“Impero” e “lavoro immateriale”. Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe

Alberto Burgio

1. Attualità di Marx? [1]

E’ diffusa nell’attuale dibattito teorico-politico la propensione a ricavare dall’osservazione delle trasformazioni in atto nei sistemi di produzione e riproduzione la conseguenza della marginalità del rapporto capitale-lavoro, della fine della centralità della classe operaia ai fini del conflitto anti-sistemico, dunque - lo si espliciti o meno - della “obsolescenza” della critica marxiana del capitalismo. Si pensi a talune analisi del cosiddetto lavoro autonomo “di seconda generazione” (frainteso nel senso di una “ri-artigianalizzazione” del lavoro, emancipato dalla dimensione salariata); alle apologie del “terzo settore” (presentato come àmbito sottratto alla relazione mercantile); alla discussione sulla disoccupazione strutturale (nella misura in cui si manca di riconoscervi una forma di impiego delle forze produttive funzionale al contenimento del “costo” del lavoro vivo, e in questo senso una figura del lavoro sociale). [2] Al medesimo esito approda anche la linea di ricerca che fa capo ad Antonio Negri e alla cerchia dei suoi allievi, [3] ma in questo caso occorre segnalare una peculiarità.

Se altri autori arrivano a dichiarare Marx più o meno inservibile perché considerano il lavoro “finito” o comunque talmente cambiato (“autonomo” e quindi non più salariato) da non poter essere correttamente indagato sulla scorta del modello analitico marxiano; l’ipotesi elaborata da Negri perviene allo stesso risultato (anche per Negri si tratta di andare decisamente “oltre Marx”) muovendo da premesse analitiche opposte, cioè dall’idea che lo spazio occupato dal lavoro (da un lavoro per di più morfologicamente identico alla stessa prassi vitale, perché sempre più incentrato su competenze linguistiche e su dinamiche relazionali) si sia a tal punto dilatato da coincidere con la vita stessa degli individui, sicché appare ormai impossibile distinguere tra attività produttive, improduttive e riproduttive; tra occupazione e disoccupazione; tra capitale costante e capitale variabile e, a maggior ragione, tra mezzi di produzione e forze produttive. Ne discendono, analiticamente, due conseguenze, entrambe rilevanti.

Negri fa propri e radicalizza spunti elaborati dall’operaismo italiano e dal pensiero post-marxista d’Oltralpe (Debord, Guattari, Deleuze). Su questa base teorica generale si definisce, nei più recenti scritti di Negri, la categoria del “lavoro immateriale”, che può essere considerata l’esito coerente ed estremo di una riflessione più che venticinquennale, governata da una intuizione indubbiamente significativa. L’idea che sta alla base dell’attuale percorso critico di Negri è che nel suo sviluppo postfordista (coincidente la crisi della grande fabbrica e la scomparsa dell’operaio massa), il capitale tenda a sussumere sotto il proprio controllo diretto l’intero àmbito sociale e la prassi vitale nel suo complesso. La fabbrica si socializza, nel senso che, per il fatto stesso di vivere e di riprodursi, l’intera collettività diviene terreno di attività produttive immediatamente soggette al comando capitalistico. Il capitale diviene compiutamente “capitale sociale” nella misura in cui si appropria completamente (“sussume realmente”) la società, la quale diviene nel suo insieme forza produttiva alle dirette dipendenze del capitale. [4] L’operaio massa cede il passo all’operaio sociale, il quale a sua volta, dacché il lavoro non è più distinguibile dalla vita stessa, diviene “moltitudine bio-politica”.

Al di là delle esasperazioni che tra breve cercherò di porre in evidenza, non si può negare che questa interpretazione (coerente con l’intuizione marxiana della tendenza specifica del capitalismo alla “diretta socializzazione” del lavoro) [5] colga anche aspetti reali dei fenomeni verificatisi nel corso della ristrutturazione capitalistica seguita alla crisi sociale, economica e politica verificatasi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, allorché il capitale risponde alla radicalizzazione del conflitto operaio attraverso una generale trasformazione dei rapporti tra fabbrica e territorio e tra classe operaia e forza-lavoro sociale, volta a ostacolare la costituzione di soggettività antagonistiche.

È un fatto che le risposte del capitale (investimenti labour saving ed esternalizzazione) abbiano portato l’impresa da un lato a contrarsi, dall’altro a intrecciare un più stretto rapporto con il territorio nel quale la catena della valorizzazione è disseminata. I processi produttivi si destrutturano, tendono ad assumere assetti informali (“flessibili”) per quanto riguarda lo statuto giuridico dei lavoratori e la determinazione delle figure professionali. L’hinterland metropolitano e le reti intercittadine che hanno trasformato intere regioni in megalopoli, divengono retroterra della grande impresa (“distretti” produttivi), dando, se non altro, l’impressione che ad essere incaricata della gestione di segmenti del processo di produzione immediato sia ormai la società stessa, nel suo insieme.

La seconda conseguenza della interpretazione data da Negri alle nuove caratteristiche della riproduzione capitalistica concerne l’agenda politica. L’ipotesi della sostanziale indistinzione tra attività lavorative e attività vitali induce a porre al centro dell’interesse il tema della cittadinanza quale referente funzionale della rivendicazione critica. L’idea è che ciascun individuo abbia titolo alla retribuzione non perché erogatore di forza-lavoro in una forma e in un contesto determinati, bensì in quanto membro di una comunità civile, sussunta come tale in toto nel processo di valorizzazione. Per usare le categorie di Marx oltre Marx, la “separazione” tra tempo e quantità di lavoro vivo erogato e potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro si è ormai spostata “dall’interno del processo” di produzione immediato “all’esterno”, coinvolgendo “una soggettività indipendente” [6] dal processo stesso (e, a maggior ragione, dal rapporto salariale) che ha quindi titolo a vedersi retribuita la propria attività produttiva di ricchezza. È questa la base teorica della richiesta di un “reddito di cittadinanza”, la cui plausibilità andrebbe considerata in relazione a queste premesse analitiche e non in base a considerazioni di opportunità politica contingente. Al di là della approssimativa convergenza con altre proposte consimili (come per es. quella di un “salario sociale minimo”, da corrispondersi alle fasce sociali più povere), l’idea di un “reddito di cittadinanza” muove da premesse radicalmente differenti da quelle proprie di qualsiasi tradizionale misura di welfare.

Come si diceva, fonte del diritto al reddito non è ciò che si fa (o non si fa), né ciò che si ha (o non si ha), bensì il fatto stesso di essere, poiché essere (vivere nell’ambito di una collettività) implica di per sé produrre valore. L’idea è che la differenza apparentemente ovvia tra “lavoro sommerso” e “vita non retribuita” non trovi più alcun riscontro nei reali meccanismi di riproduzione, e si riduca quindi a un “pregiudizio lavorista”. Ogni “fare” individuale (compresa l’attività del bambino intento al gioco o del telespettatore che assiste a uno spettacolo) è lavoro, benché “lavoro immateriale”, cioè caratterizzato da “produzioni intangibili”, qualitativamente identiche ai flussi affettivi generati dall’interazione e dal contatto umano. Dopodiché il cerchio della sussunzione totale della vita al capitale e della loro identità reciproca si chiude.

Se ogni forma di vita, di esperienza e di cooperazione “è completamente immanente all’attività lavorativa” e produttiva, quest’ultima, specularmente, prende la forma “dell’interazione cooperativa tramite reti linguistiche, comunicazionali e affettive”. [7] È, almeno in apparenza, un sillogismo impeccabile, tramite il quale Negri mette fuori gioco la teoria marxiana del valore e costruisce, ad un tempo, la teoria - come egli stesso scrive - di un “comunismo spontaneo ed elementare”. [8]

 

2. Il paradigma imperiale

Fin qui, per così dire, la metacritica dell’economia politica elaborata da Negri negli anni Settanta e Ottanta. Ad essa si è aggiunto in tempi recenti un nuovo, cospicuo capitolo (il grosso volume, Empire, scritto a quattro mani con Michael Hardt), rapidamente assunto dalla sinistra “critica” tra i principali punti di riferimento per l’analisi della situazione politica internazionale sullo sfondo della cosiddetta “globalizzazione”. Vediamo di delineare in poche righe la rappresentazione della realtà prospettata in queste pagine, [9] che, benché non ancora tradotte in italiano, parrebbero essere già divenute senso comune.

Che cos’è l’“Impero”, nella lingua di Negri e Hardt? È la “nuova formazione storica” sorta dal tramonto della sovranità moderna e dal declino della struttura politica (lo Stato nazionale) in cui la sovranità moderna si è incarnata. È il soggetto politico nel quale convergono “una nuova logica e una nuova struttura del potere”, idonee a governare i circuiti mondiali della produzione e il mercato mondiale. In una battuta, l’Impero è “il potere sovrano che governa il mondo”. [10] Nato sulle ceneri degli Stati nazionali, esso rappresenta l’approdo e il superamento dell’imperialismo, dimodoché - osservano Hardt e Negri - alla triade Stato nazionale-imperialismo-modernità fa oggi riscontro il binomio Impero-post-modernità.

Con questa definizione, Hardt e Negri parrebbero discostarsi dalla vulgata economicistica che raffigura l’attuale fase dei processi di mondializzazione come una dinamica di sostituzione del capitale transnazionale all’autorità politica degli Stati, dunque come la costituzione di un dominio immediatamente economico sul mondo. La loro prospettiva sembrerebbe riservare un ruolo decisivo al comando politico e porre l’accento, equilibratamente, sul rapporto tra le logiche materiali della riproduzione e le dinamiche di potere e di regolazione inerenti al governo dei corpi sociali. In realtà, questa importante intuizione va perduta, per effetto della prepotente ispirazione riduzionistica che percorre anche l’analisi dei processi di riproduzione formulata da Negri.

Come lo sfruttamento, anche il potere dell’autorità imperiale è dappertutto e in nessun luogo. E come si darebbe totale identità tra vita e lavoro, così anche la politica coinciderebbe ormai totalmente con l’economia. La politica come “sfera di mediazione tra forze sociali in conflitto”, scrivono Hardt e Negri, non ha più ragion d’essere; [11] l’Impero rappresenta un “mutamento radicale” che finalmente rende possibile “il progetto capitalista di riunire potere economico e potere politico”, di “realizzare un ordine propriamente capitalista”, nel quale “lo Stato e il capitale coincidono effettivamente”. [12] La realtà imperiale è monistica, abolisce le dualità che innescavano il conflitto moderno. Il potere trionfa in virtù della sua immediata totalità, raggiungendo i più profondi recessi del corpo sociale: l’Impero sorge da “una trasformazione radicale che rivela la relazione immediata tra il potere e le soggettività”, e che consente al nuovo sovrano “di dominare gli spazi infiniti del pianeta, di penetrare le profondità del mondo biopolitico e di affrontare una temporalità imprevedibile”. [13]

Deriva da qui uno dei tratti caratteristici del “paradigma imperiale”, su cui più si è concentrata l’attenzione, complici i recenti sviluppi della situazione internazionale. L’idea che il mondo sia ormai unificato sotto un’unica autorità economico-sociale (“il concetto di Impero è caratterizzato in modo fondamentale dall’assenza di frontiere”) [14] sorregge la tesi della fine della guerra e della sua riduzione a conflittualità inter-regionale, di volta in volta sedata, dal sovrano imperiale, per mezzo di operazioni di polizia internazionale. Empire è stato scritto, ovviamente, prima dell’attacco anglo-americano all’Afghanistan, ma riflette sulle vicende balcaniche e sulla Guerra del Golfo che ha inaugurato l’epoca del “nuovo ordine mondiale”. Secondo Hardt e Negri, la guerra contro l’Iraq “ha rappresentato la prima occasione in cui esercitare appieno un potere di polizia internazionale”, [15] il che significa che sbaglierebbe, a loro giudizio, chi riconducesse la Guerra del Golfo a un quadro strategico definito da interessi geopolitici contrapposti. “In realtà - essi puntualizzano, a scanso di equivoci - la guerra è stata una operazione di repressione ben poco interessante dal punto di vista degli obiettivi strategici, degli interessi regionali e delle ideologie politiche implicate”. [16] L’unica posta in gioco era, per dir così, simbolica: “l’importanza della guerra del Golfo deriva piuttosto dal fatto che presentò gli Stati Uniti come la sola potenza capace di amministrare la giustizia internazionale, non in funzione di proprie ragioni nazionali, bensì nel nome del diritto mondiale”.  [17]-----

Dinanzi a questo quadro interpretativo, dai contorni tutt’altro che sfumati, si pongono diverse questioni. Ci si deve chiedere, in primo luogo, quanto esso sia in grado di interpretare i processi reali; in secondo luogo (visto che qui ci interroghiamo in merito al ruolo attuale di Marx) c’è da chiedersi in che misura il “paradigma imperiale” sia debitore all’analisi marxiana.

Forse però, prima di cercare di rispondere a queste domande, conviene spendere poche parole sulle ragioni dell’incidenza di queste tesi e del complesso delle teorie di Negri, ivi comprese le analisi dei processi di riproduzione incentrate sulla categoria di “lavoro immateriale”.

3. Le ragioni di un’egemonia

Per rapidità, si possono individuare a questo proposito due ordini di ragioni.

Il primo attiene al fondamentale riduzionismo caratteristico della posizione di Negri. Qualunque sia l’oggetto dell’analisi, il quadro che egli offre appare semplice, governato da logiche totalitarie, immediatamente riducibile a un’unica logica dominante. La società è, come tale, messa al lavoro, senza ulteriori mediazioni; il mondo è, come tale, ridotto a uno sconfinato distretto industriale, immediatamente sottomesso al comando capitalistico.

Al di là delle apparenze, siamo agli antipodi di una lettura organica del conflitto capitale-lavoro come rapporto sociale-politico. A questo riguardo, l’intera ricerca di Negri sembra muoversi, è vero, sulla base del più plausibile dei presupposti. Il capitale è sin dall’inizio considerato come “capitale sociale” e in quanto tale indagato come “soggetto dello sviluppo”. [18] La scelta di privilegiare i Grundrisse rispetto al Capitale è essa stessa motivata dal convincimento che i manoscritti del ’57-58 offrano da questo punto di vista una riflessione più avanzata, all’altezza della “sussunzione reale della società” quale compiuta espressione della potenza sociale del capitale. [19] Ma, fedele alla prospettiva operaistica, l’intero discorso si mantiene interno all’analisi del processo di produzione immediato. Ad appropriarsi della società è il capitale in quanto funzione produttiva, per cui la “sussunzione capitalistica della società” non è altro che l’inclusione della collettività sociale entro il perimetro del “ciclo lavorativo”.

Non si tratta del processo in forza del quale il capitale estende il proprio dominio sull’intera area sociale in quanto rapporto sociale-politico, con l’insieme dei problemi che ne discendono non solo in àmbito giuridico-istituzionale, ma anche sul piano ideologico e persino “antropologico”. A dispetto delle dimensioni dei processi, il discorso resta ancorato al terreno economico-produttivo.

Letteralmente tutto è fabbrica, tutto è lavoro, chiunque è trasformato in operaio (anche chi non lavora, per cui scompare qualsiasi differenza tra il coinvolgimento indiretto del disoccupato nel processo riproduttivo e la parte in esso svolto dalla forza-lavoro effettivamente mobilitata). L’organizzazione della produzione si replica in quanto tale (cioè come dinamica economica) nell’intero della società. Per questo ogni potere è concepito come immediata espressione del comando capitalistico, non importa se si affidi alla parola dei codici o a quella dei caccia-bombardieri.

Hegel parlerebbe di “sapere immediato”; Marx, forse, di “scienza delle quattro frasi”. Scrivendo a Theodor Cuno che gli chiedeva lumi intorno alla notevole diffusione della “teoria bakunistica” in Italia, Engels osservava che in questa teoria “tutto suona estremamente radicale ed è tanto semplice che lo si può imparare a memoria in cinque minuti”. [20] Nella misura in cui qualcosa di simile vale anche per le tesi di Negri, disponiamo di una prima spiegazione della loro capacità egemonica nell’ambito della cosiddetta “sinistra critica”.

A questa prima ragione, per dir così “metodologica”, se ne affianca una seconda, connessa al merito politico. L’analisi di Negri si traduce in una parola di conforto a beneficio delle aree sociali subalterne. La sottende l’idea che il loro riscatto non sia lontano: anzi, malgrado le apparenze, la loro liberazione è già nei fatti. Non resta che rendersene conto, e finalmente spiccare quel “salto immediato” nel comunismo che Gramsci considera tema ideologico centrale del “sindacalismo teorico”.  [21]

Com’è noto, Negri scorge una profetica anticipazione della propria teoria del “lavoro immateriale” in un testo aureo per la tradizione operaista italiana, il cosiddetto “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, nel quale Marx sostiene che, in una società industriale pienamente sviluppata, la “combinazione delle attività umane” e “lo sviluppo delle relazioni umane” sono destinati a svolgere, in quanto tali, la funzione di mezzi di produzione. [22] A questa prognosi si accompagnerebbero, nella lettura di Negri, due implicazioni, del tutto confermate - a suo parere - dai reali processi di sviluppo della nostra società.

Da un lato, la rottura del nesso - fondativo della legge marxiana del valore - tra tempo di lavoro immediato e quantità di prodotto (poiché la produzione dipenderebbe ormai soltanto “dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia”); [23] dall’altro lato, il fungere del “sapere sociale generale” da fondamentale “forza produttiva immediata” [24] e, di conseguenza, l’affermazione del general intellect quale effettivo dominus della riproduzione sociale. [25] Con buona pace dei capitalisti, ancora attardati nell’illusione di governare la società nel proprio interesse, il potere sociale è quindi già nelle mani del proletariato, arcano signore della riproduzione. Non è più vero che la vita sia “prodotta nei cicli di riproduzione subordinati alla giornata lavorativa”: “è la vita che penetra e domina ogni produzione”. [26] A ben vedere il comunismo è già realtà: “noi siamo signori del mondo perché il nostro desiderio e il nostro lavoro lo rigenerano continuamente”. [27]

Lo stesso vale sul piano politico mondiale. L’“Impero” non è sinonimo soltanto della immediata e totale sovranità del capitale transnazionale, ma anche dell’unità attuale del proletariato mondiale, la cui infinita potenza deterritorializzante sovverte il potere nei suoi assetti dati. La moltitudine è vettore di una “crisi immanente” dell’“Impero”. Il Terzo mondo è “distrutto” (riscattato dalla sua inferiorità) dacché, “sul terreno ontologico della mondializzazione, il più dannato della terra diviene l’essere più potente”, “la forza più creativa”. [28] Per contro, il potere del capitale si rivela una fragile maschera di subalternità. Hegel direbbe che “esiste”, ma non è più “reale”. La conquista del mondo è la sua perdita, l’“Impero” evoca di per se stesso un “contro-Impero”:  [29] in ciò consiste - leggiamo in Empire - “il paradosso di un potere che, nel momento stesso in cui unifica e ingloba in sé tutti gli elementi della vita sociale, rivela un nuovo, non dominabile, contesto di pluralità e di singolarizzazione”. [30]

L’effetto consolatorio di tali rappresentazioni può non essere una spiegazione esaustiva della loro diffusione, ma certo contribuisce a farsene una ragione. “Si immagina che un fatto sia avvenuto e che il meccanismo della necessità sia stato capovolto”, osserva Gramsci soffermandosi sulle caratteristiche “del sognare a occhi aperti e del fantasticare”: “la propria iniziativa è divenuta libera. Tutto è facile. Si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi. È, in fondo, il presente capovolto che si proietta nel futuro”. [31]

Quando il presente resiste a chi vorrebbe trasformarlo, dirsi che i cambiamenti si sono già realizzati può servire ad evitare frustrazioni. Tutt’altro discorso riguarda il prezzo imposto dai romanzi utopici, che, pur di tenere alto il morale della truppa, dipingono il presente a tinte rosee e - beffardo paradosso per un pensiero che si vorrebbe critico - ne diffondono rappresentazioni apologetiche.

E qui, nonostante la distanza delle rispettive premesse analitiche, Negri incontra nel loro esito moderato le teorie “radicali” del no profit e della “fine del lavoro”. Da una parte, l’utopia dell’autoemancipazione immediata dalla forma di merce consente il mascheramento ideologico della privatizzazione dei sistemi pubblici di assistenza e previdenza. Dall’altra, il paradigma imperiale legittima una interpretazione della mondializzazione capitalistica come effetto della crisi sistemica del capitale globale. In entrambi i casi, il panorama è quello di una situazione rivoluzionaria entrata già nel vivo e destinata in breve a sottrarre la “moltitudine” al dominio capitalistico.

 

4. Conti che non tornano

In che senso la posizione di Negri può definirsi, nel merito, utopistica?

Come si diceva, non si può negare in blocco valore alle analisi dei processi di riproduzione che, nel corso degli ultimi tre decenni, hanno condotto Negri a costruire modelli interpretativi intorno alle figure dell’operaio massa e dell’operaio sociale. Queste analisi hanno colto elementi di verità e anticipato tendenze reali dello sviluppo. Proprio questo loro pregio ne ha tuttavia, regolarmente, inficiato i risultati.

Per cavarcela con una battuta, potremmo dire che Negri ha preso troppo alla lettera i luoghi nei quali Marx sottolinea la natura dialettica del capitalismo e afferma che nel grembo della “vecchia” vive già la “nuova società”. Più precisamente, Negri brucia le tappe, identificando, un po’ gentilianamente, atto e potenza. Così, in un trionfo di determinismo che azzera il ruolo della soggettività e nega ragion d’essere alla prassi politica, le tendenze diventano in quanto tali realtà, e le potenzialità immanenti nel presente stato di cose valgono di per sé come dati di fatto.

Così funziona la teoria del “lavoro immateriale”, costruita, a guardar bene, su un abile gioco di prestigio. Alcune attività produttive - considerate paradigmatiche dell’attuale fase di sviluppo - sono assunte come cifra della riproduzione nel suo complesso. Il fatto che tali attività mobilitino competenze relazionali analoghe a quelle coinvolte nella normale prassi comunicativa è presentato, a sua volta, come riprova della loro identità con la prassi vitale, la quale è quindi, transitivamente, identificata con lo svolgimento di tali attività lavorative. Dopodiché, con coerenza a prima vista perfetta (peccato che mettere le mani su un vestito di carta non autorizzerebbe a prevedere che la carta sostituirà in breve la stoffa né, tantomeno, a cancellare ogni distinzione tra un vestito e un libro), il ragionamento parrebbe chiudersi con la dimostrazione della tesi che ormai vivere equivale a lavorare, e che - per dirla con il Marx dei Grundrisse - la pretesa capitalistica di misurare la produzione sociale in base al tempo di lavoro non ha già più alcuna materiale ragion d’essere.

Anche per questa via Negri giunge alle stesse conclusioni dei teorici della “fine del lavoro”, dei quali in apparenza costituisce l’antitesi. Quelli, come si ricorderà, scorgono nella diffusione del lavoro formalmente indipendente e della disoccupazione strutturale gli effetti della crescente marginalità del lavoro vivo. Da parte sua, Negri legge l’espansione di attività lavorative morfologicamente affini alla prassi vitale come confusione tra lavoro e vita (“il proletariato produce ovunque, in tutta la sua generalità, nel corso dell’intera giornata”), dunque come trionfo del lavoro, giunto ad espugnare le zone più intime dei processi riproduttivi, “le profondità delle coscienze e dei corpi”. [32] Ma non è difficile capire in che senso l’una e l’altra diagnosi concordino su un aspetto decisivo, l’idea che il nesso fondamentale della riproduzione capitalistica si sia ormai spezzato, decretando l’anacronismo del modello critico marxiano.

Questo è vero sia che si sostenga che il lavoro non è più lo snodo cruciale della valorizzazione, sia che si affermi che esso ha ormai luogo incessantemente e dappertutto. L’una e l’altra posizione convergono sull’idea che oggi il lavoro dipendente (cioè l’attività produttiva svolta in forme e tempi determinati, per finalità e contro valori monetari decisi dal capitale) non costituisca più il motore fondamentale della riproduzione. Di qui, appunto, l’esigenza condivisa di mettere Marx da parte, come un classico della storia intellettuale di una modernità ormai conclusasi.

Ma se le cose stessero così, troppi conti non tornerebbero e troppi dati di fatto sarebbero inspiegabili. Sarebbe incomprensibile la lotta di classe che nei singoli paesi e nelle forme dettate dai rispettivi gradi di sviluppo vede tuttora il capitale tendere a massimizzare l’estrazione di plusvalore assoluto e relativo dal lavoro dipendente (ivi compreso, per le ragioni dette, il lavoro formalmente “autonomo” di nuova generazione). Perché questo forsennato attacco al salario se il capitale si valorizzasse mercé attività esterne al circuito dell’impresa, fosse “fuoriuscito dalla relazione salariale”? E perché questa accanita resistenza contro la riduzione del tempo di lavoro o questa lotta per la sua estensione? Perché questa crociata per la “flessibilità”, intorno alla quale si è dispiegata la rivoluzione conservatrice del neo-liberismo di stampo reaganiano? E perché, ancora, questa infuocata partita per il controllo dei flussi migratori, teso a disporre di grandi quantità di forza-lavoro politicamente disorganizzata e priva di garanzie e diritti, abituata a condizioni di vita e di lavoro ben più dure di quelle conquistate dalle masse lavoratrici dei nostri paesi e quindi da porre in concorrenza con esse?-----

Ove poi l’ipotesi di trasformazioni radicali del lavoro, tali da determinare un mutamento del modo di produzione, dovesse discendere dal presupposto secondo cui il modello marxiano di capitalismo non contemplerebbe “lavori immateriali”, vale la pena di ricordare che il Capitale annovera esempi di attività produttive collocate “al di fuori della sfera della produzione materiale”, [33] e lo fa, non per caso, per sottolineare la ininfluenza del tipo di attività e di prodotto rispetto all’unica funzione del lavoro che abbia rilevanza per il capitale, cioè il suo essere fonte di plusvalore (lavoro astratto). In questo senso Marx osserva come - posto che “produttivo è soltanto l’operaio che produce plusvalore per il capitalista, cioè serve all’autovalorizzazione del capitale”
 “lavoratore produttivo” (sostanzialmente, operaio) sia anche il “maestro di scuola” che “si schianta dal lavoro per arricchire l’imprenditore”.  [34]

Incomprensibili, ove adottassimo lo schema interpretativo definito dalle teorie che, in un modo o nell’altro, affermano la fine del lavoro dipendente, sarebbero anche gli avvenimenti che hanno caratterizzato la scena politica mondiale nel corso dell’ultimo decennio. Proprio l’attacco angloamericano all’Afghanistan sembra rivelare all’osservatore spregiudicato un quadro coerente, nel quale tutte le campagne militari promosse dalle potenze occidentali nel corso degli anni Novanta trovano una spiegazione connessa ai loro fondamentali interessi economici e “geopolitici”. Tra i Balcani, il Golfo Persico e l’area caspica corre una cintura decisiva per il controllo di giacimenti petroliferi e di gas e per il contenimento delle potenze politico-militari emergenti, dalla Cina all’India, al Pakistan, dall’Indonesia alla stessa Confederazione Russa.

Come ancora di recente ha osservato Giulietto Chiesa, “se si vorrà capire qualcosa”, “ciò che succederà, a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovrà essere letto in questa chiave” e cioè tenendo presente il rinnovato antagonismo tra Usa e Russia e la ripresa della corsa al riarmo dalla parte della Cina, consapevole “di essere stata già eletta a nemico principale quando l’attuale “clash of civilisations” contro il mondo islamico sarà terminato”. [35] Non si può dunque concordare con quanti, accogliendo entusiasticamente il “paradigma imperiale” come ultimo grido dell’intelletto critico, si precipitano a consegnare agli archivi della memoria una categoria fondamentale come l’idea di “imperialismo”, della quale già Marx si servì, ante litteram, per analizzare il sistema della dominazione coloniale inglese in India e, più in generale, il nesso tra produzione capitalistica e sviluppo del mercato mondiale, indagato anche nel quadro delle cause antagonistiche alla caduta tendenziale del saggio di profitto.

Non è possibile adesso soffermarsi su questi aspetti, ma, siccome la discussione ferve intorno alla natura della guerra attualmente in corso (e in generale delle guerre susseguitesi nell’ultimo decennio), mi permetto tre brevi citazioni.

Nel 1999 Adrian Burke, consigliere logistico dei marines, ha pubblicato sull’autorevole rivista “Strategic Review” un articolo intitolato Una strategia regionale statunitense per il bacino caspico nel quale osservava, tra l’altro, che “l’insieme dei campi energetici della regione Asia centrale-Medio Oriente contiene la più grande concentrazione mondiale di riserve di idrocarburi e merita l’attenzione statunitense”.  [36] Ciò premesso, Burke concludeva: “assicurare alle compagnie statunitensi la leadership nello sviluppo delle risorse della regione e azzerare l’influenza russa ed iraniana sull’esplorazione e lo sviluppo dei campi energetici, nonché sulle direttrici delle pipelines per l’esportazione, costituisce la base di quella politica”.

Quanto alla guerra in Afghanistan (iscritto dagli Stati Uniti nel libro nero da quando i taliban fecero saltare l’accordo per un megaoleodotto da otto miliardi di dollari stipulato tra il governo turkmeno e la compagnia petrolifera californiana Unocal), [37] Augusto Graziani ha sostenuto che la ripresa in grande stile della guerra determinerebbe una “ripresa generale dell’economia” statunitense, in quanto solleciterebbe “non soltanto il settore degli armamenti, ma tutto l’insieme illimitato di industrie che riforniscono la truppa americana nei suoi spostamenti”. [38] Graziani fa riferimento anche al quadro “geopolitico” complessivo nel quale si colloca l’intervento anglo-americano. “Oggi - scrive - potrebbe profilarsi l’occasione per estendere l’operazione e collocare una presenza armata fino al Pakistan e all’Afghanistan. Il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita alla guerra del Kosovo creerebbe una cintura completa, una nuova frontiera fra oriente e occidente, e al tempo stesso una salda protezione per gli oleodotti che in avvenire dovranno convogliare sulle sponde del Mediterraneo il greggio estratto dal Caspio e dai paesi circonvicini”.

Graziani disegna un quadro coerente - sul piano descrittivo - con quello prospettato da Zbignew Brzezinski in una recente intervista alle “Izvestia”. Consultato sui contraccolpi “geopolitici” dell’attacco alle Twin Towers, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter non ha nascosto le proprie perplessità per la “mancanza di chiarezza nelle prospettive” della coalizione internazionale “contro il terrorismo” (e dell’alleanza russo-statunitense in particolare) e ha tenuto a sottolineare che “sarebbe un’esagerazione affermare che dopo l’11 settembre si è creata una “nuova situazione geopolitica”” in quanto “le caratteristiche fondamentali della potenza economica, finanziaria, tecnologica e persino culturale dell’America non subiranno cambiamenti”. In una battuta, “la posizione degli Usa nel mondo sostanzialmente non cambierà”. [39]

Nulla di tutto ciò trova cittadinanza nel quadro interpretativo elaborato sulla scorta del paradigma imperiale. Come non lo era quella del Golfo, nemmeno questa contro l’Afghanistan è, per Negri, una guerra. Si tratta, tutt’al più di “una vendetta”, di una “faida” tra bande rivali, [40] che in nessun modo confuta la tesi della a-nazionalità dell’“Impero” né, tanto meno, quella della sua imminente crisi sistemica. Accade così che, considerato come il contesto più propizio allo sviluppo di un “antagonismo pieno”, l’“Impero” sia oggi il “benvenuto”, esattamente come vent’anni fa era accaduto all’“imperialismo del capitale”, celebrato quale “premessa” dell’espressione della “soggettività rivoluzionaria”. [41] La complessità del tema marxiano della “funzione civilizzatrice del capitale” è azzerata per effetto di una lettura deterministica dei processi di sviluppo che, nel momento stesso in cui enuncia tesi radicalmente sovversive, autorizza l’attesa fideistica nell’automatico prodursi della crisi.

 

5. Fine dell’imperialismo e morte della politica: ancora sulla pervasività di un paradigma

Recenti sviluppi ulteriori della discussione politica nell’àmbito della sinistra italiana sembrano confermare le valutazioni svolte poc’anzi a proposito della pervasività del paradigma negriano. Mi riferisco in particolare al dibattito interno a Rifondazione comunista e alle tesi proposte dalla maggioranza del Comitato politico nazionale in vista del Congresso nazionale del partito, previsto per il prossimo aprile. Ovviamente non è possibile procedere qui a una disamina puntuale del documento. Mi limiterò quindi a poche osservazioni, strettamente legate al punto in questione.

Al di là di pur autorevoli smentite, la traccia negriana è persino dichiarata, laddove le tesi liquidano con sublime indifferenza il Marx del Capitale e riducono il novero delle opere marxiane “della maturità” a quelle “conosciute solo nel nostro secolo” (tesi 52). Ma - come ha acutamente sottolineato Luigi Cavallaro [42] - ben altri e ben più concreti sono, in diversi passaggi del documento, i rimandi alla prospettiva di Negri. Essi riguardano l’analisi del processo di valorizzazione (in specie l’idea - enunciata nella tesi 5 - di una sua modificazione conseguente all’“accresciuto [...] processo di finanziarizzazione” e alla maggiore incidenza dello “sfruttamento diretto e indiretto del lavoro immateriale”); l’analisi della situazione internazionale (dove un’accurata opera di emendamento ha tolto di mezzo l’ingombrante “Impero” per sostituirlo con l’espressione, del tutto equivalente, “governo unipolare del mondo” [tesi 15]); l’analisi delle nuove forme della riproduzione (interpretate sulla base del presupposto della “sostituzione” delle agenzie politiche - a cominciare dallo Stato - da parte del “capitale internazionale” [tesi 10], affermatosi come nuovo soggetto sovrano). Vediamo brevemente più da vicino qualche passaggio di queste argomentazioni.

Un primo terreno nel quale si evidenzia la decisa ispirazione negriana di alcune tesi del documento congressuale della maggioranza del Cpn di Rifondazione riguarda l’analisi internazionale a cominciare dal suo presupposto, cioè l’idea - argomentata nelle tesi 14 e 15 - che “la nozione classica di imperialismo appa[ia] inadeguata per caratterizzare l’attuale fase dello sviluppo capitalistico” e che se ne imponga quindi “il superamento”.

Lo schema è sufficientemente univoco (e di stretta osservanza negriana): la “globalizzazione” e la conseguente crisi di sovranità degli Stati nazionali (con l’eccezione degli Stati Uniti, Stato sui generis perché costitutivamente imperiale) avrebbero decretato l’esaurirsi di quella specifica forma di proiezione esterna della potenza economica e militare degli Stati che si era convenuto di definire “imperialismo” determinandone la sostituzione ad opera di un potere sovrano “unipolare” (imperiale) sul mondo. “I conflitti di questa fase e quelli in prospettiva - leggiamo nella tesi 14 - non possono essere interpretati in funzione di contrapposizione tra le maggiori potenze”, ragion per cui “catalogare i contrasti e i conflitti internazionali fra Stati come effetti delle contraddizioni interimperialistiche sarebbe totalmente fuorviante”. Non solo: sbagliato sarebbe altresì annettere grande importanza a tali contrasti, poiché se è vero che nel mondo non è “in corso un processo di omologazione assoluta al sistema capitalista”, è nondimeno indiscutibile (stando almeno a quanto si legge nella tesi 15) che tutti i contrasti “avvengono entro questo processo di globalizzazione [e] non contro di esso”, dimodoché la loro evoluzione dipende esclusivamente dall’“esito della crisi nel processo di globalizzazione” e non dal loro eventuale ulteriore approfondirsi.

Non vi è, in questa analisi, nessuna traccia dei conflitti intercapitalistici che nel corso dell’ultimo decennio hanno fatto da sfondo all’interventismo militare statunitense in Iraq e in Jugoslavia e ora in Afghanistan, né delle tensioni (manifestatesi anche di recente, in occasione del vertice Apec di Shangai e dell’incontro tra Bush e Putin a Washington) tra i diversi “poli” di rilevanza planetaria (Usa, Cina, India, Russia, Indonesia) in ordine alle strategie di armamento e al controllo delle riserve energetiche del pianeta. Silenzio assoluto, a maggior ragione, sulla competizione tra dollaro, marco e yen, come pure sulle forti tensioni tra Usa e Ue sul terreno della difesa militare e dell’allargamento ed est dell’Unione europea e sulla gestione di teatri geopolitici cruciali come il Medio Oriente, i Balcani, l’Africa australe e, oggi, l’Asia centrale. -----

Tutto tende a ridursi a un denominatore comune e rischia così di perdersi, come nella notte delle vacche bigie. La logica del discorso obbedisce a una prepotente istanza di semplificazione, dove si ha l’impressione che talvolta quel che più importa non sia l’analisi della realtà e delle sue contraddizioni ma l’individuazione - ad ogni costo - di nuove categorie e nuove soggettività.

Per quanto concerne la questione del rapporto tra Stati nazionali e capitale “globalizzato”, lo schema è il seguente: la tesi della crisi di sovranità degli Stati nazionali (argomentata nella tesi 10) è supportata dal riferimento ai “grandi organismi costruiti su basi a-democratiche a livello internazionale” (Fmi, Omc, Bm, Ocse) che oggi detengono decisive “leve di comando dell’economia”, nonché agli “accordi sovranazionali” (nel caso dell’Europa, il trattato di Maastricht e il Patto di stabilità) dai quali dipendono “le decisioni di politica economica e di bilancio”.

A parte la sommarietà del quadro, non c’è ragione di dissentire, nella misura in cui si intende sottolineare un processo di cessione di quote di sovranità da parte degli Stati a beneficio di altri poteri extraterritoriali che è oggi sotto gli occhi di tutti. Il punto tutt’altro che ovvio è però la natura di questi poteri, che nel documento è letta in termini univocamente economici. Il trasferimento delle sedi decisionali in materia di politica economica e di programmazione è infatti interpretato come processo di acquisizione di sovranità da parte dell’impresa, della quale gli organismi e i trattati sarebbero semplici agenzie di rappresentanza. Subito dopo i passaggi citati, si legge nella tesi 10: “La tradizionale funzione mediatoria che lo Stato ha avuto, pur nella sostanziale difesa della società capitalistica, anche sul terreno di una certa ridistribuzione del reddito e della organizzazione dei servizi sociali, tende ad essere sostituita da quella di porsi come migliore garante dell’allocazione degli investimenti del capitale internazionale e della creazione di nuovi terreni per il mercato, con la riduzione dello spazio pubblico”.

La crisi dello Stato nazionale diventa, senza ulteriori mediazioni, crisi della politica intesa come terreno di elaborazione di soggetti, finalità, poteri e istituzioni relativamente indipendente dalle dinamiche economiche. Evidentemente, il fatto che i trattati e gli organismi sovranazionali svolgano (o contendano agli Stati nazionali) funzioni e prerogative connesse al terreno della regolazione e della politica economica e monetaria non è considerato rilevante, né si tiene conto della circostanza che essi costituiscono luoghi nei quali le leadership politiche dei diversi paesi competono (sulla base dei rapporti di forza internazionali) per determinare il governo dei mercati, il controllo delle risorse, le politiche di sviluppo, le politiche doganali e fiscali nonché gli stessi sistemi normativi influenti sui processi di riproduzione. Solo tenendo presente questi dati di fatto è possibile spiegare, ad esempio, il fallimento del vertice Wto di Seattle, la crisi di quello di Doha, i contrasti in seno all’Ue sugli assetti istituzionali dell’Unione e in tema di politica estera e di programmi di cooperazione economica. Nelle tesi, invece, tutto è risolto con l’aggettivo “a-democratico”: come se deficit di legittimazione democratica e sovranità dell’impresa fossero concetti equivalenti.

Un passaggio della tesi 14 radicalizza tale prospettiva e toglie qualsiasi dubbio circa l’ottica economicistica che la ispira. Dopo avere osservato che le caratteristiche degli attuali processi di accumulazione e di centralizzazione sono cambiate rispetto a settant’anni fa, la tesi conclude che i “centri decisionali del capitale” non solo non “si muovono sulla forza degli Stati” nel cui territorio si trovano più o meno accidentalmente dislocati, ma addirittura “ne condizionano e ne determinano non solo la politica, ma anche modi di funzionamento”. In una parola, l’impresa è il nuovo sovrano: comanda lo Stato (al punto di deciderne funzioni e strategie) e di esso si serve per tenere sotto controllo i corpi sociali (ridotti a puri giacimenti di forza-lavoro) e per asservirli alle proprie finalità. Proprio come in Negri - del quale inconsapevolmente si condivide l’ispirazione liberale su cui a ragione pone l’accento Roberto Esposito [43] (e l’osservazione si potrebbe generalizzare e riferire all’intero paradigma operaista) - il risultato è che la “globalizzazione” (o la “rivoluzione capitalistica”, secondo il linguaggio delle tesi) erode qualsiasi margine di autonomia rispetto al comando capitalistico: l’impresa “sussume realmente” società e cancella la politica quale “sfera di mediazione tra forze sociali in conflitto”.

Resta tuttavia un problema. Molto coerentemente, Negri nega qualunque ragion d’essere e qualunque spazio all’intervento politico inteso non solo come agire istituzionale ma anche come dinamica di ricomposizione sociale e di elaborazione di soggettività critiche: la “moltitudine bio-politica” racchiude in sé già tutto quel che serve per il ribaltamento dei rapporti di forza, è rivoluzionaria per natura, in quanto si costituisce come “potenza” sociale alternativa al dominio capitalistico. In questo senso Negri vi individua il vettore “spontaneo” del comunismo. Ma a un partito politico che approdasse a conclusioni di questo genere (magari cedendo alla tentazione di affidare al movimento no-global funzioni palingenetiche analoghe a quelle che Negri attribuisce alla moltitudine), cos’altro resterebbe se non proclamare il proprio anacronismo, quindi la propria superfluità?


[1] I primi quattro paragrafi riprendono senza sostanziali variazioni una parte della relazione presentata al convegno sul tema Marx nel terzo millennio svoltosi a Milano il 26 e 27 ottobre 2001. Il testo integrale è in corso di pubblicazione su “marxismo oggi”.

[2] Cfr. al riguardo Giorgio Lunghini, L’età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Luigi Cavallaro, La caduta tendenziale della “nuova economia”, manifestolibri, Roma 2001; sulle nuove forme di lavoro “autonomo” cfr. Sergio Bologna - Andrea Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997; mi soffermo su questi temi anche in un precedente intervento su “Proteo” (Una discussione indispensabile, “Proteo”, v [2001], 2) e nel mio Modernità del conflitto. Saggio sulla critica marxiana del socialismo, DeriveApprodi, Roma 1999, Parte seconda.

[3] Il riferimento concerne - oltre a Michael Hardt, insieme al quale Negri ha scritto i volumi Labor of Dionysus. A Critique of the State-Form (1994; trad. it., manifestolibri, Roma 1995) e Empire (2000) - Christian Marazzi e Maurizio Lazzarato, autori l’uno del notevole: Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella politica (Casagrande, Bellinzona 1994), l’altro dei volumi: Videofilosofia. La percezione del tempo nel postfordismo (manifestolibri, Roma 1996) e: Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività (ombre corte, Verona 1997).

[4] Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro su Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 150-2.

[5] Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses (Sechstes Kapitel des ersten Bandes des “Kapitals”. Entwurf 1863-1864), Dietz, Berlin 1988, p. 125.

[6] Marx oltre Marx, cit., p. 152.

[7] Michael Hardt - Antonio Negri, Empire, trad. franc., Exils, Paris 2000, p. 359.

[8] Ibidem.

[9] Per un’analisi più ampia rinvio alla recensione apparsa a mia firma sul numero di marzo del 2001 della “rivista del manifesto”; si veda ora anche il fascicolo 5/2001 di “MicroMega” (“Almanacco di filosofia”), con un dialogo a tre voci tra Negri, Roberto Esposito e Salvatore Veca.

[10] Empire, cit., p. 15.

[11] Ivi, p. 375.

[12] Ivi, pp. 31-2.

[13] Ivi, p. 52.

[14] Ivi, p. 19.

[15] Ivi, p. 227.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Cfr. Marx oltre Marx, cit., pp. 125 ss., 131 e passim.

[19] Cfr. ivi, pp. 13 ss.; si veda in proposito anche la “Introduzione alla nuova edizione” di Marx oltre Marx, apparsa presso manifestolibri (Roma 1998).

[20] Mew, vol. XXXIII (lettere luglio 1870 - dicembre 1874), 1984, p. 389.

[21] Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, pp. 1590-1.

[22] Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohentwurf) 1857-1858, Dietz, Berlin 1974, p. 592.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 594.

[25] Per l’analisi del “capitolo sulle macchine”, considerato come “l’apice della tensione teorica di Marx nel progetto dei Grundrisse”, cfr. Marx oltre Marx, cit., pp. 148 ss.

[26] Empire, cit., p. 441.

[27] Ivi, p. 467.

[28] Ivi, p. 438.

[29] Ivi, pp. 20, 259 e passim.

[30] Ivi, p. 51.

[31] Quaderni del carcere, cit., p. 1131.

[32] Empire, cit., p. 50.

[33] Mew, vol. XXIII, p. 532.

[34] Ibidem.

[35] La terra trema - Roulette russa a Kabul, “il manifesto”, 30 dicembre 2001,

[36] Cit. in Sergio Finardi, Stelle e strisce sul Caspio, “il manifesto”, 27 aprile 2000; cfr. Alberto Burgio, La guerra delle razze, manifestolibri 2001, p. 16.

[37] Cfr. l’intervento di Hamid Mir sul “Friday Times”, riportato sul n. 404 di “Internazionale” (21 settembre 2001, p. 41). Il testo dell’audizione del vicepresidente delle relazioni internazionali della Unocal Corporation John J. Maresca dinanzi al Sottocomitato per l’Asia e il Pacifico della Camera dei rappresentanti (12 febbraio 1998) è stato pubblicato dal “manifesto” lo scorso 17 ottobre. Vi si legge tra l’altro, a proposito dell’Afghanistan: “Fin dall’inizio abbiamo messo in chiaro che la costruzione dell’oleodotto attraverso l’Afghanistan che abbiamo proposto non potrà cominciare finché non sarà insediato un governo riconosciuto che goda della fiducia dei governi, dei finanziatori e della nostra compagnia. [...] Per quanto riguarda il proposto oleodotto in Asia centrale, CentGas non può cominciare la costruzione finché non si sarà insediato un governo afghano riconosciuto internazionalmente. [...] Noi chiediamo all’Amministrazione e al Congresso di sostenere con forza il processo di pace in Afghanistan condotto dagli Stati Uniti. Il governo Usa dovrebbe usare la sua influenza per contribuire a trovare delle soluzioni per tutti i conflitti nella regione”.

[38] Soldi e soldati, “il manifesto”, 19 settembre 2001. Dello stesso avviso è Joseph Halevi, autore di un lucido intervento sul “manifesto” del 22 dicembre scorso (Storia di una grande guerra) nel quale si analizzano le ragioni dell’improvvisa ostilità Usa, subentrata a un iniziale sostegno, nei confronti del sistema di navigazione europeo “Galileo”: “il voltafaccia americano - osserva Halevi - testimona la strettissima connessione che con Bush 2 si è stabilita tra il governo e il complesso militare-industriale. Contemporaneamente questa vicenda, come altre avvenute recentemente, mostra quanto sia fallace l’idea avanzata da Michael Hardt e Toni Negri che oggi ci si trovi in un sistema imperiale senza imperialismo. Le contraddizioni e gli scontri interimperialistici tendono a riprodursi soprattutto in un clima di crisi economica mondiale. In questo contesto però le cesure passano attraverso la stessa Europa, mentre le istituzioni nazionali e governative Usa unificano l’espansionismo militare con il sostegno delle loro multinazionali”.

[39] L’originale dell’intervista (qui citata nella traduzione di Mauro Gemma) è disponibile on line nel sito del quotidiano russo (http://www.izvestia.ru).

[40] Caroline Monnot - Nicolas Weill, Toni Negri: “È faida, non guerra”, “La Stampa”, 4 ottobre 2001.

[41] Cfr. Paolo Di Stefano: Toni Negri, la rivoluzione globale del “cattivo maestro”, “Corriere della sera”, 30 luglio 2001; Marx oltre Marx, cit., p. 131.

[42] Cfr. L. Cavallaro: In punto di Teoria, “rivista del manifesto”, n. 24, gennaio 2002, pp. 58-62.

[43] “La mia sensazione è che quando [Negri] tende a sovrapporre la questione del politico a quella del lavoro e della produzione, resti in fondo aderente allo stesso paradigma liberale che vuole criticare, nel senso che finisce per eliminare ogni elemento di specificità del politico” (Dialogo su Impero e democrazia, in “MicroMega”, 5/2001, pp. 122-3).