Mi pare che, per comprendere a fondo il significato della Riforma universitaria avviata dal governo di centro-sinistra e di fatto accettata, forse con qualche cambiamento, anche dal governo Berlusconi, si debba tenere conto del fatto che l’autonomia concessa alle istituzioni universitarie è solamente finanziaria, e sicuramente non ideologico-culturale, e tantomeno politica. D’altra parte, non mi pare ci sia tanto da meravigliarsi, dal momento che viviamo in una fase in cui gli uomini politici in genere sottolineano la necessità di mettere in piedi governi stabili (cioè non messi a rischio dal malcontento popolare), e, su questa base, elogiano i sistemi di voto maggioritari, che di fatto mettono il potere nelle mani di pochi ed impediscono a molti settori sociali di avere dei rappresentanti istituzionali.
Mi sia concesso di aprire una breve parentesi su questi nuovi sistemi politici ed elettorali, affermatisi negli ultimi anni, e ricordare che sono stati definiti dallo studioso americano Robert Dahl (1990) una forma di poliarchia, nella quale cioè governa un piccolo gruppo e la partecipazione delle masse consiste unicamente nello scegliere i dirigenti, nell’ambito di elezioni manipolate dagli schieramenti in lotta. In tale contesto, solo pochi sono investiti dell’autorità di prendere decisioni di grande rilevanza economica e sociale per tutti i membri di una comunità.
Sulla svolta verticistica della politica universitaria non dico nulla di nuovo, giacché Alessandro Monti (Università di Camerino) fa notare che (2001: 28-29) «è ora il Ministro che definisce sia i criteri generali che esso stesso deve osservare nella definizione delle tipologie nazionali dei corsi, sia i criteri specifici che le università debbono rispettare per la messa a punto dei piani di studio... Sono così abrogate le regole previste dalla legge 341 del 1990, che il Governo Andreotti-Ruberti aveva promosso per l’aggiornamento dei tipologie dei corsi esistenti e l’istituzione di nuovi corsi (parere tecnico vincolante del Consiglio universitario nazionale al Ministro, avviso preventivo dei rappresentati degli ordini e dei collegi professionali, valutazione delle prospettive occupazionali) e sostituite con regolamenti emanati in via amministrativa».
Monti sostiene anche le classi delle lauree, stabilite dal Ministro, «prevedono vincoli e condizionamenti all’autonomia decisionale degli atenei, prefissando obiettivi formativi, ambiti disciplinari, quantità e tipologia delle attività didattiche, crediti formativi» (ibidem).
Insomma, mi pare si possa dire che il Ministero ha stabilito i contenuti, le forme della didattica e gli obiettivi di quest’ultima, in evidente contrasto con la libertà di insegnamento prevista dalla nostra Costituzione.
Non è un caso, pertanto, che l’Associazione italiana dei costituzionalisti ha mosso una serie di critiche alla politica universitaria di questi ultimi anni. In primo luogo, essi rilevano in un documento del febbraio 2000 che: «...l’autonomia universitaria deve, secondo quanto dispone l’art. 33 della Costituzione svolgersi nell’ambito delle leggi della Repubblica (e non di semplici regolamenti ministeriali) sì da offrire agli utenti-studenti e alla società intera un servizio in termini di formazione culturale e professionale qualitativamente omogeneo».
Quanto alla valutazione i costituzionalisti scrivono: «...i criteri e i parametri per la valutazione sarebbero, anziché fissati dal legislatore, demandati ad un organismo, il Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, la cui nomina e composizione non offrono sufficienti garanzie relativamente alla formazione dei criteri per apprezzare la qualità dell’impegno scientifico e didattico dei docenti universitari. Né appare conveniente che la valutazione dell’attività scientifica e di quella didattica di ogni singolo docente sia effettuata in forma centralizzata dai Nuclei di Ateneo...»:
La veridicità della tesi qui sostenuta (la Riforma ribadisce l’autonomia finanziaria e non culturale degli atenei) potrà esser meglio dimostrata se ci soffermiamo ad analizzare i procedimenti di valutazione, che saranno applicati al funzionamento ed allo sviluppo dell’organizzazione universitaria. Ovviamente l’impostazione verticistica non si riscontra solo nella valutazione, essa è presente in tutto l’impianto della riforma, che sottomette la ricerca scientifica e l’attività didattica alle esigenze di commitenti esterni e/o al ministero, che li rappresenta.
Si tenga presente inoltre che, proprio in questi giorni, il ministro della Pubblica Istruzione (che ora accorpa università, scuola e ricerca) Moratti ha reso note, attraverso la stampa, le sue idee sulla valutazione anche nella scuola. Il Sole-24ore del 13 luglio 2001 scrive (pag. 6), infatti: «Oggi al ministero della Pubblica Istruzione si riunisce una commissione di 14 persone - esperti della scuola e del mondo aziendale - che dovrà mettere a punto un nuovo modello di Istituto di valutazione in grado di misurare i risultati delle strutture scolastiche pubbliche e private».
Nelle intenzioni del Ministro (in realtà è questa una scelta politica già fatta in altri paesi europei) la valutazione dovrà essere affidata ad un agenzia di carattere privatistico, indipendente dall’amministrazione scolastica e strettamente legata alle imprese. La valutazione degli insegnanti determinerà, inoltre, il loro trattamento economico, che sarà stabilito in base alle specifiche manioni svolte ed alle competenze acquiste, accantonando il fattore anzianità. Come sempre avviene in questi casi, tali procedure di valutazione, connesse al trattamento economico, si tradurranno in forme di pressione su coloro che saranno valutati da parte dei valutatori. E ciò naturalmente non favorirà l’instaurazione di un clima di collaborazione nelle nostre scuole.
Molti aspetti della riforma universitaria sono stati analizzati e sono stati oggetto di dibattito. Un aspetto - mi - pare è stato trascurato ed è quello delle procedure di valutazione, che già sono operative e che mirano alla valutazione dell’attività didattica, di ricerca e di gestione della struttura universitaria, con lo scopo di stabilire l’entità delle risorse da distribuire alle varie università.
L’aver trascurato questo aspetto è cosa grave, proprio perché i sostenitori della riforma lo considerano un elemento fondamentale, senza il quale la stessa riforma non potrebbe essere messa in pratica, dato che valutazione e autonomia sono legate da una relazione di complementarità e debbono essere realizzate contestualmente (Guerzoni, 1997: 3-4).
Per scrivere questo articolo, ho utilizzato pubblicazioni ufficiali, da cui ho ripreso anche certe espressioni, le quali esprimono molto bene l’ideologia che sta alla base della nuova concezione dell’università, le cui attività (didattica e ricerca) dovranno essere orientate al raggiungimento di fini ad essa esterni. Ad esempio, come si vedrà, alcuni esperti di queste procedure parlano di laureato come «prodotto finito», dando così l’idea - non del tutto errata - che nel nostro mondo tutto è ridotto a cosa, o meglio a merce.
Come cercherò di mostrare, ritengo che il nuovo sistema di valutazione è anche uno strumento fondamentale per far accettare ai docenti la riforma universitaria, per far cambiare loro la stessa concezione della ricerca e della didattica, sulla base del criterio dell’inclusione o esclusione dall’accesso alle risorse disponibili per l’università. A mio parere questa ulteriore innovazione nella vita universitaria è sostanzialmente antidemocratica, perché prevede che il funzionamento dell’università non sia valutato nell’insieme da coloro, che studiano e lavorano in essa; dicono alcuni, ciò sarebbe autoreferenziale, e pertanto negativo. E proprio per evitare questa autoreferenzialità sono stati creati organismi (i cui caratteri descriverò brevemente), che funzionano come “istituzioni sorveglianti” rispetto ad “istituzioni sorvegliate”.
Come si vede l’idea di istituzioni sorveglianti è in contrapposizione con la stessa nozione di autonomia prevista dalla riforma. Inoltre, non è prevista la risposta alla vecchia domanda: chi sorveglierà i sorveglianti? Inoltre, dato che ad un certo punto la scala gerarchica dovrà pure terminare, a meno di far direttamente riferimento a Dio, anche i sorveglianti dovranno essere necessariamente aureferenziali.
Come ho già detto, le norme sulla valutazione universitaria distruggono la già scarsa democraticità della vita universitaria, la quale proprio perché strumento fondamentale per la riproduzione della classe dirigente, ha sempre conosciuto forme fortemente selettive e di cooptazione del personale universitario, in molti casi destinato a rivestire importanti ruoli politici (si pensi a Prodi ed Amato, si pensi al fatto che circa il 10% dei parlamentari sono professori universitari). Non posso fare a meno di sottolineare che l’università è caratterizzata dalla limitazione del diritto di voto. Infatti, nei diversi organismi universitari le decisioni sono prese sulla base del voto secondo il ruolo di appartenenza: i professori ordinari hanno il diritto di votare su ogni questione, gli associati possono esprimersi su una gamma meno vasta di problemi ed i ricercatori, in alcune università, non possono nemmeno eleggere il preside e il rettore.
In un incontro col Presidente della Conferenza dei rettori, avvenuto il 3 luglio 2001, la stessa Moratti ha criticato il sistema concorsuale italiano, affermando che non ha eliminato due mali cronici: «... lo ius loci che fa preferire troppo spesso i candidati locali, una certa faciloneria nel concedere idoneità, la stesura di reti di accordi tra professori delle stesse materie in sedi diverse». Mi pare che non ci sia bisogno di nessun commento (il corsivo è mio).
Riguardo al tema, che assume oggi una grande rilevanza nel contesto della cosiddetta riforma universitaria, ossia la relazione tra scienza e profitto, mi pare che i meccanismi di valutazione, così come si stanno configurando, hanno lo scopo di controllare sempre più l’impiego delle risorse e di indirizzarle ad una ricerca applicata o finalizzata alla produzione industriale, ad un’attività didattica in grado di fornire come “prodotto finito” un laureato efficiente e produttivo.
In primo luogo comincerò col dire che sin dal 1996 è stato istituito l’Osservatorio per la valutazione del sistema universitario, che è stato affiancato da Nuclei di valutazione negli atenei, anche se non tutte le università hanno proceduto in questo senso.
Nell’istituzione dei Nuclei di valutazione gli atenei hanno tenuto conto dell’indicazione della CRUI (Conferenza dei Rettori), secondo la quale dovrebbe trattarsi di «organismi meramente tecnici e non di rappresentanza politica». Proprio per questa ragione i loro membri debbono essere nominati (dal rettore o dal consiglio di amministrazione a seconda degli statuti), e non eletti dalle diverse componenti universitarie. I membri del nucleo di valutazione possono essere interni o esterni rispetto ad una certa università; di fatto, i nuclei di valutazione esistenti sono costituiti dai professori ordinari che valutano la loro università o che vanno a valutare le università altrui (Rizzi, 1997: 28-29).
Sull’attività dell’Osservatorio nazionale, anch’esso
nominato e non eletto, e sottoposto direttamente al ministro, - come si è visto
esprimono riserve persino i costituzionalisti, i quali rilevano che i criteri
valutativi da esso adottati (e non stabiliti dal legislatore) e la sua stessa
composizione non garantiscono una corretta valutazione dell’attività di
ricerca e di insegnamento.
Come si vede viene messa persino in discussione la democrazia rappresentativa: oggi non è più sufficiente pilotare dall’alto gli esiti elettorali, si ha addirittura la forza di imporre in maniera diretta ed esplicita coloro che dovranno controllare il meccanismo della macchina universitaria.
Queste osservazioni - mi pare - mettono in evidenza come la riforma universitaria, fondata sulla cosiddetta autonomia, nasconda in realtà il tentativo di subordinare gli atenei a forme di controllo ad essi esterne, e che sostanzialmente fanno capo al ministero e quindi alla linea politica del governo. È evidente che tutto ciò lascerà poco spazio a linee di ricerca o di attività didattica “dissenzienti”, o poco produttive sulla base dell’ottica aziendalistica ormai dominante.
Ma vediamo quali sono i criteri della valutazione, che ci vengono ampiamente illustrati da una serie di numeri della rivista “Università Ricerca” pubblicata dal MURST.
Cercherò di essere breve per evitare di annoiare il lettore con una serie dati tecnici, limitandomi a dare alcune informazioni che ci permettono di cogliere lo spirito della nuova valutazione.
In primo luogo nell’opinione degli esperti del ministero il processo di valutazione deve essere tradotto in termini quantitativi, in modo da poter attribuire all’attività didattica e ricerca un punteggio e creare così graduatorie (o meglio liste di controllo, come viene detto esplicitamente).
Faccio un esempio per farmi capire. La valutazione della ricerca di un professore può essere fatta sulla base di tecniche “bibliometriche”, quali l’individuazione del numero delle sue pubblicazioni, il numero delle volte che il suo lavoro viene citato da riviste di rilevanza internazionale. Tutto ciò concorrerà a stabilire in termini quantitativi il cosiddetto fattore di impatto di una certa ricerca, ed anche in questo caso renderà possibile la compilazione di graduatorie.
Come si vede, uno dei perni fondamentali del sistema di valutazione è dato dalla convinzione di poter trasformare la qualità in quantità, di poter ridurre a un numero il valore di una ricerca scientifica, la scoperta di una nuova impostazione in un certo ambito di studi, l’individuazione di elementi finora trascurati in un determinato settore.
Questa convinzione non è certo nuova e si fonda sul tentativo di dare un velo di oggettività a valutazioni, che ne sono del tutto prive, dal momento che sono formulate sulla base di certe esigenze di politica economico-sociale. Queste ultime sono l’espressione dell’attuale fase storica e il loro rispetto favorirà una minoranza a discapito di una maggioranza, che comincia però a dar segni di disagio e di malessere. In definitiva, non vi è niente di più soggettivo di tale sistema di valutazione, non vi è niente di più improbabile dell’operazione con cui si tenta di trasformare la qualità in quantità, anche perché l’obiettivo è reso trasparente dalle stesse parole utilizzate dagli esperti: creare liste di controllo.
Inoltre, si finge di non sapere che, almeno in certi ambiti, la pubblicazione di un articolo o di un libro non sono sempre legati al loro valore scientifico, ma all’esistenza di legami di vario tipo tra l’autore e l’eventuale editore.
Un altro modo di valutare la ricerca è individuato nell’analisi del rapporto costi-benefici e costi-efficacia. Tale rapporto ci consentirà di scegliere tra i diversi percorsi di ricerca, per individuare quello che con costi minori sarà più efficace nel favorire lo sviluppo sociale ed economico e produrrà, pertanto maggiori benefici.
Un esperto così si esprime su questo tema: « L’attenzione per queste tecniche discende dall’opportunità, che esse paiono fornire, dell’utilizzo di uno strumento di analisi comparativa oggettiva attraverso indicatori sintetici tra le diverse opzioni possibili, a fronte di interventi da realizzarsi con una quantità limitata di risorse pubbliche» (Silvani, 1998: 12).
In questa prospettiva valutativa sembra evidente ad alcuni che la differenza tra ricerca di base e ricerca applicata tenderà a scomparire, o meglio sembra chiaro che saranno preferite quelle ricerche in cui tale scarto può essere facilmente superato. Infatti, come scrive la rivista della CGIL Università, in certi settori disciplinari, come nelle biotecnologie, la distanza fra un risultato scientifico di base e le sue applicazioni industriali può essere brevissima. Sempre per la rivista della CGIL è tempo ormai di capire il vero senso dell’economia basata sulla conoscenza (come hanno fatto Usa, Giappone, Germania, Finlandia etc.) e riconoscere in ogni scoperta scientifica gli elementi che possono trasformarla, direttamente o indirettamente, in prodotti o servizi nuovi e remunerativi (Biorci, 2000: 10). In questo senso lo stesso il documento sul Programma nazionale di ricerca, elaborato dagli esperti del governo, viene giudicato arretrato dall’autore su menzionato. Quest’ultimo ricorda il documento presentato dal commissario europeo Busquin (Towards a European Research Area), nel quale si tace sulla distinzione tra ricerca di base e ricerca applicata e si individua un’unica motivazione della ricerca. Tale ragione sarebbe quella di «... essere funzionale allo sviluppo e al benessere della società, in tutti i suoi aspetti, dalla salute dei cittadini ai trasporti di persone e merci, dalle comunicazioni alla tutela dell’ambiente» (ibidem).
Lo stesso autore osserva che il mondo industriale italiano sembra poco propenso ad investire nella ricerca come invece sarebbe auspicabile e come prevede il documento Linee Guida del Programma Nazionale di Ricerca. Quest’ultimo ipotizza un aumento degli investimenti privati nella ricerca e nell’innovazione, il quale dovrebbe in sei anni colmare il divario tra i primi e gli investimenti pubblici. Ciò darebbe naturalmente un grande slancio allo sviluppo della tecnologia italiana (ibidem).
Cosa possiamo ricavare da questo quadro sintetico? In primo luogo mi pare si possa dire che viene istituito un sistema puramente formale di valutazione, apparentemente neutrale ed obiettivo, ma che dà per scontati e, quindi, considera indiscutibili una serie di presupposti.
Primo presupposto: la ricerca deve essere funzionale allo sviluppo ed al benessere della società, in tutti i suoi aspetti, senza specificare che implicitamente ci si sta riferendo all’attuale configurazione sociale. E ciò perché si dà per scontato che il ricercatore non si faccia abbagliare dall’idea di altre ipotesi sociali, e che le scelga come presupposti della sua attività di ricerca. Egli piuttosto si deve far guidare dai decision maker politici e sindacali, i quali sanno elaborare meglio di lui la politica della ricerca scientifica o individuare i suoi obiettivi politici ed economici. Non a caso dunque gli organismi di valutazione son detti essere di natura tecnica e non politica. In realtà, essi sono di natura celatamente politica (nella misura in cui non mettono in discussione una determinata configurazione socio-economica), e dichiaratamente tecnica.
Secondo presupposto: il rifiuto di quelle ricerche volte all’ampliamento delle conoscenze, in cui generalmente si collocano, ma non solo, le ricerche umanistiche (con l’esclusione della cosiddetta ingegneria sociale), perché si tratta di definizione assai vaga, la quale secondo Silvani non chiarisce in maniera precisa all’obiettivo da raggiungere, e non permette il controllo del processo realizzativo. Pertanto egli la considera rischiosa (Silvani, 1998: 7). Per queste ragioni, inoltre, non sottoponibile alle strategie valutative approntate dal ministero, che hanno bisogno di dati precisi e misurabili, sempre nel tentativo di trasformare la qualità in quantità.
L’attacco contro la ricerca destinata all’ampliamento delle conoscenze è un attacco alla dimensione teoretica della ricerca, che ovviamente non riguarda solo le discipline umanistiche, ma anche le cosiddette scienze dure.
Dietro questo attacco c’è tutta una concezione dell’attività scientifica, la quale viene subordinata al raggiungimento di meri obiettivi tecnici e pratici. Contro questa concezione si debbono schierare coloro che intendono, ancora oggi e contro le mode diffuse, l’attività teoretica come la massima espressione delle potenzialità umane e la coltivano per lo sviluppo e l’arricchimento di queste ultime; per questa ragione non ritengono che essa debba esser messa direttamente in relazione con la realizzazione di obiettivi pratici. D’altra parte, coloro che sottolineano la necessità di stabilire un rapporto tra università e società, tra università e mondo del lavoro (o meglio impresa), finiscono in realtà col vincolare l’attività di ricerca e didattica agli obiettivi, che caratterizzano questa forma di vita sociale, con la sua specifica struttura sociale. Ovviamente anche i difensori della dimensione teoretica della ricerca non ritengono che essa debba astrarsi dalla vita sociale, ma sottolineano che questo legame può anche tradursi in riflessione critica sulla società attuale, o sulla rappresentazione che di essa viene diffusa dai mass media. Proprio per non perdere questo aspetto critico della ricerca è necessario che sia mantenuto un certo distacco non solo materiale, che si concreta nel finanziamento pubblico ad istituzioni pubbliche, ma anche morale e ideologico dalla forma sociale nella quale il ricercatore si trova ad operare.
Vorrei ora descrivere brevemente i criteri individuati dal MURST per valutare l’efficacia didattica degli atenei. Come sapete la riforma universitaria parte da un presupposto indimostrato: lo scarso numero dei laureati rispetto agli immatricolati sarebbe determinato dal funzionamento dell’organizzazione universitaria. Secondo la già citata rivista del Murst (Allegato A.2.1) il tasso di successo medio su tutte le facoltà italiane sarebbe del 38%, ossia su circa un milione e mezzo di iscritti alle università italiane circa 825.0000 / 975.000 studenti raggiungeranno la laurea. Dicevo presupposto indimostrato, non per scaricare i docenti universitari della responsabilità dello scarso numero di laureati, ma perché tale ragionamento non tiene conto di una serie di fattori assai importanti, primo tra tutti la carenza di sbocchi lavorativi per gli stessi laureati, soprattutto in certi settori. Carenza che certo non spinge i giovani a raggiungere rapidamente il traguardo della laurea, a addirittura a conseguirlo. Secondo un’indagine condotta sulla condizione occupazionale dei laureati del 1997 e del 1998 sembra, tuttavia, che vi sia un miglioramento, dal momento che 56 laureati su cento, ad un anno dalla laurea, al momento della ricerca, avevano trovato lavoro. Si chiarisce che nell’indagine non si considera occupato colui che svolge attività di qualificazione (tirocinio, dottorato etc.), ma non si specifica nemmeno se l’occupazione, cui ci si riferisce, è stabile o no. Si aggiunge anche che la situazione occupazionale è diversa a seconda del tipo di lauree conseguite (Cammelli, 2000: 22).
Oltre al tasso di successo degli atenei il ministero suggerisce di tener conto di un altro indicatore quantitativo: lo studente equivalente a tempo pieno. Questi è colui che sostiene gli esami previsti ogni anno accademico ed arriva a conseguire il titolo. Tenendo conto di questo indicatore si può stabilire che il carico didattico delle varie università equivale al carico dovuto ad una popolazione studentesca teorica, che fruisse appieno e nei tempi previsti del servizio formativo. Gli studenti teorici corrisponderebbero a circa il 40% degli studenti immatricolati. Se - come pare - sta avvenendo è questo il dato su cui si baserà il ministero per la distribuzione delle risorse agli atenei, è chiaro che lo studente, che non rientra in questi parametri, rappresenta una spesa inutile e superflua, anche se col pagamento delle tasse contribuisce al funzionamento dell’università per i cosiddetti studenti effettivi.
Questa scelta porterà ad un ridimensionamento delle università, dovuta anche alla diminuizione delle iscrizioni, registrata in questi ultimi anni, e la prima conseguenza diretta di ciò sarà l’esclusione dei giovani dalla carriera universitaria, trasformando sempre più la struttura universitaria in una sorta di gerontocrazia.
Un ultimo punto prima di concludere. La mancanza di forti spinte ideali, che caratterizza la nuova università orientata alla ricerca ed alla didattica finalizzate alla produttività economica, è sottolineata dagli stessi sostenitori della riforma. Proprio per questa ragione questi ultimi ritengono opportuno individuare un altro collante, che tenga insieme tutti coloro che lavorano nell’università, e che li faccia sentire parte di una comunità di interessi e di ideali. Questo collante dovrebbe essere costituito da ciò che la rivista della CGIL chiama «l’identificazione delle persone con la propria organizzazione del lavoro» (Croci, 1998: 32), la quale - mi pare di ricavare - consisterà nell’accettazione acritica della modalità di funzionamento dell’istituzione, dei suoi obiettivi e finalità, della sua stessa strutturazione certamente non democratica. Tale accettazione è sollecitata dai riformatori sulla base della natura contraddittoriamente definita dai non ideologica della “macchina universitaria”, la quale - se le procedure di valutazione qui analizzate funzioneranno - sarà efficace ed affidabile nel raggiungimento di obiettivi, che altri hanno individuato per essa. In questo senso, per il fatto che l’università sembrerebbe vivere in una sorta di «anarchia organizzata», pare opportuno all’estensore dell’articolo citato «... imporre immediatamente alcuni valori...» e una nuova cultura, la quale opererà come elemento di «...integrazione, di stabilizzazione e identità profondamente interiorizzato dai propri componenti». Facendo riferimento a 1984 di Orwell, la stessa rivista della CGIL riconosce che questa nuova cultura dell’università potrebbe far pensare ad una forma di totalitarismo. (Croci, 1998: 32). Credo abbia ragione.
Allegato A.2.1, “Università Ricerca”, 1997, VIII (4).
Biorci G., La modifica del costume e il fattore fiducia, “Università Progetto”, 2000, V (8-9).
Cammelli A., La condizione occupazionale dei laureati del 1997 e del 1998, “Università Progetto”, 2000, V (8-9).
Croci G., Verso una cultura organizzativa dell’università?, “Università Progetto”, 1998, III (12).
Dahl R. A., La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 1990.
Guerzoni L., Autonomia e valutazione: un binomio inscindibile, “Università Ricerca”, 1997, VIII (4).
Ludovico M. Sugli insegnanti il ciclone Moratti, Il Sole-24ore, 13 luglio 2001.
Monti A., I costi e i benefici della riforma dei corsi universitari, “Università progetto”, 2001 (1), pp. 28-31.
Rizzi D., Relazione per la valutazione del sistema universitario, “Università Ricerca”, 1997, VIII (4).
Silvani A., I metodi, le tecniche e le procedure per la valutazione della ricerca, “Università Ricerca”, IX, 1998 (3).
NOTE
1 Docente Università “La Sapienza”, Roma.