Sul capitalismo tedesco

Joseph Halevi

1. Germania: la crisi odierna

Il capitalismo tedesco, principale forza sia di aggregazione che conflitto nell’ambito del capitalismo europeo, è in una crisi di orientamento che è andata allargandosi dal 1992 in poi [1]. Caratterizzata da alterne vicende la crisi di direzione è emersa alla luce del giorno con il governo socialdemocratico-militarverde capeggiato da Schroeder. La gestione politico-economica della crisi di un processo di accumulazione ricade ancora una volta sulla socialdemocrazia, vero ago della bussola del capitale nella storia tedesca di quest’ultimi trent’anni. Ed è con la storia che conviene iniziare.

 

2. USA e Germania: il polo europeo

Alcuni storici di tutto rispetto come Alan Milward sostengono che la crescita economica europea sia stata dovuta alla mutazione della ricostruzione postbellica in un processo di ristrutturazione globale volto all’introduzione dei prodotti e sistemi di produzione di massa, metamorfizzandosi quindi in un grande boom che ha finito per riempire le case di vari aggeggi elettrici, le strade cittadine di automobili e le campagne di autostrade [2]. Non viene sostenuto che il processo fu generato da automatismi economici ma piuttosto dal fatto che il disegno integrativo europeo, a cominciare dall’accordo sul carbone e l’acciao del 1952, permetteva agli stati nazionali di programmare il loro sviluppo in termini strutturali. In questo contesto la Germania costituiva il motore della trasformazione.

A mio avviso mentre è esatto vedere nella Germania il fulcro della rinnovata crescita capitalistica europea, non è altrettanto convincente - pur essendoci del vero come testimonia l’esperienza italiana - la tesi secondo cui il processo fu dovuto principalmente ad una razionalità statalista-democristiana della dirigenza politica europea e tedesca. Recenti studi di storia mostrano che la decisione di dividere la Germania fu presa unilateralmente dagli Stati Uniti pochi mesi dopo la fine del conflitto mondiale tanto per escludere l’Unione Sovietica da ogni decisione concernente il futuro dell’Europa occidentale, quanto per costituire un polo di crescita capitalistica da funzionare in maniera parallela al polo asiatico rappresentato dal Giappone [3]. In altre parole, gli Stati Uniti avrebbero costituito il paese centrale, fonte delle importazioni di tecnologie, derrate alimentari e capitali finanziari dell’Europa e del Giappone. I teorici e gli architetti di questa strategia furono George Kennan, Averell Harriman, James Forrestal e l’ex presidente repubblicano Herbert Hoover. Gli storici hanno individuato nella crisi della bilancia dei pagamenti britannica e della Sterlina del 1947 - che comportò l’abbandono da parte di Londra dell’impegno di sostenere il governo greco e la Turchia - la svolta americana in favore della reindustrializzazione della Germania e del Giappone [4]. Tuttavia la documentazione fornita dal lavoro della signora Eisenberg fa pensare che tale orientamento fosse, almeno per la Germania, già in via di maturazione verso la fine del conflitto. Ciò chiarifica anche la rapidità con cui venne allestito il Piano Marshall il cui fulcro era la Germania dato che gli Stati Uniti non erano propensi a cancellare l’indebitamento britannico che finiva per assorbire buona parte dei soldi assegnati a Londra.

Nelle gare dei levrieri al momento della partenza viene azionato, su una monorotaia al lato della pista, un cane meccanico altrimenti gli animali potrebbero non scattare o non terminare la corsa. In materia di decisioni di investimento i capitalisti sono più simili ai cani che alle persone. Se viene azionata la domanda senza intaccare i margini di profitto, magari perfino rafforzandoli, essi partono alla rincorsa facendo leva sull’investimento e l’accumulazione reale. Se invece l’azione meccanica non si manifesta i cani, cioè i capitalisti, possono vagare a destra e a manca annusando la sporcizia e rosicchiando qua e là. Il che significa che l’investimento stagna, le attività privilegiate diventano quelle speculative (fare soldi attraverso i soldi), dall’immobiliare, alla borsa - secondo le condizioni politiche e sociali del momento. Quest’è l’essenza dell’intuizione di Keynes, offuscata dalla vaghezza e dall’opacità della sua opera teorica ma pienamente comprensibile ogniqualvolta egli dovette esprimersi in pubblico. Ora dopo la seconda guerra mondiale la monorotaia, il suo tracciato, il cane meccanico ed il motore vennero progettati e costruiti dagli Stati Uniti tanto per l’Europa quanto per il Giappone. L’accensione stessa messa in moto del cane meccanico provenne da Washington.

 

3. La fase trainante: 1950-66

Il piano Marshall, che comportò la creazione dell’Unione europea dei pagamenti, permise l’avvio della ricostruzione del capitalismo nel vecchio continente. Il mantenimento dell’industria e segnatamente quella dei beni capitali, il cui peso in Germania era superiore rispetto agli altri Stati europei, poneva il paese in condizioni di esportare al resto del continente essendo proprio questi i settori che producevano i beni materiali più adatti alla ricostruzione. Inoltre, come ha giustamente osservato Charles Kindleberger, il piano Marshall continuò nelle vesti della Nato i cui costi furono, almeno inizialmente, sostenuti principalmente da esborsi americani. Il riarmo europeo fu un ulteriore fattore di stimolazione alla crescita dei comparti industriali dell’industria metallurgica e metalmeccanica della Repubblica Federale Tedesca. Inoltre, la Guerra di Corea, che i governanti giapponesi dell’epoca definirono ‘un dono degli dei’, indusse pure in Germania un boom della domanda di beni capitali [5].

Ne consegue che tra Piano Marshall, riarmo Nato e Guerra di Corea il cane meccanico era ben lanciato Per la Germania tutto ciò assumeva una connotazione politico istituzionale di estrema importanza in quanto ricostituiva lo spazio sociale del capitale tedesco sollevandolo da ogni preoccupazione morale e politica dall’essersi gettato anima e corpo nel nazismo. Al contrario, una volta assolti, con l’appoggio degli Stati Uniti, da ogni responsabilità politica, i gruppi tedeschi, effettuarono con successo una transizione nella continuità rispetto al regime nazista [6].

Tutti questi elementi, gerarchicamente dipendenti dalla strategia di Kennan, Forrestal e compagnia, fecero sì che la ricostruzione europea si trasformasse in un boom delle esportazioni tedesche. Quest’ultime contribuirono all’ammodernamento dell’apparato produttivo degli altri paesi alimentando tanto un processo cumulativo all’interno del continente quanto l’emarginazione della Gran Bretagna dall’intelaiatura produttiva dell’Europa. Durante gli anni cinquanta la forza trainante dell’economia tedesca si manifestò attraverso due aspetti. La Germania esibì un tasso di crescita superiore alla media europea stimolando le esportazioni da parte degli altri paesi europei e soprattutto dal nucleo che avrebbe poi dato vita al Mercato Comune Europeo nel 1957. Infatti dal 1951 al 1958 il saggio di crescita medio annuo del prodotto interno lordo tedesco era del 7,3% mentre la dinamica di quello italiano - secondo nella graduatoria europea - era del 5,8%. In quegli anni, sebbene la Germania occidentale continuasse a realizzare delle eccedenze nei conti con l’estero, tutti i paesi europei espandono notevolmente la quota delle proprie esportazioni verso la repubblica federale. L’Europa si costituisce quindi come la zona di maggiore realizzo dei profitti nelle operazioni estere delle società tedesche, mentre esportare sul mercato tedesco diventa, per le aziende degli altri paesi, la via per sviluppare le economie di scala e le strategie oligopolistiche extra nazionali.

Il processo cumulativo suddelineato rafforzava ed affinava l’integrazione tra banca e industria tipica del capitalismo tedesco oggi, come vedremo, in via di sfilacciamento. La sostenibilità del meccanismo cumulativo fu però garantita dal funzionamento dell’Unione europea dei pagamenti che, in un contesto di monete non convertibili, permise il rapido riciclaggio delle eccedenze commerciali a tassi di interesse alquanto bassi rispetto ai profitti ottenibili attraverso l’investimento reale. Sarà stata forse una coincidenza ma l’abrogazione dell’Unione europea dei pagamenti effettuata con il ritorno delle monete europee alla convertibilità diretta nel 1958, tolse una batteria al cane meccanico rallentandolo rispetto alla corsa degli animali in carne ed ossa. In linea di principio i cani potevano ancora continuare a correre ma la garanzia che lo facessero, che non si fermassero di fronte ad un qualche ostacolo, reale o immaginario, era molto meno sicura. Nel concreto l’ostacolo apparve con l’emergere del vincolo della bilancia di pagamenti per i paesi deficitari in assenza, ormai, di un sistema istituzionale che organizzasse il riciclaggio dei surplus dei paesi eccedentari.

Il nuovo decennio vide pertanto l’attuazione a livello europeo di politiche keynesiane perverse: impedire il consolidamento della piena occupazione (maschile) provocando deliberatamente una recessione con conseguente disoccupazione industriale. L’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori avrebbe poi rallentato la dinamica salariale rispetto agli incrementi di produttvità permettendo così alle imprese di esportare a prezzi concorrenziali senza intaccare i margini di profitto. Il keynesimo perverso serviva a sormontare il vincolo di un eventuale deficit estero. Chi con maggiore (Italia, 1963-65) chi con minore intensità, le dirigenze dei paesi europei si mossero in questa direzione che avrebbe certamente invertito il processo cumulativo del precedente periodo. Se l’inversione non ci fu lo si debbe in gran parte all’evoluzione dell’economia tedesca. Dopo il 1958 il tasso di crescita della repubblica federale rallentò significativamente anche per motivi fisiologici dovuti alla piena occupazione (maschile). Continuò invece l’espansione salariale e la crescita delle importazioni. Alla metà del decennio l’eccedenza tedesca nei conti con l’estero era quasi annullata. Il cane da guardia - la Bundesbank - si svegliò imponendo restrizioni creditizie e di bilancio generando nel 1966 una recessione il cui obettivo era il rilancio massiccio delle esportazioni. Fu il primo passo verso un mutamento radicale del modello di sviluppo perseguito fino ad allora e significò la fine del ruolo trainante svolto da Bonn in Europa [7].

 

4. Stagnazione e egemonia neomercantilista: 1969-1990

L’operazione recessiva guidata dalla Bundesbank produsse, con il ritorno di forti eccedenze con l’estero, l’effetto voluto dal lato delle esportazioni ma non assicurò la disciplina sociale dei lavoratori. La crescita dei profitti grazie alle esportazioni rilanciò le rivendicazioni salariali e normative. In questo contesto il partito socialdemocratico, dopo il breve periodo di coabitazione con la democrazia cristiana dal 1966 al 1969, effettuò nel 1969 una svolta economica radicale rivalutando il marco. I settori competitivi, operanti prevalentemente nei rami dei beni di consumo, si vedevano quindi costretti a ristrutturare per far fronte alla concorrenza delle importazioni. Dal canto loro i settori ad alta concentrazione capitalistica, che erano anche la principale fonte delle esportazioni, venivano stimolati sia a ristrutturare che ad investire all’estero. Il nocciolo del nuovo modello di accumulazione era tutto qui: la trasformazione del sistema economico tedesco da esportatore di prodotti industriali ed importatore di capitali a creatore di investimenti esteri ed esportatore di tecnologie avanzate. Agli investimenti diretti all’estero spettava il compito di sostenere le esportazioni. Gli investimenti esteri di portafoglio ed in attività commerciali avrebbero dovuto ampliare la penetrazione commerciale delle esportazioni industriali, mentre gli investimenti diretti in impianti avrebbero stimolato le esportazioni tedesche in macchinari e tecnologie.

In Europa solo la Germania era in condizioni di attuare una strategia in cui la rivalutazione doveva, in ultima analisi, sospingere le esportazioni. La vasta e continua rstrutturazione che tale strategia richiedeva dipendeva crucialmente dall’esistenza di una coerente e completa industria dei macchinari e delle nuove tecnologie, cioè dalla presenza di quei settori che il capitalismo tedesco, non sempre di sua spontanea volontà, aveva storicamente prediletto. Il rilancio neomercantlistico delle esportazioni, prima con metodi tradizionali poi con la rivalutazione, non implicò un cappio stagnazionsitico al collo della Cee e della Germania. Il motivo principale di ciò va individuato nella grande ondata di aumenti salariali del periodo 1968-73 cui corrispose in tutta l’Europa, perfino nella lenta Gran Bretagna, un forte rilancio della domanda e quindi della crescita. Come motivo secondario va considerato il fatto che alla rivalutazione del 1969 corrispose nel breve periodo un declino del surplus tedesco. Tuttavia sul finire del 1972 le eccedenze estere di Bonn erano in netta ripresa per raggiungere nel 1974 l’apice del decennio nonostante ulteriori rivalutazioni della moneta nazionale. Tanto più avanzava la stagnazione europea e mondiale tanto più si consolidava il successo della strategia tedesca consistente a garantirsi delle eccedenze estere per finanziare gli investimenti internazionali compatibilmente con la politica di selezione creditizia della Bundesbank e la dinamica delle esportazioni. Tra il 1974-79, anni in cui il vincolo estero di molto paesi si aggrva a causa del rincaro petrolifero, La Germania genera un’eccedenza commerciale pari al 2, 2% del prodotto interno lordo ed una capacità di finanziamento estero pari all’8% del PIL. Nello stesso periodo il surplus commerciale del Giappone tocca appena lo 0,4% del PIL e lo 0,3% in termini di capacità di finanziamento estero.-----

La nuova strategia aveva un duplice impatto stagnazionistico. Sul piano interno essa presupponeva la creazione tendenziale di un esercito di disoccupati al fine di moderare gli aumenti salariali. La disoccupazione abbinata alla ridotta dinamica salariale si sarebbe poi ripercossa negativamente sulla domanda interna. Sul piano europeo la lenta dinamica della domanda interna tedesca riducendo la domanda di beni importati avrebbe finito per frenare l’insieme della dinamica europea. Dal canto loro i surplus esteri della Germania, generati in un contesto di domanda interna stagnante, avrebbero agito nei confronti degli altri paesi europei come dei vincoli difficilmente sormontabili [8]. Questo scenario si materializzò negli anni settanta acuendosi nel decennio successivo. La flessibilità del lavoro era la chiave di volta di tale linea ideata dalla socialdemocrazia tecnocratica prima ancora che i grandi gruppi ne fossero pienamente convinti. La severità della Bundesbank, erroneamente individuata come sola fonte delle politiche di austerità, serviva da paravento e strumento per ottenere uno strato di disoccupati da gettare sul piatto della bilancia della contrattazione salariale e normativa. Con la moderazione salariale si poteva anche ottenere la partecipazione sindacale alla strategia delle esportazioni subordinandovi sia le promesse di un’eventuale ripresa occupazionale che gli aumenti salariali.

E le cose andarono proprio così. Dopo alcuni atteggiamenti radicali i sindacati, che negli anni settanta farfugliarono di rilancio keynesiano e agli inzi degli anni ottanta balbettarono qualche cosa in favore di un Keynes plus plan (ove il plus stava per concertazione aziendale), si allinearono a tutti gli effetti sulla strategia Bundesbank-socialdemocrazia. Essi si collocarono quindi volontariamente in una posizione subalterna - dignitosissima se paragonata alla resa incondizionata della CGIL alla Fiat nel 1980 - rispetto ad un blocco di potere che trasformava il nesso banca-industria del capitalismo tedesco da forza propulsiva in forza stagnazionistica. In questo quadro la Bundesbank rappresentava l’architrave della volta su cui poggiava il potere di tale blocco come organismo garante e supervisore della coerenza del sistema finanziario industriale [9]. Permaneva però un elemento di vulnerabilità costituito dal fronte monetario europeo in un contesto in cui il dollaro si stava svalutando. L’Europa è la zona ove la Germania ha sempre ottenuto il grosso delle eccedenze sull’estero. La svalutazione del dollaro pur stimolando gli investimenti negli Stati Uniti minacciava le eccedenze da cui dipendevano gli stessi investimenti esteri tedeschi. La minaccia diventava ancor più seria se altre monete europee (la lira italiana) svalutavano rispetto al marco. La formazione nel 1979 del sistema monetario europeo (SME) legando, dapprima in forma elastica poi vieppiù rigidamente, le altre monete al marco funzionò da strumento di protezione dell’export germanico. Furono i socialdemocratici e non la Bundesbank a volere lo SME e - come già nel periodo 1966-69 - la SPD si rivelò il partito che coglieva in anticipo rispetto agli stessi interessati ove dovessero dirigersi gli interessi del capitale. Da questo punto di vista la politica democristiana del cancelliere Helmut Kohl, al potere dal 1983 al 1997, si mosse fino sulla falsa riga della strategia inaugurata nel 1969.

Concepito nella fase della svalutazione del dollaro degli anni settanta, lo SME aiutò la Germania anche durante il periodo 1980-85, apertosi con una nuova impennata dei prezzi del greggio (1979) seguita dalla forte rivalutazione del dollaro causata dalla politica di alti tassi di interesse praticata da Washington assieme al rilancio della spesa pubblica militare. La rivalutazione del dollaro ed il rilancio militaristico stimolavano le esportazioni europee verso gli Stati Uniti, tuttavia il rincaro della moneta USA accentuava l’onere finanziario dovuto all’aumento dei costi energetici. Infine gli alti tassi di interesse americani imponevano un comportamento simile alle altre banche centrali pena un forte deflusso di capitali. L’asimmetria tedesca si manifestò nel fatto che nel 1982 l’economia aveva già sormontato il deficit estero dovuto al rincaro energetico mentre gli altri paesi arrancavano. Il resto dell’Europa poteva beneficiare del rilancio americano ma
 contrariamente al periodo antecedente la formazione dello SME - non poteva intaccare la supremazia germanica nell’export intraeuropeo. Infine, dopo la decisione americana, concordata con i paesi industrializzati all’Hotel Plaza di New York nel settembre del 1985, di ridurre i saggi di interesse USA e quindi il valore del dollaro, lo SME generò un poderoso effetto serra per la bilancia dei pagamenti tedesca.

Complessivamente dal 1982 al 1989 le eccedenze con l’estero non fecero che crescere fino a toccare quasi il 5% del prodotto interno lordo della RFT. Questo costituiva il valore più alto nell’arco dell’intero decennio per l’insieme dei paesi dell’Ocse ad eccezione di alcune punte toccate dalla Svizzera. La composizione delle eccedenze mutò inoltre in favore dei redditi da investimenti esteri. Nel 1982 tale voce era nulla per cui il surplus con l’estero era dovuto interamente all’attivo commerciale. Nel 1989 il valore degli introiti netti da investimenti esteri era intorno al 20% del valore dell’attivo commerciale. Il fatto che l’aumento delle esportazioni nette in prodotti industriali venisse affiancato da un rapido incremento dei proventi netti dall’estero mostrava che la strategia tedesca di internazionalizzazione del capitale attraverso le esportazioni aveva successo. Le politiche messe in cantiere negli anni settanta poterono germogliare negli anni ottanta, nonostante l’ulteriore calo della crescita reale europea e mondiale.

Lo SME fu alla radice di questo successo. Avendo ricompattato l’Europa sulla Germania nella fase alta del dollaro (1980-85), lo SME costituì un formidabile strumento per barricare il potere economico del capitale tedesco in Europa nella fase post-Plaza della svalutazione del dollaro. Dopo il 1985 le eccedenze europee con gli USA, compreso il surplus tedesco, si affievolirono assai rapidamente Complessivamente invece la crescita dell’attivo tedesco nei conti con l’estero cantinuò a crescere in assoluto ed in proporzione del reddito nazionale. Oltre il 60% del surplus della bilancia dei pagmenti corrente di Bonn proveniva dall’Europa, mentre nei confronti del Giappone la Germania soffriva di un deficit crescente. I profitti effettuati dal territorio tedesco nelle transazioni estere si realizzavano quindi principalmente in Europa.

Il contesto economico generale era però altamente stagnazionistico. Dopo la grande espansione economica del 1968-73, dovuta soprattutto agli aumenti salariali, il tasso di crescita medio annuo europeo scese, nel periodo 1973-79, dal 4,9 al 2,5%. Quello della RFT passò dal 4,9 al 2,3%, cioè sotto la media europea. Dal 1979 al 1990 il tasso europeo calò ulteriormente al 2,3% mentre il saggio di crescita tedesco toccava appena il 2%, aumentando lo scarto negativo rispetto alla media del Continente. Il basso tasso di crescita della RFT assieme alla posizione oligopolistica, protetta dallo SME, dell’apparato finanziario-industriale della Germania in Europa spiegano il ‘successo’ della strategia di accumulazione attraverso l’estero del capitale tedesco. La posizione globalmente oligopolistica della Germania è parzialmente deducibile, per il periodo 1979-90, dall’andamento medio positivo della ragioni di scambio. In altre parole, crescendo di meno ed esportando senza cedere sui prezzi la Germania strinse l’Europa in una morsa oligopolistico-stagnazionistica [10].

L’accumulazione stagnazionistica tedesca ottenne grande plauso in Europa. La tecnocrazia francese esaltava il ‘modello renano’ contrapponendolo sia al capitalismo cartaceo anglo-americano sia all’inesitente radicalismo dei sindacati ufficiali tipo CGT. È comunque vero che in Germania i sindacati si adeguarono al ‘modello renano’ malgrado il paese esibisse un tasso di disoccupazione vicino al 7% benchè in moderato declino dal 1986. Il successo nel campo delle esportazioni contribuirono a convincere anche i sindacati che il ‘modello’ funzionava e bisognava quindi farlo durare. Dei problemi che tale strategia creava se ne proeccuparono in pochi, tra i quali però va menzionato Romano Prodi che in un saggio del 1990 colse chiaramente la morsa deflattiva in cui Bonn avvinghiava l’Europa [11]. In ogni caso spinte a mutare il contesto delle cose non emergevano a meno che non si volesse prendere sul serio il piano Delors, una sorta di omogeneizzazione del capitalismo europeo in un’alleanza oligopolitica transnazionale gestita pariteticamente dalla burocrazia francese e dalle istituzioni tedesche. Il cambiamento avvenne perché crollò la parete orientale su cui poggiava il capitalismo tedesco in Europa.

 

5. Da testardi a confusi: 1991-2001

Sembra che durante l’occupazione anglo-francese della Ruhr dopo la Prima Guerra mondiale, si fosse sviluppata all’interno di circoli liberali e cattolici delle zone renane l’idea che un’eventuale separazione dalla parte orientale del paese non sarebbe stata una cattiva idea. Pare anche che, all’epoca, Konrad Adenauer condividesse almeno una parte di queste posizioni. Il fatto sta che la decisione americana di dividere in due la Germania, resa possibile dall’occupazione sovietica dell’est del paese, mise casualmente in pratica queste idee. Con l’attivissimo sostegno degli USA i governi post-bellici di Bonn operarono per incastonare saldamente la RFT nell’ambito dell’Europa occidentale, facendo della repubblica di Bonn il centro e l’essenza del capitalismo eurocontinentale. Segnatamente a ciò la legittimità statuale della RFT veniva financo legata ad una continuità territoriale con buna parte del Terzo Reich pre-bellico, cui si aggiungeva la dimensione pangermanica - nei confronti dei tedeschi romeni, russi, ecc - alimentata dalla ‘Guerra Fredda’. Questa visione - che era la base ideologica della cementazione del consenso nell’era di Adenauer - venne addirittura accentuata alla metà degli anni ottanta quando Bonn stava consolidando la sua egemonia economica in Europa. Pertanto la decisione di Kohl di procedere allo scambio paritetico del marco orientale nel quadro dell’assorbimento delle RDT era coerente con l’assetto politico su cui poggiava la suddetta egemonia. In altri termini, la forma economica dell’assorbimento non può essere vista come causa della crisi economica tedesca.

La componente locale della crisi emerse semmai dalla contraddizione tra il voler continuare sulla stessa strada e la nuova situazione. Sul piano strettamente quantitavo le spese incorse dopo il 1989 si innestarono, ampliandola, sulla moderata espansione iniziata nel 1988. L’allentamento della stretta monetaria sopravvenuto dopo gli accordi del Plaza a New York produsse in tutta l’Europa una ripresa, guidata prevalentemente dagli investimenti, che nel triennio 88-90 si collocò mediamente oltre il 3,6%. In Germania il ritmo espansivo si attestò sul più robusto valore del 4,3%. Tuttavia mentre nel 1991 la crescita europea si era già completamente spenta, quella tedesca proseguì al tasso alquanto sostenuto del 5%. Dopodichè il nulla. L’espansione venne arrestata dalle autorità monetarie e governative perché la forte dinamica della domanda interna alla Germania unificata era considerata nociva alle aspirazioni internazionali del capitalismo tedesco. Anche se probabilmente con una crescita del 5% i profitti erano superiori a quanto si potesse realizzare con un tasso di espansione dell’1,5% (1987), l’aumento dei prezzi e la conseguente paura di una ripresa rivendicativa facevano optare per una nuova stretta monetaria.

L’intero episodio 1987-91 mostra come lo logica keynesiana sia simultaneamente valida e sbagliata. Dal lato quantitativo l’aumento del deficit strutturale nel bilancio pubblico tedesco sostenne la crescita della domanda, della produzione e dei profitti. Contemporaneamente la maggiore dinamica produttiva rischiava di inficiare i due pilastri su cui, dal 1969 in poi, si basava l’egemonia del capitale tedesco in Europa: la stabilità del marco e le eccedenze nei conti con l’estero. L’interazione di questi due elementi dipendeva dalla capacità di ristrutturazione e di innovazione tecnologica dell’industria tedesca purché la crescita salariale venisse contenuta all’interno degli aumenti di produttività. Con le monete europee ancorate al marco e conquistando un tasso di inflazione inferiore al resto dell’Europa, le imprese esportatrici tedesche avrebbero in effetti beneficiato di una svalutazione reale del marco, mentre l’Europa avrebbe subito l’effetto opposto. Inoltre, qualora il clima di rigidità monetaria fosse riuscito ad imporre aumenti salariali inferiori alla produttività, le imprese avrebbero goduto di maggiori margini di profitto dato che nel capitalismo monopolistico (oligopolistico) i prezzi industriali non calano mai in proporzione alla riduzione dei costi unitari. Infine le eccedenze così ottenute avrebbero garantito il finanziamento degli investimenti all’estero senza creare quel deflusso di denaro che, come nel caso del dollaro USA, avrebbe potuto minare la fiducia nella moneta tedesca quale contenitore di valore internazionale, ossia di ricchezza astratta. -----

Questo marchingegno, messo in cantiere nel 1969, varato negli anni settanta e applicato con successo negli anni ottanta grazie allo SME, impedisce ogni politica keynesiana ma ciò significa che il keynesismo è una chimera riformista in cui credono, poverini, solo i sindacati ed alcuni universitari emarginati. Nelle condizioni di economie aperte ed interdipendenti come quelle europee, la ripresa tedesca fondata sull’espansione interna portò nel 1990 ad una prima riduzione del surplus con l’estero che si trasformò in deficit nel 1991 segnatamente ad un tasso di inflazione superiore a quello europeo. Era necessario quindi bloccare tutto e così avvenne immancabilmente. L’arresto dell’espansione tedesca fu effettuato attraverso l’aumento dei tassi di interesse da parte della Bundesbank comportando il crollo in due tempi - nel 1992 e nel 1993 - dello SME. Ciò condusse, volutamente, ad una rivalutazione del marco rispetto alle maggiori monete europee, ad eccezione del franco francese, che durò fino al 1996 quando la politica della Bundesbank venne bloccata dalle forze conservatrici francesi. L’idea della Bundesbank era quindi di rilanciare il marchingegno varato dai socialemocratici nel 1969 in condizioni però talmente differenti da mutare i contenuti stessi della strategia.

Anche durante l’esistenza del blocco sovietico la Germania di Bonn esercitava un’importante egemonia economica in Europa orientale ed in Jugoslavia. Dopo il 1989 la politica estera tedesca diventò apertamente espansionsita fondandosi su un pirandelliano gioco delle parti tra Mitterrand e Kohl. Il terreno di gioco non fu l’assorbimento della Germania est, un’operazione condotta in combutta con Mosca e Washington senza praticamente consultare gli altri membri della “comunità” detta europea. Il macabro banco di prova fu la Jugoslavia. In forma del tutto unilaterale Bonn si lanciò nell’operazione di smembramento del paese sostenendo a spada tratta la secessione unilaterale della Slovenia e della Croazia, paesi pronti a diventare satelliti del capitale tedesco, ben sapendo che, innescando un processo a catena, l’operazione avrebbe comportato lo scoppio della guerra civile in Bosnia la cui stabilità dipendeva dai rapporti tra la Serbia e la Croazia. Sebbene inizialmente riluttante la Francia, accompagnata con ancor maggior reticenza dalla Gran Bretagna, assecondò l’espansionismo tedesco mentre il Vaticano e quindi l’Italia lo appoggiarono pienamente. Contemporanemante il presidente francese Mitterrand, coadiuvato in maniera determinante dall’Italia e da Giulio Andreotti in particolare, manovrò per portare la Germania in un patto europeo volto in realtà a sancire una gestione franco-tedesca dell’oligopolio europeo vagheggiato dal corporativista cristiano-sociale Jacques Delors. Il patto, noto come Trattato di Maastricht, accettava tutti i criteri deflazionistici della Bundesbank, i quali andavano bene anche al resto del capitale europeo-continentale in quanto, con l’eternizzazione della disoccupazione e della precarietà occupazionale, imponevano senza mezzi termini una politica di deflazione salariale permanente.

Per la Germania però la situazione stava mutando radicalmente. Nella sostanza il crollo del muro di sostegno ad est trasformava l’egemonia economica in aperta spinta neoimperialista. In altri termini si apriva la possibilità di formare una periferia, costituita dalle suddette ex repubbliche jugoslave, dall’Ungheria, dalla repubblica ceca e slovacca, dalla Polonia e dai paesi baltici, funzionalmente legata alla Germania. Questa zona periferica avrebbe ricevuto capitale tedesco i cui investimenti le avrebbero poi permesso di esportare prodotti più a buon mercato e tecnologicamente inferiori a quelli delle Germania. Viceversa la maggioranza delle importazioni ad alto valore aggiunto sarebbero venute dalla Germania stessa. Al capitale tedesco, in quanto forza egemone, si delineavano ulteriori spazi di intervento in Ucraina e perfino nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia. In quest’ultimo caso i rapporti preferenziali curati da lungo tempo con la Turchia promettevano la possibilità di sfruttare i legami che Ankara andava stabilendo con le repubbliche sovietiche di matrice turcomanna. Alla dinamica neoimperialista esplosa dopo la caduta del muro di sostegno sovietico si aggiungeva la necessità di espandere gli investimenti in Asia orientale (Cina, Indonesia, Thailandia) per ottenere delle eccedenze nette nelle esportazioni per controbilanciare il crescente deficit nei confronti del Giappone. L’appetito espansivo arrivò al punto che verso la metà dello scorso decennio enti governativi e gruppi privati parlarono di grandi progetti di sviluppo tra i quali la costruzione di assi ferroviari che collegassero la Turchia all’Iran e quest’ultimo alle ex repubbliche asiatiche dell’Urss per sfociare poi in Cina alla stregua dell’antica via della seta.

Per l’attuazione di tutte queste ambizioni e soprattutto della concretissima spinta all’est ci vogliono soldi, nel senso che bisogna prima spendere e poi attendere un bel po’ di tempo per incassare i profitti. Fintanto che il sistema tedesco, garantito ad est dal muro di cinta, generava eccedenze con l’estero, il finanziamento delle attività internazionali delle società tedesche poteva effettuarsi senza inficiare la posizione internazionale del marco. Tuttavia le nuove ambizioni coincidevano con il declino e la perdita, nel 1992, dell’attivo nella bilancia dei pagamenti corrente ponendo alle autorità di Bonn il problema di riaffermare la centralità del marco schiacciando l’inflazione e la ripresa economica interna. La scelta di aumentare i tassi di interesse significava non solo reimporre la deflazione salariale e la pressione sulle imprese affinchè si ristrutturassero ulteriormente per rilanciare le esportazioni ma anche attingere al sistema bancario e finanziario internazionale. In questo contesto, se la crisi dello SME ha estinto il progetto di Delors di una gestione paritetica dell’oligopolio europeo, la strada intrapresa dalle autorità di Bonn non ha però reinnescato il processo di accumulazione. Anzi i risultati sono stati piuttosto deludenti ripercuotendosi negativamente sulla compatezza del sistema economico nazionale.

Dopo la seconda crisi monetaria europea del 1993 si aprirono due fasi. La prima, che durò fino al 1996, è caratterizzata dal perseverare da parte della Bundesbank di una politica di alti tassi di interesse e quindi di un alto valore del marco. In questa fase la vulnerabilità dell’economia tedesca nei confronti delle importazioni aumenta e si aggrava il deficit complessivo nei conti con l’estero malgrado il rinnovato sforzo effettuato nel campo delle esportazioni industriali. Le difficoltà sono asscrivibili soprattutto alla stagnazione europea iniziata già nel 1991. Benchè dal 1992 in poi la dinamica tedesca piombasse ad un livello inferiore a quella del resto dell’Unione Europea, la minore crescita non ribalta il quadro complessivo della bilancia dei pagamenti. Inoltre luogo la lenta ripresa americana accompagnata da un dollaro debole non facilita le cose. Dal 1993 al 1996 incluso la formazione di capitale fisso è negativa, confermando così la severità della recessione europea e nazionale ed il prezzo esatto dagli alti tassi di interesse. La seconda fase inizia nel 1996 con il riallineamento di alcune monete europee - come la lira italiana - sul marco fino alla fissazione del tasso di cambio in base al quale verrà poi realizzato il passaggio ai tassi Euro nel 1999. L’accelerazione della crescita USA, questa volta accompagnata da una rivalutazione del dollaro, nonché la riduzione dei tassi di interesse europei e la rivalutazione di alcune monete europee permise una certa ripresa degli investimenti interni e delle esportazioni nette.

Tuttavia non è emersa alcuna tendenza forte, il sistema gravita verso la stagnazione sulle cui sabbie sembra arenarsi nel 1999 per disincagliarsi momentaneamente nel 2000 riapprodandovi infine nella prima metà 2001. Nella sostanza il paese si installa nella stagnazione senza contropartite positive sull’estero. Il saldo della bilancia dei pagamenti permane negativo e soprattutto gli introiti netti da investimenti all’estero, che il sistema finanziario e delle imprese del paese venivano accumulando dal 1982, si trasformano in passivi (esborsi) netti. Il tutto accade malgrado la tendenza al rialzo dei margini unitari di profitto causata dalla diminuzione del costo del lavoro e dalla riduzione dei prezzi all’importazione che apportano anche un miglioramente nelle ragioni di scambio. La situazione si cristallizza dunque in un quadro prettamente oligopolistico-recessivo in cui la deflazione salariale e la conseguente riduzione del costo del lavoro non riaccendono il processo di accumulazione produttiva. Esse aggravano semmai il contesto stagnazionistico indebolendo la domanda interna. Eureka! eureka! Perché non fare soldi attraverso i soldi? Certo bisognerà mettere le mani sulla struttura organizzativa del capitalismo industriale tedesco che lo stesso Kohl era molto reticente a ritoccare. Ma c’è pur sempre la SPD con il suo controllo sui sindacati.

 

6. Confusione e chimere

Nel capitalismo oligopolistico l’aumento dei margini di profitto non conduce necessariamente ad un maggiore investimento, può invece aggravare la stagnazione. Al tempo stesso le imprese sosno sollecitate rafforzare ulteriormente i margini di profitto quando subentrano considerazioni di natura finanziaria legate al pagamento di dividendo e/o all’ottenimento di prestiti dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la finanziarizzazione dei processi decisionali implica la trasformazione di attività in passività finanziarie future. Per esempio se, come accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, una società si impegna comunque a pagare dei dividendi, l’emissione azionaria considerata come un attivo dal lato finanziario si trasforma in un esborso e quindi in passività. Se invece la società conserva la libertà effettiva di non distribuire dividendi, sottomettendo tale possibilità alla propria strategia di sviluppo, la traslazione di attività in passività non avviene automaticamente. Negli Stati Uniti il crescente ricorso ad istituzioni finanziarie extra bancarie obbliga vieppiù le imprese ad onorare l’impegno di erogare dividendi. Inoltre l’intercompenetrazione tra ‘mercati finanziari’ e fondi di investimento impone decisamente alle imprese di seguire una doppia linea che poco ha a che fare con l’investimento reale di lungo periodo. Da un lato esse devono garantire i pagamenti ai detentori di pacchetti di azioni, in larga parte in mano a società finanziarie. Dall’altro lato le imprese devono assicurare che le azioni esibiscano valori tendenzialmente crescenti. La dinamica della capitalizzazione borsistica diventa così un elemento essenziale nella capacità di ottenere prestiti e di emettere strumenti di indebitamento come le obbligazioni. La consistenza del valore dei dividendi e delle azioni è valutata in termini reali, viene cioè paragonata all’andamento dell’inflazione e del saggio di interesse. In tal modo le imprese devono endogeneizzare il comportamento anti-inflazionistico. Dati quindi i prezzi, vi è un solo modo per conseguire un saggio di rendimento monetario coerente con le valutazioni generate dai ‘mercati finanziari’: aumentare i margini di profitto. Proprio perché i prezzi sono dati, ciò implica la riduzione del costo del lavoro (salario) unitario. In teoria la riduzione dei costi di produzione può effettuarsi tramite gli investimenti produttivi. Quest’ultimi però dipendono principalmente dalla domanda ed hanno perciò un orizzonte temporale molto diverso dall’immediatezza richiesta dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la pressione principale viene esercitata sul salario stesso.

Quanto descritto corrisponde al comportamento dell’economia americana negli ultimi due decenni che ha comportato una crisi senza ritorno nel salario della grande massa dei lavoratori statunitensi [12]. Questo tipo di accumulazione finanziaria si risolve in un grande numero di persone allo sbando, anche se formalmente occupate, per le quali l’accesso ai servizi ed alle prestazioni pubbliche di natura sociale è vieppiù subordinato al principio dell’obbligo reciproco. Ancora alla fine degli anni ottanta la Germania era lontana anni-luce da questa visione della società, possibile solo in un’economia totalmente spanata, disarticolata ed autoritaria come quella americana. In Germania la stessa deflazione salariale era concepita in termini produttivistici: ristrutturare tecnologicamente - non finanziariamente - per aumentare la produttività rispetto al salario. Se i risultati erano positivi in termini di profitto i sindacati cercavano di far scattare la contrattazione aziendale che poi diventava un elemento nella contrattazione di categoria. È su questa base che, nella sostanza, i sindacati hanno accettato la strategia neomercantilista varata dai socialdemocratici nel 1969 e continuata da Kohl nel 1983, le cui conseguenze stagnazionistiche e altamente negative in termini occupazionali per la Germania e l’insieme dell’Europa sono già state discusse. Una forza lavoro occupata allo sbando è inconcepibile in Germania, ma è proprio questo che Schroeder vuole sradicare dalla testa della popolazione [13].

Sul finire degli anni ottanta il tentativo della Pirelli di assorbire la Continental mostrò la compattezza del sistema banca-industria vigente in Germania. L’operazione fallì perché attraverso il meccanismo di partecipazioni incrociate alla base del suddetto sistema, la Pirelli avrebbe finito per acquistare una fetta dell’economia tedesca. Il caso venne addirittura preso come esempio della differenza tra il modello angloamercano e quello renano. Tuttavia l’espansione delle attività dei fondi di pensione americani contribuiva ad alimentare i venti di guerra i quali si fecero sentire alcuni anni dopo quando la Germania era già in crisi ed aspirava ad attingere copiosamente ai mercati finanziari internazionali. Nel 1992 un fondo di pensioni Usa, il California Public Employees Retirement System, con partecipazione nella società RWE attaccò i criteri di votazione dell’assemblea degli azionisti. L’attacco era diretto al meccanismo che in base ad una legge del 1924 conferiva diritti di voto multipli ai rappresentanti degli enti locali sul cui territorio si situano gli impianti della società. La manovra pur non avendo successo, dimostrò però la natura del rimescolamento di carte in atto. Spinte verso una maggiore autonomia finanziaria, grazie alla crescita speculativa dei mercati borsistici, venivano dalle stesse società oligopolistiche. Importante, in questo contesto, è il passaggio effettuato da grandi aziende al sistema di contabilità americano che, contrariamente ai metodi allora in vigore in Germania, valorizza la redditività monetaria delle azioni e la diversificazione dei prodotti cartacei. Questi mutamenti venivano introdotti anche con l’obiettivo di iscriversi al listino della borsa di New York.

La stagnazione economica e degli investimenti - motore principale dei profitti tramite la produzione - allenta i legami di coordinazione tra banca e industria e spinge sia la prima che la seconda a ricercare ricchezza nel campo finanziario. Di conseguenza la tendenza all’aumento dei margini di profitto durante lo scorso decennio ha corrisposto alla volontà di sostenere il rendimento per azione piuttosto che a rilanciare la dinamica produttiva. Ma la concretizzazione di tali tendenze e desideri in orientamenti di fondo richiede l’intervento della politica ed il Governo di Kohl era frenato dal suo stesso conservatorismo. Con l’arrivo della coalizione social-verde nel 1997 i mutamenti ora accennati diventano la linea principale della politica governativa.

Innanzitutto la strategia lanciata da Schroeder nota come alleanza per l’occupazione si basa sull’idea che gli aumenti salariali sono un ostacolo al riassorbimento della disoccupazione. Ovviamente questa spiegazione, tra l’altro errata sul piano concettuale, non è che un pretesto. Dal patto produttivistico orientato verso le esportazioni dei decenni settanta-ottanta, che comunque si è fondato su uno spostamento della distribuzione del reddito in favore del capitale e dei profitti senza tuttavia rilanciare il tasso di crescita reale, il governo social-verde di Schroeder è passato alla subordinazione dei sindacati ad una politica che pone le rendite azionarie - e quindi la valutazione proveniente dai mercati finanziari - al primo piano [14]. Inoltre e coerentemente con tale scelta, il Governo ha lanciato una riforma fiscale e dell’azionariato, la cui entrata in vigore è prevista quest’anno (2002), volta a facilitare le transazioni di pacchetti azionari e le stesse scalate ‘ostili’. Commentando tali misure l’International Herald Tribune ha giustamente osservato che esse aprivano la strada a radicali ristrutturazioni occupazionali destinate ad alterare profondamente il panorama sociale del paese e quindi dell’Europa. Infine la coalizione social-verde si sta battendo per spostare il sistema pensionistico verso i fondi di pensione proponendo finanziamenti pubblici agli schemi privatistici.

Data la natura altamente organizzata del capitalismo tedesco, i mutamenti vengono concepiti gradualmente. Nel frattempo i socialdemocratici cercano di organizzare il consenso intorno alla chimera finanziaria. “Il principio è nuovo” ha dichiarato con approvazione Erich Standfest, specialista di politica sociale del sindacato confederale DGB, aggiungendo: ”il fondo permetterà di allargare le possibilità dei piazzamenti facendo in particolare maggiormente appello ai mercati borsistici” [15]. La chimera risiede nel fatto che si spera di accrescere il patrimonio pensionistico riducendo, al contempo, i contributi sociali erogati dalle aziende. Lo sgonfiamento della bolla di Wall Street e l’ulteriore aggravamento della stagnazione stanno riaprendo la contraddizioni inerenti a tali strategie. I socialdemocratici non cambieranno però strada per cui la soluzione vettoriale delle contraddizioni avverrà sul terreno sociale, o in termini di scontro oppure in termini di accettazione passiva. Per salvare la loro strategia privatistico finanziaria - che è poi quella del capitale nella sua totalità - i governanti di Bonn, ora trasferitisi a Berlino, cercheranno di rafforzare l’Euro come moneta della deflazione salariale e del potere della ricchezza astratta, ossia di quella finanziaria. Su questo terreno troveranno l’appoggio delle classi capitalistiche europee ma non necessariamente del capitale americano.

Dal punto di vista del lavoro dipendente, cioè di classe, è assolutamente importante convincersi che con questi obiettivi non vi è nulla da spartire. Bisogna quindi guardare alla creazione dell’Euro come un elemento delle strategie del capitale monopolistico europeo il quale lungi dall’essere omeogeneo si esprime in maniera coerente solo nella lotta che conduce indefessamente contro il salario e la spesa pubblica produttiva e sociale. Invece, purtroppo, la sinistra partitica italiana è corresponsabile dell’accettazione dell’ideologia metapolitica insista nei discorsi sull’ “Europa” e sull’ Euro. Questa ideologia disarticola ed indebolisce la resistenza e la capacità di autonomia politica delle classi e degli strati la cui vita dipende unicamente dai redditi da lavoro e dal funzionamento ed ampliamento dei servizi sociali pubblici.


[1] Come emerge dai titoli delle sezioni in cui è suddiviso quest’intervento.

[2] Alan Milward: The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, London: Methuen 1984; nonché, dello stesso autore, The European Rescue of the Nation State, London: Routledge, 1992. Per l’Italia, senza però l’ipoteca pianificante di Milward, consiglio assolutamente la lettura dell’eccezionale lavoro di Guido Crainz Storia del miracolo italiano, Roma: Donzelli, 1994.

[3] La politica della divisione unilaterale è documentata in Carolyn Eisenberg, Drawing the Line: the American Decision to Divide Germany, 1944-1949, Cambridge: Cambridge University Press.

[4] Michael Schaller, The American Occupation of Japan. The Origins of the Cold War in Asia, New York: Oxford University Press, 1985.

[5] Tuttavia per poter trasformare in profitti capitalistici il frutto di una guerra che stava causando, principalmente per via dei bombardamenti aerei americani, oltre un milione di morti tra la popolazione civile coreana fu necessario, nel caso tedesco, sormontare le difficoltà nella bilancia dei pagamenti causate dal’impennata nei prezzi delle materie provocata dalla guerra stessa. L’ostacolo venne aggirato grazie ad un ulteriore regalo di 500 milioni di dollari da parte di Washington all’Unione europea dei pagamenti. Questo versamento - a tutti gli effetti gratis - permise soprattutto alla Germania di affrontare produttivamente l’accresciuta domanda reale di beni strumentali senza passare per il collo di bottiglia della carenza di dollari con cui comperare materie prime e pagare il deficit con gli USA.

[6] Simon Reich, The Fruits of Fascism, Ithaca, N.Y.: Cornell University Press, 1990.

[7] Si veda l’ancora validissmo volume curato da Vittorio Valli: L’economia tedesca: la Germania federale verso l’egemonia economica in Europa, Milano: Etas Libri, 1981.

[8] Questa tesi è stata lucidamente sviluppata da Riccardo Parboni nel suo insuperabile libro Il conflitto economico mondiale, Milano: Etas Libri, 1980.

[9] In uno dei migliori studi comparati del sistema creditizo in Europa si legge: “La selettività dei flussi creditizi durante le fasi di restrizione monetaria è avvenuta in Germania a favore delle imprese di grandi dimensioni. (...)La selettività di fatto della politica monetaria è stata peraltro coerente con la struttura industriale tedesca orientata verso le esportazioni che sono concentrate nei settori dominati dalle grandi imprese.” Giangiacomo Nardozzi, Tre sistemi creditizi, Bologna: Il Mulino, 1983, pp. 109-10.

[10] Anche per l’Italia l’andamento delle ragioni di scambio fu positivo. Tuttavia con una maggiore crescita del PIL i conti esteri furono deficitari.

[11] Romano Prodi, “The economic dimension of the new European balances”, Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, no. 173, 1990.

[12] Per gli Usa segnalo l’ottimo libro di James Galbraith: Created Unequal. The Crisis in American Pay (Creati disuguali: la crisi della paga in America), New York: Free Press, 1998.

[13] Pochissimi anni fa centinaia di migliaia di assicuratori autonomi entrarono in lotta per farsi assumere come dipendenti dalle società da cui percepivano le commissioni. Essi sostenevano giustamente che andare in giro aprendo polizze per la società assicuratrici era puro lavoro salariato. Il pagamento sotto forma di commissioni non era che un modo di scaricare gli oneri sociali sui lavoratori dipendenti facendoli apparire come formalmente autonomi. Purtroppo non posso riferire sull’esito di questa lotta, rapidamente scomparsa dai notiziari radio-televisivi tedeschi ritrasmessi in Australia dalla rete radio-televisiva pubblica multiculturale SBS. A mio avviso questa è stata una lotta importante perché, data la sua dimensione di massa, smonta le ideologie che vedono nell’autonomo una specie di emancipazione individualistica del e dal capitalismo.

[14] Christian Berndt, “Corporate Germany at the Crossroads?”, ESRC Centre for Business Research, University of Cambridge, Working Paper No. 98, June, 1998. Lo stesso è successo in Francia ove il Governo Jospin ha spinto privatizzazione e finanziarizzazione a livelli inimmaginabili offrendo ai sindacati il contentino trappola delle 35 ore domandando però un’ulteriore flessibilità del lavoro. In Italia la sinistra di matrice Pci (Rossanda-Rivista magriana-Rifondazione) ha subito cantato ‘laudatur Jospinistus’ sdoganandolo persino dall’aggressione alla Jugoslavia ove i bombardamenti francesi sono stati secondi solo a quelli effettuati dagli Stati Uniti.

[15] Philippe Ricard, “les fonds de pension volent au secours des prestations versées par les entreprises”, in Le Monde Economie, 20 marzo 2001.