Una discussione indispensabile

Alberto Burgio

L’estate che sta per chiudersi ha visto svilupparsi un dibattito serrato e a tratti aspro sulla fase politica e le prospettive immediate dell’autunno. Al centro di questo dibattito è stato, com’era inevitabile dopo i fatti di Genova, il movimento no-global: i temi della sua natura e collocazione politica, delle forme di organizzazione e di intervento, dei suoi rapporti con le altre soggettività e formazioni del movimento di classe. Si è trattato di una discussione, del resto ancora in corso, utile e opportuna, che va sviluppata e difesa dai tentativi di soffocarla che, pure, da più parti vengono compiuti. Si avverte, intorno al movimento no-global e al “popolo di Seattle” il timore che riflessioni e critiche possano intralciarne la marcia e persino metterne a repentaglio la crescita. Non è così. Al contrario, solo la più franca ricerca e l’esercizio della critica possono irrobustire il movimento e consentirgli di svilupparsi nella direzione giusta. Conformismo e omertà sono sempre nemici mortali delle forze rivoluzionarie.

1. Il “paradigma della globalizzazione”

Uno dei temi principali intorno ai quali si è sviluppato questo dibattito è la questione dei rapporti tra il movimento no-global e il mondo del lavoro, le organizzazioni sindacali, le masse lavoratrici, il proletariato precarizzato e ridotto a esercito di riserva dalle strategie di innovazione tutte mirate (dalla metà degli anni Settanta in poi) al risparmio di lavoro vivo. Molto sensibile ai più evidenti contraccolpi della “liberalizzazione dei mercati” (polarizzazione della ricchezza globale e drammatico aumento della povertà nel sud del mondo; riduzione in servitù delle economie nazionali più deboli; danni all’ambiente e all’ecosistema planetario; tendenza alla privatizzazione della ricchezza sociale fino al brevetto di organismi viventi), il movimento no-global non sempre appare sufficientemente attento ai contraccolpi che l’attuale fase dello sviluppo capitalistico mondiale genera sulla forza-lavoro e sulle masse proletarie. Alla base di questa sottovalutazione agisce con ogni probabilità una interpretazione degli attuali processi di mondializzazione su cui conviene soffermarsi.

Per ragioni che non è qui possibile indagare (e che evidenziano responsabilità dell’intera intellettualità “critica”, in grave ritardo nell’analisi dei processi di trasformazione del sistema capitalistico e delle forme di dominio), una interpretazione economicistica della “globalizzazione” ha rapidamente affermato la propria egemonia nell’ambito della sinistra critica. Alla base di tale interpretazione è l’idea che il capitale transnazionale sia ormai divenuto il “sovrano” del mondo. Unificato sotto il dominio capitalistico, ridotto a “Impero”, il pianeta sarebbe ormai governato immediatamente dal capitale, dalle grandi multinazionali, le quali non avrebbero ormai bisogno della mediazione politica né - a maggior ragione - dell’intervento di apparati istituzionali (statuali o internazionali) dotati di qualche autonomia decisionale. La politica come “sfera di mediazione tra forze sociali in conflitto” non avrebbe più alcuna ragion d’essere, e qualsiasi residuale contraddizione tra sfera politica e potentati economici si sarebbe definitivamente eclissata a tutto vantaggio dal grande capitale, assurto a “potere sovrano che governa il mondo”, per ciò stesso sganciato da qualsiasi radicamento territoriale (nazionale o continentale).

Le conseguenze di questa prospettiva sono gravi e in parte paradossali. Essa non impedisce soltanto di riconoscere e valutare in tutta la sua drammaticità il ritorno della guerra al centro della scena politica mondiale; rende altresì impossibile comprendere la centralità del conflitto capitale-lavoro negli attuali processi di mondializzazione.

2. Il problema della guerra

Dalla presunta unificazione del mondo sotto il dominio di un capitale compiutamente globalizzato discenderebbe la definitiva “obsolescenza” degli Stati nazionali, estromessi dal governo effettivo dei corpi sociali e dei processi di riproduzione e ridotti a “simulacri” di sovranità; da questa circostanza deriverebbero, a loro volta, la fine dell’imperialismo e la trasformazione della guerra in interventi polizieschi volti, da un lato, a rinsaldare sul piano simbolico la primazia della potenza naturaliter imperiale (gli Stati Uniti), dall’altro a sostenere il business planetario delle grandi multinazionali. Fuori gioco sarebbe ormai la posta tradizionale dei conflitti bellici: il controllo politico su territori e popolazioni.

Discende da questa interpretazione un primo effetto apologetico di grande rilevanza. “L’importanza della guerra del Golfo” non ruoterebbe intorno al controllo di un’area strategica sul piano “geopolitico” ed economico, cruciale per gli equilibri militari nel Mediterraneo e in Medio Oriente: essa deriverebbe “piuttosto dal fatto che presentò gli Stati Uniti come la sola potenza capace di amministrare la giustizia internazionale non in funzione di proprie ragioni nazionali, ma nel nome del diritto mondiale” (Hardt e Negri, Empire, trad. franc., Paris 2000, p. 227). E lo stesso dovrebbe dirsi per le guerre balcaniche seguite allo smembramento della Federazione Jugoslava, per il conflitto israelo-palestinese, per lo stesso progetto di costruzione dello “scudo stellare”.

Si illuderebbero dunque coloro che, ragionando ancora in termini tradizionali, ritengono che l’egemonia militare sulla dorsale sud-orientale dell’Europa serva agli Stati Uniti (concepiti ancora come Stato nazionale) per contrastare “l’ascesa di altre potenze regionali antagoniste” a cominciare da Russia, Cina e India e l’“autonomia politica ed economica delle potenze alleate” (Brzezinski). Si ingannerebbero gli strateghi del Pentagono nell’inquadrare le guerre in Jugoslavia entro il contesto delle politiche “di sicurezza nazionale” in vista del nuovo secolo. Sbaglierebbero quanti ritengono che il sostegno statunitense alla guerriglia filo-albanese miri a “consolidare la sfera di influenza americana nell’Europa sud-orientale” e sul “corridoio strategico per i trasporti, le comunicazioni e gli oleodotti che attraversa la Bulgaria” (Chossudovsky). Si attarderebbero su schemi arcaici quegli osservatori - tra cui Uri Avnery, leader di “Gush Shalom” - che indicano in Bush e nella sua ristretta équipe (il vicepresidente Cheney e il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice) “gli ispiratori delle ultime pratiche criminose” del governo Sharon contro i palestinesi. Non coglierebbero nel segno, infine, coloro che considerassero lo “scudo stellare” (argomento centrale del vertice Nato di settembre a Napoli) un’arma offensiva di cui gli Stati Uniti intenderebbero dotarsi nel quadro della tradizionale “dottrina del cappotto”, in base alla quale gli Usa debbono disporre di armamenti sufficienti a vincere due conflitti mondiali simultanei.

Niente di tutto questo, “ormai”. Dopo la costituzione dell’“Impero” e la riclassificazione di tutti i territori nei termini di suoi spazi interni, armi, eserciti e interventi militari altro non sono se non azioni poliziesche intese a mantenere l’ordine pubblico secondo le norme dettate dal capitale multinazionale. Non sorprende che, muovendosi sulla base di queste premesse, “tutta la mobilitazione globale da Seattle in poi” abbia lasciato “un po’ in ombra” (Mortellaro) la questione della guerra e della pace, sottovalutando la crucialità della partita militare nella competizione per il dominio su risorse e teatri strategici del pianeta.

Dinanzi a queste lacune, non è certo il silenzio la scelta utile alla crescita del movimento. Esso costituisce un enorme potenziale critico. La percezione diffusa e sempre più vasta della insostenibilità sociale, politica, ambientale ed etica dell’attuale sviluppo capitalistico può davvero segnare l’apertura di una nuova stagione di lotte di massa. Ma perché ciò avvenga occorre che tale sentimento divenga reale consapevolezza, coscienza di classe, e ciò implica analisi corrette degli strumenti di cui oggi l’Occidente capitalistico si serve per perpetuare e rafforzare il proprio dominio.

3. Dall’“operaio sociale” al comunismo del capitale

Non è solo questo il portato del “paradigma imperiale” attraverso cui vaste componenti del movimento no-global mostrano di leggere i processi di trasformazione del capitalismo mondiale. Anche sul piano dell’analisi sociale e politica esso approda a un esito paradossale, peraltro caratteristico dell’economicismo.

A fare da pendant alla riduzione delle guerre ad azioni di “polizia internazionale” è l’idea che le società siano omogenee: corpi sociali unificati dalla pervasività del capitale, capillarmente penetrato sin nella materialità dei corpi viventi. Come il pianeta sarebbe unificato in quanto spazio continuo del capitale sovrano, così le collettività sociali sarebbero unificate dalla totale coincidenza tra vita e lavoro, attività produttive e attività improduttive, processi strutturali e dinamiche sovrastrutturali. È la assolutizzazione della teoria dell’“operaio sociale”, e poco importa, evidentemente, che questo trionfo sia fondato su un duplice salto logico che ne mina la plausibilità alle fondamenta: da un lato l’analogia formale tra la prassi vitale nella sua immediatezza (dinamiche relazionali, agire comunicativo, scambio linguistico, pratiche riflessive ecc.) e alcune attività produttive, considerate essenziali negli attuali processi di riproduzione, è tradotta nella identità sostanziale di vita e lavoro; dall’altro, queste determinate attività sono assunte a paradigma della totalità delle funzioni riproduttive.

Sulla base di questo duplice movimento si erge l’edificio teorico del “lavoro immateriale” e della immediata produttività della vita stessa, dal quale discende una conseguenza forse inaspettata ma a guardar bene caratteristica dell’economismo operaista, costituzionalmente incapace di tematizzare la connessione dialettica tra politico e sociale e quindi costretto a predicare l’autosufficienza delle dinamiche strutturali e, in apparente alternativa, l’“autonomia del politico”. Se tutto è lavoro, se l’intera collettività è costituita da proletari messi al lavoro nell’intero tempo della loro vita, viene meno qualunque spazio per un conflitto di classe che si rivela superfluo, oltre che impossibile in radice. La rivoluzione non va più concepita come processo di costruzione di nuove soggettività, nuovi rapporti di forza, un nuovo modo di produzione: essa è già, qui e ora. È, per dir così, la “verità” di un capitalismo talmente avanzato da negare se stesso. Il “potere delle soggettività produttrici” si è talmente sviluppato da fare del lavoro l’espressione della loro autonomia desiderante, “il potenziale per una sorta di comunismo spontaneo ed elementare”. “Oggi il lavoro è immediatamente una forza sociale animata dai poteri della conoscenza, dell’affettività, della scienza e del linguaggio”; e dunque invano “l’Impero pretende di esser il signore di questo mondo”, ché, “in realtà, noi siamo signori del mondo perché il nostro desiderio e il nostro lavoro lo rigenerano continuamente” (Hardt e Negri, Empire, pp. 432 e 467).

4. Sul “radicalismo moderato”

Sortiscono da questo quadro ideologico, apparentemente spregiudicato e “radicale”, un insieme di conseguenze politiche di segno conservatore, a proposito delle quali si potrebbe parlare, con voluto ossimoro, di radicalismo moderato.

Lo spontaneismo che connota la considerazione delle masse subalterne nei termini di una “moltitudine” per natura rivoluzionaria (dotata di una incoercibile “forza deterritorializzante”) spinge verso il rifiuto di qualsiasi istanza di organizzazione del movimento di classe. Di qui il feticismo della struttura reticolare del movimento, nel quale un limite (conseguente alla dispersa molteplicità dei soggetti, delle culture, delle strategie) è trasfigurato e riproposto come garanzia di autonomia e di efficacia conflittuale. L’operaismo incontra così la dilagante propensione all’anarchismo. Nel quadro della “radicale” messa sotto accusa del Novecento - secolo del lavoro e, appunto, della organizzazione, oltre che di un “comunismo storico” equiparato alla barbarie nazista - è rigettata qualsiasi istanza di strutturazione delle soggettività anti-sistemiche, ritenuta inevitabile premessa di disciplinamento. Consapevole o meno, la ripresa dell’appello proudhoniano alla “disorganizzazione” è puntuale. Non è difficile prevedere che, ove prevalessero, tali orientamenti finirebbero col frustrare in breve tempo le potenzialità conflittuali, oggi ancora notevoli, del movimento no-global.

Sul piano delle politiche economiche e, più in generale, dei modelli sociali di riferimento, la propensione anarchica di alcune componenti del movimento ben si concilia con la critica antimoderna (Marx direbbe senza mezzi termini: “reazionaria”) del capitalismo e con la trasfigurazione delle forme precapitalistiche (artigianato, piccola produzione immediata, scambio extra-economico, equo e gratuito, ecc.). Se, sul piano culturale, consegue a queste prospettive la introiezione di schemi ideologici decisamente regressivi (la società premoderna in cui servitù, incesto, assenza di diritti individuali erano la norma per la stragrande maggioranza delle persone, viene raffigurata come l’idillio della coesione sociale e dell’armonia tra vita, lavoro e sentimento di sé; dall’altra parte, la modernità è rigettata in modo indiscriminato, lo sviluppo delle forze produttive sociali identificato col dominio capitalistico, il progresso tecnico e scientifico letto come causa immediata della furia devastatrice del capitalismo); sul piano politico discendono dalla ripresa delle “utopie artigianesche” e neocomunitaristiche la trasfigurazione ideologica del cosiddetto “terzo settore” (del sedicente no-profit) e, di qui, la piena disponibilità allo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare e al loro lucroso subappalto agli imprenditori dello pseudo-volontariato cattolico (Compagnia delle Opere, Acli, ecc.) e laico (cooperative sociali e Forum del terzo settore in generale).

A sua volta, per concludere questo breve catalogo delle conseguenze organicamente conservatrici di certo nuovo “radicalismo”, l’impronta manifestamente privatistica di tali posizioni (la categoria di “pubblico non statale” può ormai ingannare solo chi pervicacemente rifiuti di riconoscere i connotati della liquidazione in atto dei sistemi pubblici di assistenza, previdenza, sanità e istruzione: la loro evidente privatizzazione) ispira il riduzionismo di certe parole d’ordine del movimento no-global, che non si dichiara - come sarebbe naturale sulla scorta di un’analisi di classe della “globalizzazione” - anticapitalista, bensì anti-liberista. Senonché, scissa dalla critica del capitalismo in quanto tale, la lotta contro il liberismo - indubbiamente necessaria - rischia di rifluire su posizioni, appunto, moderate. Forse che un capitalismo protezionista, che tuteli le imprese nazionali (o regionali, secondo l’ottica localistica della Lega nord) a suon di dazi e misure fiscali, sarebbe la panacea di tutti i mali? José Bovet parrebbe pensarlo e con lui, si capisce, anche molti paysans padani: c’è da chiedersi quanti militanti no-global condividano tali posizioni e siano consapevoli delle loro implicazioni.

5. Sul liberismo protezionista

D’altra parte, se si guardasse con più attenzione alla costituzione materiale della cosiddetta “globalizzazione”, si vedrebbe subito come la piattaforma anti-liberista sia inadeguata a guidare un movimento di massa nella lotta contro lo stato delle cose presente. Il generico riferimento al liberismo impedisce di comprendere la reale logica del governo dei mercati per due distinti ordini di ragioni. Da un lato questa genericità occulta il fatto che solo un mercato è effettivamente globalizzato, quello dei capitali e dei flussi speculativi: non quello delle merci (il volume degli scambi su scala mondiale raggiunge oggi a malapena i livelli del commercio internazionale precedente la prima guerra mondiale) né quello della forza-lavoro (ma ciò, benché chiaro a molti e non soltanto ai milioni di migranti “irregolari” e “clandestini”, pare tuttavia sfuggire a chi favoleggia della potenza “deterritorializzante” della “moltitudine”). Dall’altro lato, l’equazione “globalizzazione”-neoliberismo induce a perdere di vista il carattere politico delle forme di regolazione dei mercati, della loro “determinazione”, come direbbe Gramsci.

Se si facesse più attenzione al modo in cui vengono applicati (o violati) i trattati sul libero scambio e le norme anti-trust, si comprenderebbe immediatamente che il liberismo funziona dove e quando premia gli interessi dei paesi e delle economie più forti e finché avvantaggia le più potenti corporations; e che invece, quando concorrenza e libero scambio mettono a repentaglio gli interessi degli Stati e delle imprese più potenti, non si esita a derogare alla legislazione anti-monopolistica (come mostrano da ultimo i trionfi giudiziari di Bill Gates) né a ricorrere a multe e tariffe doganali proibitive come quelle applicate dagli Stati Uniti in base all’“emendamento Byrd” (una norma dichiaratamente protezionistica giustificata con l’esigenza di proteggere l’industria nazionale dal dumping e dalla concorrezna sleale). Ma tenere conto di queste apparenti contraddizioni imporrebbe di cogliere l’elemento politico inerente agli attuali processi di sviluppo del capitalismo (imporrebbe di riconoscere la banale ovvietà che il liberismo è una forma di politica economica, tipica di determinate fasi del processo di accumulazione) e ciò farebbe saltare in aria il paradigma interpretativo della “globalizzazione” oggi maggiormente in voga.

6. “Che fare?” Centralità del conflitto capitale-lavoro e organizzazione della lotta di massa

Il fatto che l’ideologia “critica” più diffusa nel movimento no-global sia caratterizzata da una prospettiva economicistica non esime tuttavia dall’obbligo di cercare di correggere tali orientamenti mettendo nel dovuto risalto processi e conflitti che oggi, come si notava, tendono a restare “un po’ in ombra”. Questa circostanza rende, al contrario, quanto mai necessario spendersi affinché le analisi correnti nel movimento guadagnino in rigore e organicità. In precedenza si è fatto riferimento alla guerra e alla necessità di riconoscere in essa uno strumento ancor oggi cruciale nella lotta per il dominio politico su territori e corpi sociali oltre che per il controllo di risorse energetiche, materie prime e forze produttive. Analoghe considerazioni debbono essere rapidamente svolte ora, in chiusura, per quanto attiene al conflitto capitale-lavoro e al suo perdurante ruolo di asse portante del conflitto di classe.

Contro analisi fantasiose che hanno contribuito a disorientare tanti compagni, va ribadito che il mutare delle forme di organizzazione del sistema capitalistico non ne modifica gli assetti strutturali, nei quali lo sfruttamento della forza-lavoro resta principio costitutivo e determinante. La proletarizzazione di massa rimane la chiave dell’accumulazione e della riproduzione allargata anche in una fase caratterizzata dalla crescita della disoccupazione (una crescita che va peraltro depurata dalla tradizionale sottovalutazione dell’entità dell’economia sommersa e illegale). Ciò che spesso non si coglie è che la disoccupazione è essa stessa una forma di impiego delle forze produttive sociali e in questo senso una figura del lavoro sociale al pari delle altre. E che anzi, in determinati passaggi storici, la disoccupazione rappresenta l’essenza della fase meglio di altre forme di utilizzo della forza-lavoro. Oggi è questo il caso. Insieme agli atipici, ai lavoratori poveri, agli irregolari (in massima parte migranti), i disoccupati contribuiscono a definire oggi il prototipo del proletario, in quanto riflettono l’essenza di una fase del processo di accumulazione segnata dalla tendenza a riportare il salario al minimo indispensabile alla riproduzione fisica della forza-lavoro sociale.

Discende da qui una indicazione semplice ma irrinunciabile per il movimento no-global e per tutta la sinistra “critica”. È indispensabile che la caratteristica più importante del movimento - la percezione della insostenibilità della “globalizzazione” - venga orientata nella direzione della più concreta, intransigente ed efficace critica dello sfruttamento della forza-lavoro sociale nelle forme del lavoro precarizzato, nocivo e sovente mortale, ma anche nelle forme della disoccupazione e della sotto-occupazione. A questo fine è necessario che l’intero movimento colga una duplice unità: da un lato, la connessione organica che sussiste tra il governo dell’attuale fase della mondializzazione nel segno di un generale attacco ai diritti umani, sociali, civili e politici delle masse subalterne sul piano planetario e l’offensiva padronale contro il lavoro nei paesi capitalistici avanzati; dall’altro lato, la sostanziale unità dell’area del lavoro subordinato (salariato classico, atipico, autonomo eterodiretto, area della disoccupazione strutturale, ecc.) nel segno della sua dipendenza dal comando capitalistico. Da questo punto di vista, si può dire che il movimento e tutta la sinistra critica debbono compiere uno sforzo per rovesciare di centottanta gradi l’ottica padronale, in base alla quale - come ben attesta l’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori - l’unità del mondo del lavoro dipendente è colta con grande precisione, benché, ovviamente, nel segno della sua generale precarizzazione.

In ultima analisi, quel che si impone è un’opera di traduzione del linguaggio genericamente anti-liberista nel più preciso linguaggio della critica di classe del capitalismo. Perché questo compito possa essere svolto e avere successo si richiede tuttavia una correzione di rotta rispetto a taluni orientamenti oggi prevalenti. Ci si limiterà qui, per evidenti ragioni di spazio, ad un’unica considerazione fondamentale.

Se la ricostruzione di un movimento di massa capace di rilanciare il conflitto di classe è l’obiettivo strategico prioritario, occorrerà allora guardare con la massima attenzione a quanto avviene nel mondo del lavoro dipendente o eterodiretto, ivi comprese le masse di lavoratori precarizzati o disoccupati. Ciò significa per un verso uscire dal politicismo, guardarsi dallo scambiare i corpi sociali con la loro attuale ma contingente rappresentanza politica e sindacale, e proprio per questo osservare con la massima attenzione il travaglio dei Ds e dei sindacati confederali, richiamati dall’esito disastroso delle ultime elezioni politiche alla dura realtà del fallimento delle politiche concertative. Ma ciò significa anche, per l’altro verso, promuovere una intensa attività di ricomposizione dell’intera area sociale sottoposta allo sfruttamento capitalistico, e perciò fare in modo
 ciascuno dalle proprie posizioni e sulla scorta dei propri convincimenti - che vengano via via stringendosi stretti rapporti di collaborazione sociale e politica tra tutti i soggetti (partiti, sindacati di base, movimenti) impegnati sul terreno della lotta di classe.

Una parola va detta con chiarezza, a questo riguardo, sul lavoro svolto dal sindacalismo di base nelle file del movimento no-global e nella costruzione dell’iniziativa di massa. Come a Seattle, anche a Genova il successo registrato, in termini di partecipazione, dalle manifestazioni del 19, 20 e 21 luglio contro il G-8 non sarebbe stato possibile se alle spalle non vi fosse stata anche l’attività capillare svolta, nel corso di anni e in tante realtà critiche del mondo del lavoro, sovente trascurate dal sindacato confederale, da parte del sindacalismo di base, Rdb, Cub e Cobas in testa. Ciò va ribadito contro l’oscuramento che di tale attività i media hanno sistematicamente operato, allo scopo di accreditare una rappresentazione del movimento come indistinta sommatoria di soggetti marginali, visionari o violenti e di occultare la presenza rilevante del mondo del lavoro e delle sue organizzazioni. Ma ciò va ribadito anche contro l’interpretazione che di quelle giornate e, in generale, della lotta contro la mondializzazione capitalistica forniscono talune componenti dello stesso movimento no-global, troppo attente al cielo delle ideologie per prestare attenzione alle forze sociali e alle soggettività organizzate che danno corpo e vigore al movimento di classe.