Internet, stop and go

Fabio Sebastiani

Recentemente, Lehman Brothers una delle più importanti banche d’affari del mondo, stilando la classifica delle dieci società più “affidabili” dal punto di vista dell’investimento borsistico ha quasi azzerato la presenza dei titoli di società della New Economy. Tra le migliori della lista dell’anno precedente c’è stata una vera e propria ecatombe: titoli come Nortel Networks, segnalati come eccellenti quando erano a 68 dollari ora viaggiano sugli 8 dollari. Tellabs è passata dagli oltre 62 dollari agli attuali 16, tanto per fare qualche esempio. I consigli di Lehman non a caso rimangono su posizioni difensive e legate alla vecchia economia. Sulla crisi dell’economia legata a internet e all’hi.tech Michael J. Mandel nel suo ultimo libro “Internet Depression” (Fazi editore, collana “e-pensiero”, pp 221, 32.000 lire) prevede che quando sia la spesa in Information Technology sia i titoli tecnologici andranno giù contemporaneamente «questo sarà un segnale forte che il boom della New Economy potrebbe essere vicino alla fine». Gli esperti di NE, al contrario, continuano a ripetere che la crisi non ha toccato le imprese più solide e che il futuro si annuncia promettente, in particolare per la riforma della pubblica amministrazione e il passaggio delle old company al web. Visti da un’ottica “liberal” si tratta di due segnali contraddittorii, soprattutto per quanto riguarda il primo che invoca un preciso coinvolgimento dello Stato.

Insomma, il “futuro promettente” è più che altro una sorta di raschiamento del fondo del barile e comunque, guarda caso, un affidarsi alle scelte dello Stato e della pubblica amministrazione. E il libero mercato? Arriverà il “Welfare” delle dot.com? C’è da aspettarselo. Del resto, il panorama della NE è davvero disastroso. E a dirlo, più di ogni altro indicatore, è l’insistenza, quasi maniacale, degli operatori del settore “sulle magnifiche sorti e progressive”. È un punto importante, questo, per capire i limiti della “bolla virtuale”. La ripresa, in pratica, viene legata ad una scommessa ed alla capacità di creare nuovi miti sociali.

Come spiega Mandel nel suo ultimo libro il punto di forza della NE è stato, in questi anni, la spinta verso l’alto dei titoli delle start up dettata, più che da un solido progetto industriale, dalla copiosa affluenza dei capitali di rischio. Più forte era l’effetto annuncio della nascita di una nuova azienda della NE, più forte l’afflusso di capitali di rischio, più forte il balzo verso le altissime vette delle quotazioni di borsa. Un altro “critico” delle “magnifiche sorti e progressive” è Michael Wolff, uno dei primi “bruciati” dalle fiammate della NE che attualmente si occupa di media per il settimanale “New York Magazine” ed ha pubblicato un altro libro “dissacrante”, “Burn Rate”. Wolff sostiene che se Yahoo, tanto per fare qualche esempio, venisse trattata come un’azienda tradizionale (con multipli che rispecchiano i dati reali dell’azienda) non si troverebbe in questa situazione. Ma proprio le valutazioni stellari che società come questa hanno raggiunto nei mesi scorsi ne hanno causato il tracollo. Il problema è che è stato dato troppo peso alle valutazioni del mercato, constata Wolff. «Nelle industrie tradizionali la quotazione del titolo in Borsa non pesa tanto quanto ha pesato per le aziende Internet», dice Wolff che dà a Yahoo una valutazione massima di 2 miliardi di dollari contro i 9 miliardi di dollari di qualche mese fa e contro i 150 milliardi di dollari che il mercato le dava solo un anno fa.

Un meccanismo vecchio come il mondo che, applicato alla speculazioni e alla ricerca del profitto non ha fatto altro che aumentare la platea del “parco buoi” e i rischi per l’intera economia diminuendo i tempi di “realizzazione” dei profitti dei titoli, in mano a pochissimi. Naturalmente questo passaggio turbolento e devastante dei capitali di rischio lascerà segni fortissimi.

Ora tutti sono alla ricerca di “nuovi titoli”, di nuove start up da sparare sul mercato e allora ecco nuove sigle come e-government, web-far, e-learnig. Ma si tratta di piccole “nicchie” speculative che non saranno certo in grado di rilanciare alcunché. Cosa accadrà nella seconda metà dell’anno 2001, quando tutti gli esperti, meno Greenspan, naturalmente, prevedono una “ripresina” americana e una buona performance di quella europea? Non è ancora chiaro, secondo gli esperti, se l’aumento della domanda in Europa e in Asia sarà abbastanza forte da tenere a galla l’economia Usa. In Europa, in particolare, i segnali di una NE caratterizzata da rapida crescita e alti investimenti sono molto più modesti di quanto si sperasse. In Europa non c’è nemmeno un evidente boom degli investimenti. Nel 1999 la produzione di beni capitali è cresciuta appena al ritmo del 2,1% una cifra bassissima, e non ci sono prove concrete di un boom della spesa europea in Information Technology. Ironia della sorte, una ripresa in Europa e Asia potrebbe in realtà innescare una crisi finanziaria negli Stati Uniti e forse anche a livello globale. Il boom della NE negli Stati Uniti è dipeso da un crescente flusso di denaro dall’estero per finanziare gli investimenti e i consumi interni. Se la NE si diffonde, è questo il parere degli esperti, e gli investitori stranieri decidono improvvisamente che ci sono migliori opportunità in altre parti del mondo, il conseguente spostamento dei flussi degli investimenti potrebbe arrecare un grave danno dell’economia statunitense. Il sospetto è che assisteremo allo spettacolo di sempre: se non interviene la tanto vituperata “mano pubblica”, sia sotto forma di politica monetaria sia sotto forma di spesa pubblica tutta orientata all’IT, i capitali non avranno il coraggio di fare da scudo agli attacchi della recessione, anzi, come prevedono alcuni della “stagflazione”, stagnazione più inflazione. Tantomeno potrà farlo la NE. Ovunque, ma soprattutto in America, si sono ricostituite ingenti masse di capitale che aspettano un segnale convincente per tornare in Borsa. Lo aspettano soprattutto dalle aziende della NE. Ma non è apparso niente di simile. A luglio si aspettava un rialzo e invece è stata calma piatta: piccole impennate verso l’alto e grandi discese, una attaccata all’altra. Tutte inserite però in una linea di continuità che punta inesorabilmente verso li basso. È così da un anno. Quasi tutti gli analisti americani avvertono che il settore hi-tech e NE abbia tempi molto lunghi prima di uscire dalla palude di questi mesi. Non sarà una cosa tanto facile. Prima che le imprese tornino a ordinare grandi quantità di computer nuovi e nuovi collegamenti in fibra ottica devono essere andate in ripresa forte e sentirsi molto sicuri che la ripresa non durerà sei o sette mesi. Devono sentire, insomma, che per l’economia mondiale è cominciato un nuovo, lungo ciclo espansivo. Ma la situazione, oggi, non è questa. Basta un esempio per tutti. L’economia dell’auto scenderà nelle vendite in Usa dell’8-10% rispetto all’anno scorso.

«La diffusione delle tecnologie è un processo inarrestabile», sottolinea invece Elserino Piol, padre nobile della net economy, mente innovativa prima di Olivetti e poi di Omnitel, oggi decano dei venture capitalis italiani, quelli che amano “rischiare”. Spiega Piol: «Il problema è che troppo spesso si è fatta confusione tra Internet e le aziende giovani. Internet non c’entra con la crisi attuale, la colpa non è della tecnologia abilitante, che è importantissima. La crisi è dovuta al fatto che alcune aziende che basavano il loro business sulla Rete sono state sopravvalutate. Credere che fosse facile diventare ricchi e famosi senza sforzo semplicemente andando in Borsa, quelli che hanno diffuso queste idee sono gli assassini della net economy. Un altro errore è stato pensare che il mondo tecnologico non fosse soggetto a fenomeni ciclici, come altri settori. Anche il settore hi.tech richiede una fase di assestamento». Piol, chiaramente, dimentica di dire che ormai le “mele marce” hanno “contaminato” tutto il carico e che i flussi dei capitali di rischio creati dalla net economy sono talmente pesanti da condizionare, per il solo fatto di esistere, tutti gli ambiti dell’economia mondiale e della politica. Basterebbe, per esempio, analizzare il ruolo avuto dai fondi pensione in Usa. Secondo gli scenari strategici disegnati da Piol, poi, finita l’epoca del denaro facile da pompare nel calderone della dot.com ora toccherebbe alla OE cambiare il suo volto e renderlo più simile al modello virtuale. Questo più che una speranza sembra un atto di fede. La OE ha già scelto, e non certo l’innovazione. Che cosa è la globalizzazione se non il tentativo della OE di strutturare nuovi territori di sfruttamento tenendo come punto di riferimento il fatto, elementare, che la concorrenza si fa a partire dai costi?

Mandel, in “Internet Depression” approfondisce il ruolo avuto nello sviluppo della NE dai capitali di rischio e giunge alla conclusione che ciò che verrà messo alla prova nella prossima recessione sarà proprio la «propensione ad assumere rischi». Ora l’interrogativo è il seguente: che interesse avrebbero i capitali internazionali a “mettersi in discussione”, a cercare nuove strade tra old e new quando è la loro stessa “massa critica” a costituire di per sé un ostacolo insormontabile? A fianco delle NE non è cresciuta in questi anni proprio quella eccessiva finanziarizzazione che sta portando i capitali, e quindi l’economia internazionale, ad avvitarsi su se stessa?

La grande fase innovativa si è conclusa e ulteriori spinte non arriveranno certo dalla OE. E poi spazi veri e propri per ulteriori “scoperte” non ce ne sono più. Certo, a meno di intervenire pesantemente e rapidamente sulle organizzazioni sociali. Da buon cantore delle “magnifiche sorti e progressive” Mandel si guarda bene dal prendere in considerazione questi interrogativi. Preferisce rifugiarsi nella possibilità di nuovi sviluppi dell’economia, di nuove start-up, questa volta nel genoma umano e nei viaggi spaziali. Tutte pilotate da una “saggia” politica monetaria, quella centralizzatrice della Fed, naturalmente, che dovrebbe continuare a tener bassi i tassi anche quando ci sarebbe bisogno del contrario. È realistica una cura del genere? I capitali a zonzo per il mondo gradirebbero? E l’inflazione?

Il meccanismo è sempre lo stesso, lo ripetiamo, vendere l’illusione per tentare di far riprendere l’economia. La differenza rispetto all’ultima fase del capitalismo è che questa volta a “rischiare” devono essere anche la gran massa dei lavoratori, mettendoci dentro diritti e tutele, mentre precedentemente era il capitale stesso, per definizione, l’entità di rischio. Anzi, era questa capacità che gli attribuiva la prerogativa di considerarsi “capitale” e quindi presentarsi sul mercato rastrellando forza lavoro. Che cosa è che ha rivoluzionato questi ruoli?

Mandel mette in evidenza come il mercato azionario di fronte alla NE non è più soltanto un semplice spettatore innocente. «Al contrario, con l’aumento del capitale di rischio il mercato è diventato il punto di collegamento critico tra la crescita economica e l’innovazione. I corsi azionari in ascesa non sono solo il riflesso di una crescita economica più rapida, bensì una componente essenziale del sistema della NE di finanziare l’innovazione e il cambiamento tecnologico». Dopo l’ultima crisi di dot.com e start up, e delle aziende legate a queste, il meccanismo si è inceppato. Le aziende della OE non innovano e ciò blocca la NE. «L’essenza della NE - scrive ancora Mandel - è l’allargamento dei mercati azionari a investimenti più rischiosi. Un numero crescente di persone ha investito denaro in titoli tecnologici a elevata volatilità. Molte di queste società hanno appena qualche anno di vita e non hanno mai esibito alcun utile - la definizione stessa di rischio. E non c’è nemmeno la garanzia che diano qualche utile in futuro». Il mercato azionario cresce vertiginosamente, alimentando il capitale di rischio per nuove aziende e un processo d’innovazione più veloce. «Si crea così un processo che si autoalimenta». «Ma questa forza è anche la debolezza della NE. Quando alla fine il circolo virtuoso s’invertirà, tutti i fattori che sostenevano l’economia volgeranno nell’altra direzione. Il tasso di innovazione tecnologica, il livello di produttività e il livello di investimento aziendale diminuiranno tutti. L’inflazione accelererà e il mercato azionario si guasterà». È esattamente quello che è accaduto tra il 2000 e il 2001. Una caduta del mercato influenza direttamente la quantità di capitale di rischio disponibile per le nuove start-up, riducendo dunque il tasso di innovazione tecnologica e di aumento della produttività. Questo, a sua volta, si ripercuote sul mercato azionario, che va giù quando la produttività e gli utili crescono lentamente e l’inflazione aumenta. «Nella NE - scrive ancora Mandel - il mercato azionario è sincronizzato con le oscillazioni del ciclo tecnologico, creando perciò la possibilità di contrazioni molto più intense che in passato». C’è poi un ulteriore fattore aggiuntivo che aggrava la fase discendente del ciclo tecnologico. A quanto pare, la natura stessa delle industrie high.tech le rende molto più soggette ai cicli di espansione e contrazione. «I loro ingenti investimenti - continua Mandel - in R&D (Ricerca e Sviluppo, ndr) e in nuovo capitale immobilizzato sono una manna dal cielo quando l’economia va forte, ma quando la crescita rallenta hanno un mucchio di spese che non possono tagliare senza compromettere il futuro»: I massicci investimenti delle aziende high-tech sono tutti giustificati sulla base della crescita presunta dell’economia e dei mercati. Queste imprese stanno facendo enormi scommesse sul futuro. «Se la crescita rallenterà per un periodo prolungato, risulterà che hanno investito troppo e troppo velocemente, e dovranno cominciare a tagliare le spese in R&D e gli investimenti di capitale. E un grandissimo numero di lavoratori del settore tecnologico si ritroverà sulla strada». Un altro elemento che chiarisce i limiti della NE è la legge dei rendimenti crescenti. In un ambiente a crescita rapida ha senso sostenere alti costi e aspettarsi di recuperarli quando i mercati esistenti cresceranno e se ne apriranno di nuovi. Nella OE i rendimenti erano prevalentemente decrescenti. Nella NE, invece, quando la crescita rallenta o s’inverte, le imprese hanno ancora enormi costi fissi, senza molte entrate con cui coprirli. Una recessione rende molto rapidamente meno efficienti e redditizie le aziende con rendimenti crescenti di scala». Non hanno l’opzione di tagliare gli ordini di materie prime, perché ne hanno relativamente poche, né di sospendere dal lavoro gli addetti alla produzione, per lo stesso motivo. L’unica possibilità è ipotecare il futuro rallentando lo sviluppo dei nuovi prodotti». Come scrive Mary Finn, i rendimenti crescenti di scala «amplificano la risposta dell’economia ai disturbi provenienti da ogni fonte». In parole povere, questo significa che si possono avere grandi oscillazioni nell’economia a partire da disturbi piccolissimi. Il tutto in un contesto in cui i mercati finanziari ampliano le frontiere del rischio, dal venture capital alle azioni ipotecarie, il legame tra i lavoratori e le aziende diventa sempre più disorganico e lo stipendio sempre più precario anche per i dipendenti a tempo pieno e la globalizzazione ha creato la possibilità di crisi finanziarie che sono fuori della portata dei regolatori nazionali. Mandel inserisce la crisi della NE nella categoria della “Palm Pilot recession”. Una crisi che farà sentire il suo impatto più devastante proprio sui lavoratori istruiti, ben pagati, capaci di usare i computer, che si credevano immuni agli altri e bassi dell’economia. Particolarmente colpita sarà la forza lavoro mobile dei lavoratori temporanei, i consulenti indipendenti i freelance, i programmatori e i Web designer “in affitto”, che durante il boom della NE hanno prosperato. «Queste persone, che hanno giocato un ruolo essenziale durante i tempi buoni, scopriranno che le aziende hanno molto meno bisogno di loro quando la crescita, l’innovazione e l’assunzione di rischio rallenteranno».

Quali rimedi? Il ruolo del controllo monetario e dell’innovazione nella OE sono ancora strumenti importanti. Mandel dedica al primo un intero capitolo del suo libro. «I policymaker - scrive Mandel - devono essere consapevoli che è possibile che il rallentamento della produttività e l’aumento dell’inflazione riflettano una difficoltà dei mercati del capitale di rischio e non un eccesso della domanda sull’offerta. Alzare i tassi d’interesse, proprio come alzare il muso di un aereo in stallo, avrà l’effetto di ridurre ulteriormente il flusso dei finanziamenti per le nuove attività innovative, peggiorando di molto una situazione già difficile. I riflessi necessari per far volare la NE potrebbero essere molto diversi da quelli richiesti per guidare la OE». Il punto, ormai è chiaro, è che OE e NE sono strettamente intrecciate e quindi non è pensabile utilizzare uno strumento indirizzato esclusivamente verso una delle due senza prevedere effetti contrari nell’altro campo. È questa la contraddizione principale in questo momento. A sopportarla dovranno essere, guarda caso, i lavoratori e i cittadini. Saranno “strumenti”, quindi, che non solo attaccheranno i diritti consolidati, la vicenda delle stock options (i salari di carta bruciati dai tonfi di borsa dei titoli delle start-up) della NE in Usa lo dimostra ampiamente, ma porteranno una ulteriore aggressione, semmai ce ne fosse stato bisogno dopo il martirio monetarista degli anni ’80 e ’90, al Welfare e alla spesa sociale. La spesa pubblica, infatti, dovrà essere massicciamente e prevalentemente orientata verso il cosiddetto “Welfare delle dot.com” perché dovrà trainarne la ripresa. Senza parlare, poi, del fatto che una politica “ribassista” dei tassi potrebbe riaccendere l’inflazione e, conseguentemente, i vari governi metterebbero mano alla leva della disoccupazione per tentare di raffreddarla.