] Avverso tale referendum peraltro Progetto Diritti ed altre associazioni hanno promosso un ricorso avanti al Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia.

[2] Tenutosi a Roma il 2.4.2001 e di cui da notizia un articolo del Manifesto del 3.4.2001.

[3] Si tratta - secondo quanto indicato dall’articolo del Manifesto di cui alla nota 2 - di D’Alema, Bassanini e del Ministro Loiero.

[4] Riforma della quale si è ampiamente trattato nella prima parte di questo dossier (Proteo 3, 2000 - pagine 38 e seguenti).

[5] Regioni a statuto speciale - ai sensi dell’art. 116 della Costituzione - sono la Valle d’Aosta, la Sicilia, la Sardegna, il Trentino Alto Adige ed il Friuli Venezia Giulia, cui “sono attribuite forme e condizioni speciali di autonomia secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali”.

[6] Proteo 3/2000, pag. 40.

[7] Si veda sul punto il ragionamento contenuto nell’articolo “Tre percorsi, un obiettivo” di A. Salerni, in Proteo n. 0 dicembre 1997, pagg. 36 e seguenti.

[8] In tal senso si colloca l’iniziativa referendaria promossa dalla Regione Lombardia.

[9] Giuseppe Ugo Rescigno “Federalismo conflittuale - La riforma da riformare” in La rivista del manifesto, numero 16 aprile 2001, pag.16.

[10] G.U. Rescigno, ibidem.

[11] Ancora G.U. Rescigno nello scritto richiamato, pag. 17.

[12] A pagina 18.

[13] Secondo comma, lettera p.

[14] Indicate nel terzo comma dell’art. 117.

[i] “The Federal Business Revolution” Parte prima: i percorsi attuativi della riforma della Pubblica Amministrazione in Proteo 3/2000, pagine 11 e seguenti.

[15] Art. 117, secondo comma, lettera g) del testo di modifica costituzionale.

[16] Art. 1, sesto comma, nuovo testo del titolo V della parte seconda della costituzione.

[17] Riportiamo più avanti il testo del comma richiamato.

[18] Recita l’art. 49, comma 2, del decreto legislativo n.29/1993: “Le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, parità di trattamento contrattuale e comunque trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi.

[19] Ampiamente richiamata nell’articolo citato di A.Salerni sul numero di Proteo 3/2000, prima parte del presente dossier.

[20] La versione precedente del comma era la seguente: “Ai dirigenti spetta la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo. Essi sono responsabili della gestione e dei ralativi risultati”.

[21] Sostituito dall’art. 9 del decreto legislativo n.80 del 1998.

[22] Della legge n.59 del 1997 (la cosiddetta legge Bassanini) si è ampiamente trattato nel precedente numero della rivista.

[23] Primo comma dell’art. 27bis introdotto con il decreto legislativo n.80 del 1998.

[24] Tutti gli articoli citati sono stati sostituiti o introdotti con l’adozione del decreto legislativo n.80 del 1998, così come il successivo art. 36.

[25] Contenute nel titolo III del decreto legislativo n.29 del 1993.

[26] Il comma 5 dell’art. 3 stabilisce che “le regioni, nell’ambito della propria autonomia legislativa, prevedono strumenti e procedure di raccordo e concertazione, anche permanenti, che diano luogo a forme di cooperazione strutturali e funzionali, al fine di consentire la collaborazione e l’azione coordinata fra regioni ed enti locali nell’ambito delle rispettive competenze”.

[27] Art. 29, primo comma, del decreto legislativo n. 112 del 1998.

[28] Si tratta in particolare dei soggetti disoccupati da lungo tempo.