Ai primi del 2000 Arnd Morkel (vedi articolo), professore emerito di Scienza della politica, e Rettore dell’Università di Treviri per 12 anni, pubblica in Germania un libro dal titolo difficile da tradurre: Die Universität muß sich wehren! [1]: Salvare l’Università! Bisogna che l’Università si difenda, che salvi sé stessa!
Quest’opera viene da lontano. L’Autore stesso aveva pubblicato, dall’ormai lontano 1976, una trentina di saggi e studi sull’Università, la ricerca, il rapporto tra scienze “naturali” e “umanistiche”; contribuendo alla discussione seguita in Germania alle frettolose innovazioni apportate dopo la c.d. “rivolta studentesca” del 1968 e seguenti. Ma riportandola a un quadro più ampio: la funzione della scienza nella vita collettiva, le possibilità di rinnovamento dell’Università come luogo della ricerca e della produzione di sapere, da una parte, dall’altra e insieme, di formazione non solo intellettuale, ma umana e complessiva [“Bildung”], nella continuità delle generazioni.
Il libro è diviso in tre parti. La prima, e più breve, riassume la storia tedesca di qualcosa che conosciamo anche in Italia: l’espansione formale, burocratica e demagogica, della popolazione studentesca, senza una vera riflessione sulle finalità del far passare nell’Università da un quarto a un terzo della popolazione giovanile, perciò senza riflessione sul rapporto tra formazione, scienza, società, senza un obiettivo societario.
Si è prodotta un situazione insostenibile, non già per singoli e gruppi (“corporativi”, diremmo in Italia), ma per la società tutt’intera: manca infatti un progetto di scuola, di formazione, quindi di società, che tenga conto del ruolo che ricerca della verità e conoscenza scientifica hanno nella vita moderna. Il rinnovamento dell’Università (è il sottitolo del libro) può venire solo dalla autoriflessione dell’Università stessa, nella misura in cui essa è ancora sede di ricerca e di formazione umana, non già di “addestramento” strumentale e privilegiario: capace perciò di ripensare il suo ruolo nella vita complessiva del corpo sociale, mentre né “i politici” né “l’economia” si pongono il problema di questa vita, cioè quello (aggiungiamo noi), di una cittadinanza vera e di una democrazia non finta.
La seconda parte è divisa in nove capitoli, di cui ripubblichiamo qui (in un apposito box) la sintesi presentata nel 1999 per la Wissenschaftliche Buchgemeinschaft di Darmstadt.
L’ultima, più breve, è dubitativa: “C’è speranza?”. Per la Germania, A. Morkel ripone le speranze nell’Università stessa, in quanto sia capace di “far comprendere che la ricerca della verità e la formazione disinteressata è utile, anzi la più utile alla comunità”: compito non impossibile, forse, dove un dibattito civico serio, la presenza di vedute a lungo termine nella borghesia colta, di senso dello Stato non nei “politici” (di cui A. Morkel dispera affatto), ma nei reponsabili amministrativi, tecnico-scientifici, culturali a tutti i livelli e nei settori più vari della vita sociale, rendano udibile la voce che dall’Università, non ancora colonizzata del tutto, può levarsi, e si leva, almeno in alcuni Paesi. [2]
Ma perché l’Università deve difendersi? Essa è sotto attacco? E da parte di chi? Per quali scopi?
L’Università è sotto attacco. Non singole strutture, ordinamenti, gruppi di persone docenti o discenti sono “sotto attacco”. Certo, strutture, ordinamenti, funzioni vengono modificate, dall’alto e in peggio. Le cose vanno in fretta, e nel 2001 è diventato palese, se guardiamo all’Italia, quello che significano “autonomia di bilancio” degli Atenei, “obiettivi formativi professionalizzanti”, curricola prefigurati, “lauree brevi”, “velocizzazione” dei corsi ecc.
Nessuno afferma, né in Germania né in Italia, che “prima” tutto andasse bene! Ma l’essenziale sta altrove. L’attacco immediato, la tendenza alla trasformazione dell’Università in un servizio non pagato al c.d. “mercato”, comune alla Germania e all’Italia ed altri Paesi con modalità diversificate, è la manifestazione di un processo di fondo, più antico, che riguarda la società intera; e che era cominciato da tempo anche dentro l’ Università stessa, minandone lo spirito e la forma di azione, che non può essere quella di un “conglomerato poco omogeneo di corsi”, più o meno “professionalizzanti”, ma quello di una comunità attiva di ricerca della verità nelle e attraverso le scienze, tutte le scienze, e “umanistiche” e “naturali”. È il ruolo, la funzione possibile di questa attività, della ricerca del vero, per tutta la collettività sociale, che viene messo in forse, e - non si può escluderlo - per un periodo non breve.
Se guardiamo all’Italia, l’Università viene trasformata:
- dal lato della “preparazione dei giovani”, in largitrice di servizi non pagati alle imprese, sotto l’egida dei “curricola professionalizzanti” sempre e dovunque, che svuota la coerenza scientifica dei corsi d’insegnamento e, soprattutto, dello studio e della autoformazione dei giovani stessi; questo porta de facto (vedi il c.d. “3+2”, etc.) a dispensare a molti “titoli” di facile acquisizione, che hanno carattere di distinzione sociale come il vestito “firmato”, e non molto maggior valore; e a fornire, a pochi, un primo anello di carriera e denaro, di cui la qualificazione conoscitiva (“competenze”) è essenzialmente strumento ;
- dal lato dell’attività dell’Università stessa (e quindi della sua strutturazione interna) in campo di colonizzazione per iniziative imprenditoriali (cui già ora taluni Atenei partecipano, sottoscrivendo in partenza quote di capitale): cosicché l’attività di ricerca diventa inevitabilmente preparazione e partecipazione a singoli progetti, la cui logica immanente è quella del profitto specifico, con brevettazione privata di risultati della ricerca, condotta negli Istituti universitari pubblici (o già semi-pubblici?) - Qui, in sostanza, gli Atenei diventano, sotto l’insegna della “autonomia” finanziaria, carrozzoni privato-pubblici, dove i mezzi, tuttora di gran lunga preponderanti, derivanti dal bilancio dello Stato, vengono gestiti per interessi particolari, non solo “del profitto” e capitalistici in generale, ma anche e senz’altro di arricchimento personale.
L’entrata massiccia di questo motivo nelle vecchie vene dell’istituto universitario darà nuova linfa a tutto l’organismo! - affermano i suoi sostenitori. Forse. Ma è facile vedere che sarà un organismo diverso: quello dell’Università-merce, campo di tutte le manovre di potere-per-arricchirsi. (E non a caso già ora ai circuiti istituzionali, consigli di Facoltà etc., se ne sovrappone in alcuni Atenei un altro, informale e segreto, che “prepara” tutte le decisioni nell’ombra).
Tutto questo è ormai palese, dentro l‘Università italiana. Protestare in nome dei principi repubblicani di libertà della scienza, della cultura aperta a tutti, del carattere essenzialmente pubblico del sapere e di ogni sapere, sia “scientifico” che “umanistico” - è giusto e doveroso. Ma non basta. Bisogna comprendere il processo in corso. E il libro di Arnd Morkel aiuta a comprenderlo, proprio perché pone la questione sul terreno più generale. È il terreno della “idea dell’Università”, del suo senso nella vita associata. Può sembrare, al lettore affrettato, un terreno “idealistico”. Ma non è così. Che il profitto capitalistico sia dominante, oggi, è davvero la scoperta dell’acqua calda. Ripeterlo di fronte a ogni problema reale della vita collettiva non serve a capire quel problema concreto. Diventa una giaculatoria, e il critico “materialista” dell’idealismo dovrebbe almeno sapere che le giaculatorie non danno fastidio ai padroni del vapore - anzi, talvolta, sono loro utili.
2. L’Università è, di fatto, sotto attacco. E l’attacco riguarda l’Università come luogo della ricerca della verità. Ricerca, non “possesso”. La verità non può essere posseduta, mai. Ma la sua ricerca è critica infinita, e dunque discussione e ridefinizione, sempre di nuovo nel tempo, non solo delle singole “discipline” o “materie”, e dei loro parziali e temporanei assetti metodici, ma anche delle concezioni del mondo, cioè della vita associata degli uomini, in presenza nella società. Le quali ultime l’Università non può ospitare come tali (facendolo, si identificherebbe con la vita politica), ma può e deve fare oggetto suo, cioè di ricerca critica dei loro presupposti concettuali e conseguenze teoriche e pratiche (offrendo così un servizio inestimabile, e che essa sola può dare, alla società tutt’intera).
Ricerca della verità, non “possesso”. La verità è un compito infinito, in cui operano tutte le ricerche, a monte della divisione in discipline, a monte anche della dicotomia di “umanistico” e “scientifico-naturalistico”. Quindi la sua ricerca è inscindibilmente negazione di quello che valeva ieri, e oggi non più, sapendo che quello che si acquisisce e vale oggi, sarà superato domani (senza per questo esser “distrutto”).
(Nasce da qui anche l’esigenza dell’apprendimento della storia delle loro scienze per i giovani e futuri ricercatori, per educarne lo spirito critico, e per contribuire a formare in loro il necessario distacco dal “risultato” immediato: un distacco, che li renderà meno corrivi alle potenze esterne, economiche, politiche, o altre, che mireranno a servirsi di loro.)
Nella ricerca infinita della verità non ci sono “settori”, ma solo una molteplicità di ricerche. L’Università è il luogo di queste, e perciò del loro possibile, permanente confronto. Questo confronto non è formalistica “interdisciplinarità” - se l’Università opera effettivamente come Universitas studiorum - non come agglomerato di ammaestramenti all’esercizio di “competenze” predeterminate. Notiamo che la reale rottura delle barriere settoriali sembra al senso comune cosa molto ardua. Essa, però, non si attua con regolamenti o sedute d’incontro, che son mezzi via via predisponibili, ma mediante la formazione, nella vita intera della comunità universitaria, docenti e discenti insieme, di una coscienza critica di se stessi, dello stato delle ricerche diverse, del loro ruolo attuale e possibile nella vita sociale complessiva. E in effetti, si tratta di qualcosa che è stato relizzato: non completamente, e non sempre (ma, per esempio, nell’Università humboldtiana). Quando è stato così, si sono avute anche epoche di gradi avanzamenti scientifici e culturali, come nell’Università tedesca dell’‘800. (Cfr. il 3° capitolo-tesi del Morkel: L’Università deve intender sé stessa come un’unità ).
Ma intanto, già qui si vede che il principio dell’infinità della ricerca, e quindi dell’Università come luogo della formazione di ricercatori, nella continuità delle generazioni, e quindi nella classica “unità di ricerca e insegnamento” (che esiste tuttora in ogni buon centro universitario di ricerca) - si vede, dico, che questo principio vale per il laboratorio come per l’archivio e la biblioteca “umanistica”. Vale per il chimico, il biologo, lo storico, il filologo, ovviamente con strumenti di lavoro diversi, ma restando e operando come identico principio della ricerca-e-critica infinita, del superamento nel contesto (che è il contrario della relativistica opinabilità!) di ogni risultato via via raggiunto.
Questo vale, beninteso, se il fisico come il matematico come il filologo come il filosofo sono davvero ricercatori. Se non è così, se si tratta di individui che usano le abilità apprese per cercarsi una nicchia di potere, onorificenze, compensi, ebbene, essi possono ovviamente “stare” nelle Università de facto, e ne pervertono la natura mentre ne sfruttano le strutture. Questi individui e gruppi ci sono. Essi possono servire i potenti dell’industria (farmaceutica, per es.); o della politica dipensiera di fondi; o ancora, cavalcare una moda intellettuale senza altra ambizione che “emergere” nel caleidoscopio delle “relazioni pubbliche” moderne, diventare opinion leaders. (Le forme del “tradimento dei chierici” sono mutate e diversificate dai tempi di Julien Benda...). Il senso comune tende a non accorgersi di questi slittamenti di individui e gruppi accademici verso una funzione del tutto diversa dalla ricerca della verità; e gli slittamenti vengono camuffati. Ma c’è di più: il senso comune tende a scambiare “sapere”, che se è “sapere” è universale per sua natura, e sta nel moto infinito della ricerca, con “saper fare certe cose” (le c.d. “competenze”, termine prediletto degli attuali antiriformatori della scuola e dell’Università); e per questa via finisce a piegarsi rassegnato all’assurdità, che i “signori professori” sono appunto - signori, come dice il linguaggio popolare italiano. Cioè, un’altra variante dei potenti, dei padroni. E per ogni volta che tocca nel segno, il senso comune ha mille volte torto: perché così, come “l’idea della veracità non diventerebbe falsa anche se tutti mentissero” (Kant), così anche l’idea dell’Università, del luogo della ricerca della verità, della sua “utilità” sociale proprio perché disinteressato, della sua indipensabilità per una vita collettiva moderna e libera, questa idea non diventa “falsa” per il fatto che, in determinate condizioni storiche, le Facoltà universitarie diventano ricche di profittatori, di sicofanti del potere e di giullari delle mode culturali.
Per questo il senso comune rassegnato, ma talvolta anche la denuncia “di sinistra”, hanno mille volte torto: perchè mettono in ombra il punto essenziale, quello di cercar di capire in quali, determinate condizioni storiche l’Università si perverte e rinsecchisce (come è nella sua storia: dopo la grande fioritura del tardo Medioevo, a cui molte venerande istituzioni universitarie notoriamente risalgono, non nell’Università prosperarono l’Umanesimo né il Rinascimento né la nuova scienza!)
Quelle condizioni storiche vanno indagate, e ovviamente son diverse di epoca in epoca, talora di Stato in Stato. Nell’età contemporanea sono sempre, però, condizioni in cui l’idea dell’Università, della ricerca infinita della verità e della formazione di ricercatori attraverso le generazioni, nella ricerca-insegnamento-ricerca, è rimessa in forse; e lo è, sempre, anche se in modi e congiunture diverse, da forze sociali cui non sono, non possono essere accetti il principio della ricerca infinita, dello spirito critico, e neppure dell’indispensabile contributo che essi apportano al formarsi di una consapevolezza, nei cittadini, della loro res publica, della loro società, del loro Stato. (È fin troppo chiaro, sia detto di passaggio, che senza una tal consapevolezza non solo diffusa, ma attiva, operante, progrediente, la res publica, la società, lo Stato NON sono “loro”, cioè “dei cittadini”, se non per modo di dire, o per finzione - una finzione che, nei tempi moderni, è diventata indispensabile ai potenti).
Bisognerà pur cercare di capire perché il nome vuoto di “democrazia” è indispensabile alla tirannide, oggi: non era così nel Medioevo, nello ancien régime, e neppure, in sostanza, nell’epoca borghese-liberale, senza suffragio universale e senza “Stato del benessere”. Ma oggi! Immaginate per un momento che tutti noi, cittadini italiani, sapessimo e potessimo fare, e facessimo, i cittadini per davvero, cioè davvero volessimo nel senso pieno, con impegno e perseveranza, e senza paura, la nostra Repubblica, come è nei principi della nostra Costituzione. È evidente che, in una tale ipotesi, l’avremmo subito, la “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, il cui compito [permanente] è “rimuovere gli ostacoli” che si frappongono all’eguaglianza reale dei cittadini, con tutto quel che ne segue. Non ci sarebbe “nessuno” per impedircelo, o un’infima minoranza, data l’ipotesi. Ci metteremmo subito all’opera per perfezionare l’edificio, realizzare i sempre nuovi compiti ulteriori... - Ma una tale vera, fattiva, attuante “volontà” di tutti “noi”, “cittadini” per davvero, non è pensabile senza consapevolezza, spirito critico, trasparenza universalmente diffusi. Altre condizioni occorrerebbero ancora? Certo. Questa però, se pur non sufficiente, è condizione necessaria).
3. Ma torniamo all’Università. A che “serve” l’Università come luogo, non “delle scienze”, ma “della scienza”, della ricerca infinita? E chi può mai non volerla?
Orbene: proprio qui viene a galla quale è la posta in gioco oggi. Vediamo.
Primo. L’Università, che si realizzi secondo il suo principio, serve a produrre, riprodurre, ampliare costantemente l’ambito dello spirito critico. Innanzitutto nei suoi membri, certo; ma con ciò, per tutta la comunità, e tanto più, in quanto la sua attività è attività di ricerca disinteressata. Qui torna l’aspetto della discussione rigorosa di quel che è nello spirito pubblico, che non è e non può essere confronto politico, ma opera perché il dibattito politico sia politico davvero, sia cioè riferito a entità razionali, discutibili, oggettivabili in progetti per il corpo politico intero, con i pro e contro. (Senza di questo, e lo vediamo fin troppo bene in questi anni, non c’è “politica” se non nel senso dell’aggiustamento di gruppi tra i dominatori, e dello spettacolo esterno offerto ai dominati. Questa “politica-spettacolo”, che con le “cose serie” notoriamente nulla a che fare, è poi una versione moderna, e tecnicamente modernissima, dell’antico panem et circenses offerti alla plebe romana, quando divenne appunto miserabile e feroce plebaglia, campo di reclutamento di faziosi talvolta, soggetto politico mai più).
Secondo. Vi è però un altro servigio che l’Università vera, conforme alla sua idea, il luogo della ricerca infinita e disinteressata, della autoformazione dei ricercatori e dell’avanzamento della scienza, rende alla collettività. Questo servigio, che può esser reso solo alla condizione inderogabile della ricerca disinteressata, è indispensabile a causa della presenza delle scienze nel mondo moderno. Questa presenza è crescente ogni giorno, oggetto di cieca ammirazione e viscerali timori. Ammirazione ignorante e timori irrazionali che sono entrambi “utili” a chi vuol piegare la scienza a fini particolari, di guadagno e di potenza, che “devono” restare nascosti dietro vaghi discorsi e manipolabili emozioni. Per capire il servigio che l’Università rende, nel mondo della scienza moderna, bisogna anche rendersi conto del rapporto tra l’avanzamento scientifico e quella produzione permanente, per mille vie e rivoli, della consapevolezza civica, di cui si parlava, condizione irrinunciabile di ogni democrazia pensabile. Cioè chiedersi come sia possibile lo sviluppo e la promozione di tale consapevolezza, non in altre epoche e civiltà, ma nell’oggi, nel nostro mondo: che non è a sua volta pensabile senza la scienza.
4. Qui bisogna tornare un po’ indietro: cercheremo di farlo in breve.
In questo mondo moderno, la consapevolezza diffusa e operante della società in cui si vive, senza la quale (ripetiamolo) non ha senso parlare di “cittadini”, e di “democrazia”, non può avvenire grazie a una sintesi metafisico-religiosa come nel Medioevo cristiano europeo. Quella sintesi era nello stesso tempo teoria “del mondo” in generale, e rappresentazione di “questo mondo qui”, in cui ciascuno viveva, in cui c’è il bene e il male, il lavoro e l’ozio, la carità e la violenza - ma che in ogni punto, in ogni istante è, e resta parte coerente del “mondo vero”, cioè dell’Universo creato da Dio secondo la Sua indubitabile, attiva bontà e giustizia, e Dio è presente in ogni qui ed ora, già perché parla in ogni coscienza.
Una tal sintesi oggi non può operare. Non perché le religioni si siano “secolarizzate” (altra paroletta fuorviante). Non perché sia diventanto meno vero - tutt’altro! - che “una fede religiosa sinceramente sentita” può contribuire, nei suoi portatori, a difendere l’umanità dalla violenza che la minaccia e la invade, e certo non è solo bellica e atomica. Molto meno ancora a causa di quello che si fa credere (con una controeducazione pratica e diuturna) al povero Pierino relativista, che “vede” solo fatterelli e opinioni immediate, grezze, buttate avanti senza argomentazione razionale, e si raffigura il gran mondo a immagine e somiglianza di quel suo misero e sciocco particulare.
Si tratta di ben altro. Una sintesi come quella della civitas christianorum non può attuarsi praticamente, e dunque civilmente e politicamente, in un mondo essenzialmente non-statico, nel quale quel che valeva (in ogni campo, e innanzitutto conoscitivo) per i miei padri e antenati non può valere, è evidente, per me e i miei figli. Uno dei “motori” fondamentali di questo dinamismo, che cresce in momento e velocità, è - la scienza. (Non è il solo? Certo. Ma di scienza e scienze, e Università, trattiamo qui).
E allora? - Può la sintesi venire dalla scienza stessa? Si sa che questo fu un obiettivo cercato dal positivismo del secondo Ottocento. Quel positivismo, che Ludovico Geymonat chiamava, in un suo agile volumetto di storia del pensiero scientifico, “il rischio di trasformare la scienza in metafisica”. Ma non abbiamo bisogno di entrare, qui, nella storia della filosofia e delle idee. Ci basta tenerci al modus operandi della ricerca scientifica in generale: e al rapporto tra questa ricerca, l’Università come luogo della ricerca disinteressata, e la vita collettiva, o insomma la società tutt’intera.
Le scienze portano in luce ambiti di azione umana possibile. Sempre di nuovo, e sempre di più. Questo esse fanno come scienze, e non è poco! Lo fanno ininterrottamente, con estensione e rapidità crescente; lo fanno in tutto il loro processo, e ne offrono i risultati. Non di meno: e però, non di più.
Così dopo Liebig e l’agrochimica diventa possibile, nell’800, rimpiazzare tecniche tradizionali di coltivazione con altre più redditizie. Decise e attuò, o fece attuare, chi aveva il comando sull’uso dei terreni.
Così la fisica nucleare del primo ‘900 rende possibile il progetto Manhattan, ma la decisione e attuazione di questo progetto avvengono per opera del Governo degli Stati Uniti.
Così, con la nuova biologia molecolare, diventa possibile, oggi, intervenire sulla fecondazione, sulla trasmissione genetica, fino alla clonazione etc. - E diventa possibile anche una politica strozzina come quella delle varie Monsanto e Novartis - nonché la pretesa di brevettare sistemi viventi, etc. - Ma chi decide a attua queste politiche sono le varie Monsanto e Novartis e compagnia e servitorelli loro - NON “la scienza”.
Ora: man mano che ci si avvicina all’oggi si vede questo.
Le decisioni di utilizzare conoscenze scientifiche per scopi (di potenza,
o di arricchimento - o putacaso anche di assistenza, perché no?), scopi che
altri, non “la scienza” pone e mette in opera - queste decisioni
investonovia via più largamente, più direttamente e radicalmente la vita
degli individui, dei popoli; talora forse (“compatibilità ecologiche”) l’insieme
di tutti gli uomini ora presenti e dei loro discendenti futuri. Tali
decisioni vengono prese, e attuate: per il bene e per il male. Non è questo il
luogo di farne la storia. Basterà tener fermo un punto: esse non sono, perché
per loro natura non possono essere, decisioni “della scienza” - né
della “comunità scientifica” (quella vera, che è il luogo del processo
critico in quanto passa attraverso individui, e non è “proprietà” loro!).
Non c’è nessuna “onnipotenza”, e nessuna “sovranità” della
scienza.
5. Ma quelle decisioni, che diventano sempre più numerose, gravi di conseguenze, importanti, e che riguardano la vita collettiva, vengono prese al coperto, dietro le quinte versicolori della c.d. “politica spettacolo”, spesso anche al di là di Parlamenti e Governi. Esse trovano sicofanti accademici che le predispongono, confortano e mettono in opera, prestando i loro servigi di “esperti”, e talvolta, partecipando agli “utili”. Costoro sono due volte felloni, infedeli all’impegno, traditori. (Sì: traditori, non “colpevoli” soltanto). Una volta, perché non possono non sapere, proprio loro scelti e pagati come “esperti”, né quale è la portata prevedibile, sulla vita collettiva, delle decisioni cui cooperano; né, ancor meno, che essi sottraggono all’universale, e rendono praticabili ai potenti di turno, e ai loro interessi per definizione parziali e privati, scelte, discussioni, decisioni, che perché riguardano la collettività, devono essere discusse nella sfera dell’universale - la critica, lo spirito critico, la consapevolezza civica. Così questi signori contribuiscono all’oscurantismo, alla distruzione della sfera pubblica e razionale, della politica in senso forte e democratico, comunque lo si voglia intendere.- E un’altra volta traditori, perché svendono e svuotano la funzione critica, infinita dell’Università: la quale non può certo, da sola e tutto in una volta, mettersi a “illuminare il popolo” (ah, Federico di Prussia!): ma può, per la natura che è sua, finché resta Università, preparare spiriti critici dentro le sue mura, e fuori di esse, diffondere, promuovere lo spirito critico, in prospettiva dunque la consapevolezza democratica e civica.
E però, non si tratta davvero di indignarsi! Si tratta di ben altro e meglio: di capire. Dunque, andiamo avanti. Come è pensabile il rapporto tra “Università” e vita civile nel mondo dell’avanzamento infinito della scienza e delle scienze, che è il nostro, irrevocabilmente?
Ricordiamo brevemente che le “visioni del mondo” o “ideologie”, o “filosofie” nel senso di A. Gramsci [Quaderno 11, § 12] - quelle per cui de facto “ogni uomo è filosofo”, e non è proprio pensabile un uomo, per quanto “semplice”, che non lo sia; per cui, di lì bisogna partire per vedere come ciascuno, con altri e non (solo) “con libri” può render coerente la sua “visione del mondo”, e portarla grado a grado fino “al livello più moderno e avanzato” [ivi] - queste visioni del mondo o “ideologie” o “filosofie”, che esistono comunque e necessariamente, possono benissimo, nel processo del loro affinarsi e diventar più critiche e comprensive e razionali, venir sostanziate di nozioni scientifiche: e lo sono anche, più e meno: si tratta di esperienza e di propagazione di cultura, in sostanza.
Ma è il loro modus operandi che è diverso da quello della ricerca scientifica (e accademica, quando l’Università è Università). Esse infatti sono le forme in cui gli uomini si danno conto di sé stessi, dei loro scopi, dei loro contrasti storici. Perciò la “sintesi totale” risulta dallo scambio, dallo scontro, dal dibattito nel senso più ampio - discussione, insegnamento, famiglia (dove almeno si sa che coi bambini bisogna parlare), ogni forma di vita e organizzazione sociale. In ognuna di queste, si scontrano oggi lo spirito critico e il suo contrario, l’insegnamento vero e l’addestramento di utili idioti specialistici, diciamo pure: la volontà di far pensare autonomamente, e l’oscurantismo. (Chi dei lettori è insegnante, o ha figli, lo sa dalla pratica di una vita).
Così non può esserci “sintesi ultima”, mai. L’opera di cui si parla, è la vita stessa, infinita, della ragione negli uomini e per loro, e per opera loro. A questa l’Università, che non diventa addestramento di abilità per scopi allotri, imposti dall’esterno, e che né docenti né discenti han più da sindacare (come si vorrebbe e si tenta di attuare), ma è conforme alla sua idea, può dare un contributo multiforme e grandissimo. E - nell’età della scienza - solo essa, in quanto luogo della ricerca infinita, può darlo.
E lo ha dato, in parte, e darà - anche se l’idea dell’Università dovesse esser scacciata dalle sedi chiamate ancora “Università”, ma ridotte ad ammaestramento cosiddetto “professionalizzante”, e trovar tetto in altre istituzioni e forme di vita.
6. Vero è che l’Università di per sé non può, anche qui, farsi carico di tutta l’opera. Ma può - in quanto sia davvero luogo unitario della scienza / delle scienze - da una parte offrire (nel senso detto sopra), risultati conoscitivi, “scientifici”. I quali saranno sempre, come tali, mezzi di decisioni pratiche, “politiche” (certo - anche quando “politica” sia degradata ad “affarismo”: questo l’Università può combattere, nel suo seno, e grazie alla sua azione critica nella vita pubblica: ma non, come Università, eliminare).
E può in secondo luogo contribuire, come si diceva più avanti (e come Arnd Morkel insiste nel suo libro) a obiettivare e a render razionali i criteri di scelta comuni, applicando lei, Università, il suo metodo dell’esame razionale disinteressato.
Ma, allora, si vede. Tutto questo - sia il “lavoro scientifico” dell’Università, in senso stretto, sia il contributo scientifico-critico, offerto dalle discipline “umanistiche” ma non solo da loro, e anzi nell’interscambio con le altre nella stessa vita universitaria - tutto questo è contributo, in ultima analisi, alla discussione tra cittadini, alla trasparenza e consapevolezza, delle scelte che ci spettano, nel mondo della scienza e della vita moderna.
E poiché questa è la “funzione”, la “utilità” dell’Università nel mondo di oggi, è ora facile vedere che questa funzione si attua solo in quanto l’Università, sia nelle “scienze” che nelle “humanitates”, salvaguardi, difenda, affermi il suo ruolo di sede della ricerca, infinita e disinteressata, nella continuità delle generazioni.
Luogo perciò, poi, di indagine permanente e altrettanto infinita, tanto dei fondamenti delle scienze, che di quelli della convivenza civile.
E si vedono ormai altre tre cose. (Chiedendo venia al lettore per il lungo giro fatto prima di arrivarci - indipensabile tuttavia, per le tante ubbie, superficialità e menzogne addensate oggi davanti al problema essenziale, e che Arnd Morkel, in tante pubblicazioni e interventi, ha avuto il merito di pazientemente, modestamente dissipare).
Primo. L’Università come Università è incompatibile con l’uso, come che sia camuffato, di conoscenze scientifiche per scopi di lucro, di potere, di prevalenza di interessi particolari sulla, e dunque contro, la collettività.
Secondo. L’Università come Università è incompatibile con un “mondo” (o una c.d. “cultura”) diviso in “esperti” (casta sacerdotale nell’antica Babilonia, o sicofanti e giullari oggi) da una parte, e “pubblico bue” dall’altra - al quale per definizione, e come vediamo tuttodì, si propinerà qualunque insensatezza, stimolo immediato, emozione volgare. Per definizione, perché “pubblico-più-esperti” vuol dire: non-discussione critica, non-cittadini, ma: chi pontifica di qui, chi ascolta di là.
Terzo. L’Università come Università è non solo compatibile, ma nel mondo moderno, e nell’universo delle scienze moderne, necessariamente collegata con una progressiva realizzazione della consapevolezza pratica, operante, fattiva, riguardo alle scelte che concernono la collettività. “La verità rende liberi” è formula evangelica. Si può, modestamente, aggiungere: la ricerca infinita della verità, la produzione di spirito critico e di spiriti critici sono fonte di trasparenza e capacità di giudizio. Perciò sono condizione necessaria (anche se non sufficiente), di ogni autogoverno, di ogni “democrazia” in qualunque senso reale, non fittizio e d’impostura.
L’attacco all’Università è attacco a quanto si frappone all’uso particolaristico del sapere, per fini anche distruttivi e rovinosi, e però sempre, per loro natura, inconfessabili, perchè non-universali, non-comuni, né conosciuti e ragionevolmente discussi dalla collettività. Questo attacco, come viene condotto ora, è lo sbocco conseguente della subordinazione di tutta la vita sociale ad interessi particolaristici, sotto il manto stracciato del mito neoliberale.
L’attacco all’Università, che è in corso, è un aspetto dell’attacco alle basi della cultura in quanto vita multiforme ma comune, cioè alla cultura come opera tendenzialmente di tutti, nella discussione, nei “cento fiori”, nello spazio collettivo, sempre rinnovato, del linguaggio verbale, artistico ecc. - L’Università è luogo di produzione di cultura essenzialmente pubblica, e tanto più essenzialmente pubblica quanto più “alta” (contrariamente al pregiudizio e alla spocchia dei cercatori di “nicchie” e “mode”: ma i Promessi sposi, la Divina Commedia, Vivaldi e Verdi sono pur “roba nostra”, come lo sono Galileo e Einstein). Essa diventa ora terra di conquista e di colonizzazione per l’anticultura, variamente camuffata, mirante a rinchiudere settori della popolazione ciascuno nel suo ghetto. Questo, verso l’esterno.
Ma non è difficile vedere che un tale “esterno” ben si correla alla colonizzazione interna dell’Università per scopi di potere, di arricchimento, sotto la logica dell’interesse personale, aprendo la strada a tutte le corruzioni, le clientele, le “cordate”.
Finalmente, l’attacco all’Università è attacco all’alleato più essenziale, nel mondo moderno e della scienza moderna, che lo spirito democratico possa avere.
Senza questo alleato, che è la scienza, la cultura, la critica razionale, paziente e impacificabile, le esigenze di democrazia sono destinate a restare protesta, conventicola, testimonianza. I signori del “mercato” e della “cultura d’impresa” lo sanno da un pezzo.
[1] La radice germanica wehr, con senso di forza militare, ha dato luogo anche all’italiano “guerra”. Il riflessivo sich wehren vale “difendersi attivamente”. Il libro è stato pubblicato in prima edizione dalla Wissenschaftliche Buchgesellschaft di Darmstadt. In un capitolo apposito, l’A. rende chiaro come un’Università rinnovata sia possibile solo insieme al rinnovamento della scuola: e infatti questa è poi, più largamente, la “posta in gioco”. Qui non se ne è potuto trattare esplicitamente: ne ho toccato in breve, per quel che riguarda l’Italia, nella parte finale del saggio Chi vuole l’Università?, pubblicato nel “Quaderno n°1” del Laboratorio per la Critica Sociale, Roma 2000.
[2] Recentemente, Werner HOFFACKER, Die Universität des 21. Jahrhunderts -
Dienstleistungsunternehmen oder öffentliche Einrichtung? [L’Università del
XXI secolo: impresa di servizi o istituzione pubblica?], Neuwied 2000. - In
un saggio dello stesso A., Die vermarktete Universität [L’Università
messa in mercato], in “Blätter f. deutsche u. internationale Politik”,
10/2000, p. 1365-74, si mostra la improponibilità pratica del “modello
mercato” per un governo adeguato della istituzione universitaria. -
Interessante poi anche che negli USA, e nonostante che “vengano colà
accettate sempre nuove restrizioni della libertà di ricerca a vantaggio degli
interessi di valorizzazione monetaria dei committenti” (p. 1372), solo il sette
per cento del finanziamento complessivo delle Università è dovuto a
esborsi di imprese. (Media sugli ultimi 8 anni). - Un “bell’investimento”
non c’è che dire!