Eurobang. La sfida del polo europeo nella competizione globale: inchiesta su lavoro e capitale”, è il titolo del più recente libro di Rita Martufi e Luciano Vasapollo (Media Print, Roma 2000, con prefazione di Mauro Casadio).
Il testo fa il punto sui temi della globalizzazione e, conseguentemente, sulle prospettive del “movimento antagonista”; le analisi in esso contenute si basano su dati, riflessioni empiriche ed economiche importanti che consentono di mettere a fuoco, fra gli altri, tre aspetti.
Il primo. La globalizzazione è “riuscita” solo a livello finanziario e speculativo e la prevalenza dei blocchi (che, certamente non sono quelli della guerra fredda, ma come si vedrà, non se ne discostano nemmeno un gran che), rappresenta la caratteristica dell’economia e della politica attuali.
Il secondo. L’oppressione del lavoro e, più in generale, delle risorse umane intese in senso non solo produttivo (vivaddio!), ma anche degli stessi interessi allo sviluppo reale dell’economia, non derivano tanto dalla competitività e dai mercati, bensì dal ruolo giocato dal capitale nella sua forma più efficiente - almeno in apparenza - quella speculativo-finanziaria (con tutte le conseguenze del caso).
Il terzo. I rapporti tra l’area del dollaro o, meglio, tra il dollaro stesso e l’euro.
Tornando al primo aspetto, Martufi e Vasapollo sostengono che la realtà internazionale si caratterizza, principalmente, non per la globalizzazione, ma per la divisione in poli geoeconomici: USA - Efta, Europa e Giappone.
Degli altri “poli”, come la Cina, non si offrono ulteriori approfondimenti; così come è possibile pensare che, dopo la caduta del muro di Berlino, la federazione russa sia “caduta” sotto l’influenza occidentale: un modello di capitalismo selvaggio che ricorda l’America del liberismo senza regole, ma che è stato semplicemente un disastro da qualsiasi ragionevole punto di vista. Tuttavia, è più probabile ipotizzare una paneuropeizzazione dell’area di ex influenza “sovietica”. Fino a qualche tempo fa si sarebbe potuto dire, forse sgradevolmente, pangermanizzazione; ed è, perciò, un progresso che l’Europa dell’euro abbia consentito una diluizione di certe pretese. Molto correttamente, Martufi e Vasapollo riconducono tale circostanza all’emergere di un modello europeo di tipo neoconservatore, moderatamente restrittivo sul fronte delle politiche monetario e, tuttavia, capace di comprimere il salario sociale per consentire uno sviluppo capitalistico più spinto.
Ora, la competizione tra poli geoeconomici presuppone che vi siano modelli sociali comportanti qualche differenza l’uno con l’altro.
Il libro - che è stato stampato nell’ottobre del 2000 - risulta buon profeta circa il destino del sub-modello nord-americano, connotato (a differenza di quello europeo) da notevole instabilità.
Negli USA, infatti, l’intreccio tra economia e finanza (e, così entriamo nel secondo aspetto del libro di Martufi e Vasapollo), coinvolge non solo i nefasti condizionamenti delle borse nei confronti della produzione reale, ma anche le famiglie e le banche. Per cercare di capire meglio tali nessi, forse, occorre soffermarsi di più sul modello nord-americano (per poi tornare a parlare convenientemente di quello europeo a cui sono dedicati i maggiori approfondimenti di “Eurobang”).
Negli USA l’aumento di posti di lavoro, verificatosi durante la gestione Clinton, si è accompagnato - come è noto - ad una crescente flessibilizzazione occupazionale che significa soprattutto una riduzione sensibile dei salari (ma in USA la flessibilizzazione esiste a fronte di livelli dell’occupazione significativi).
La crescente flessibilizzazione negli USA, però, è stata accompagnata da due fenomeni: a) il rafforzamento del dollaro che consente di mantenere basso il costo della sopravvivenza della forza lavoro in termini di beni di largo consumo di importazione; b) la tenuta del livello dei consumi delle famiglie (che hanno subito la crescente flessibilizzazione) attraverso l’indebitamento bancario (le banche non hanno adeguato il livello dei mutui alla riduzione di reddito dei clienti anche perché una parte di questi mutui, a basso tasso di interesse, aveva preso la via degli investimenti in borsa che - fino a circa 6 mesi fa - davano enormi rendimenti, utilizzati per finanziare quei consumi delle famiglie che, diversamente, sarebbero risultati tagliati dalla destinazione di parte dei mutui stessi alla borsa).
Ora tale modello appare vacillare perché - a fronte del calo dei rendimenti speculativi in borsa - ci sarà il taglio dei redditi delle famiglie e, conseguentemente, dei consumi; siccome il nesso tra consumi e profitti è chiaro agli economisti ed agli operatori, è difficile che gli USA escano dall’attuale situazione.
Paradossalmente, inoltre, la politica ultraliberistica di Bush peggiorerà la situazione. Infatti, tale politica prevede un taglio delle tasse che - verosimilmente - significherà un aumento consistente del reddito del 10-20% della popolazione la cui propensione al consumo influisce poco sulla domanda aggregata (di questi due decili della popolazione americana, invece, - che detiene quasi tutta la ricchezza mobile - sono importanti le decisioni di investimento, ma dette decisioni sono influenzate, a loro volta, dalle prospettive di profitto, cioè dal livello dei consumi - delle vendite - riguardante il restante 80% della popolazione); mentre gli effetti della restituzione di tasse architettata da Bush determinerà per il 40-60% della popolazione un beneficio di circa 100 dollari pro-capite all’anno, cioè insignificante. Ma la politica di Bush prevede (e sta già effettivamente e tragicamente praticando) tagli allo stato sociale e, quindi, comporterà un peggioramento nelle condizioni dei poveri, un aumento del numero degli stessi, lo storno da consumi a spese sociali (specie sanitarie) per quasi la metà della popolazione: tutte circostanze che non consentono un miglioramento delle prospettive dei consumi, salvo un ulteriore aumento dell’indebitamento delle banche che segna di quanto non si ridurrà l’instabilità insita nell’attuale sistema economico americano che, oggi, giova ricordarlo?, si basa solo sulla posizione del dollaro. Dalla sua forza e dalla sua domanda (ottenute anche attraverso egemonie non solo strettamente economiche), dipende il futuro della stabilità globale, salvo ritenere che l’area dell’euro potrà rivelarsi un’isola felice non solo a livello valutario. Ma è proprio l’analisi di Martufi e Vasapollo a negarlo quando essa riconosce che l’unico ambito globalizzato è quello finanziario.
Dopo il varo dell’euro, molti paesi dell’area del dollaro hanno preferito abbandonare la propria moneta e denominarsi in dollari; così gli USA possono esportare la propria instabilità e, nella misura in cui riusciranno a risultare appetibili per gli investitori finanziari della loro stessa area (ciò riguarderebbe, quindi, le famiglie ricche straniere), è possibile che una crisi devastante sia evitata. Ma un tale modello presuppone bassi salari e arricchimento per pochi: non ostante ciò che si pensa, in genere, nel mondo degli “antagonisti”, tale circostanza non è compatibile con la sopravvivenza del capitalismo.
In Europa, invece, la politica di bassi salari e ridimensionamento della spesa pubblica sembra accompagnarsi a comportamenti più accorti e prudenti delle banche e delle altre istituzioni finanziarie.
Ma anche qui, con Rita Martufi e Luciano Vasapollo, c’è da chiedersi: dove poggia la stabilità del sistema? La concorrenza e i mercati, infatti, sarebbero soddisfatti dalla regola di base dell’impresa: che il fatturato superi il costo in modo di generare un profitto (keynesianamente tale profitto, espresso in percentuale dell’investimento, non dovrebbe risultare inferiore al tasso di interesse; e, se così fosse, con bassi tassi di interesse, gli investimenti produttivi dovrebbero risultare consistenti ed il livello dell’occupazione e dei salari soddisfacente). Ma l’economia attuale non vede più il profitto come risultato finale del ciclo del prodotto spettante al proprietario, ma come variabile indipendente, decisa all’inizio del ciclo stesso e imposta al management, a qualunque costo.
Sicché, non le regole dei mercati e della concorrenza determinano i livelli dell’occupazione produttiva e dei salari, ma l’agganciamento dei redditi dei managers agli andamenti della borsa.
Tuttavia, sia l’esperienza, sia la teoria economica (almeno per quegli economisti che non intendono la propria professione unicamente come la corsa a spiegare le ragioni dei loro pagatori) indicano che, nel complesso, non sono possibili né profitti infinitamente crescenti, né saggi di profitto stabilmente superiori a quelli dell’interesse (condizione, beninteso, possibile in quei settori e in quelle situazioni definibili come innovative, il 10 o il 20% del totale, a seconda delle epoche storiche).
Ne consegue un conflitto ben più grosso, oggi, di quanto non sia stato fino ad una ventina di anni fa, tra valorizzazione del capitale e valorizzazione del fattore umano (lavoro inteso anche nella forma della capacità imprenditiva): un conflitto tra sviluppo economico e tendenze finanziarie che non può essere risolto senza un trasferimento di risorse dalla valorizzazione speculativa del capitale alla spesa sociale.
Ma un tale trasferimento non è congegnabile nell’ambito di un sistema capitalistico come l’attuale, salvo introdurre un marchingegno di tassazione dei guadagni speculativi (la cosiddetta Tobin tax o qualcosa del genere) che, però, qui sta il punto, finirebbe per impedire il funzionamento del sistema più che favorire un semplice trasferimento di risorse; già, proprio quello che vorremmo.