Crisi nella periferia e movimento dei lavoratori: il collasso argentino

Pablo Ghigliani

1. Introduzione [1]

La crisi economica argentina è solo un anello in più della lunga catena di crisi che hanno flagellato la periferia capitalistica nel Messico, nel Sudest Asiatico, nel Brasile, nella Russia, nella Turchia e nell’Ecuador. Per quanto riguarda l’Argentina, la crisi non è stata una sorpresa per l’establishment economico, da tempo, infatti, si fanno congetture nelle pagine di riviste come The Economist e il Wall Street Journal, con la data precisa di quando lo stato argentino avrebbe dichiarato ufficialmente la propria insolvenza.

Tuttavia, il modo in cui si è verificato l’avvenimento annunciato non è stato previsto da queste congetture. Due presidenti si sono dimessi in meno di quindici giorni. Prima De la Rua, che rinunciò dopo 48 ore di saccheggi, manifestazioni, scontri contro le forze di polizia, e un tragico bilancio di più di 30 morti. Questi eventi diedero inizio ad uno stato di mobilitazione quasi permanente che è stata la causa della rinuncia del suo successore, Rodriguez Saa, e che si è trasformato in una minaccia latente per il governo attuale. Di fronte a questi episodi, la paura tradizionale di contagio economico ha lasciato posto alla paura del contagio politico, come hanno dichiarato apertamente i funzionari degli Stati Uniti.

Un’analisi della crisi argentina permette, un volta di più, di fare un confronto tra le sue conseguenze devastanti per la classe operaia e i settori popolari dei paesi periferici e i processi di ristrutturazione del capitalismo mondiale dopo la crisi della metà degli anni ’70.

2. La crisi degli anni ’70 e l’offensiva del capitale

L’uscita dalla crisi mondiale non è stato il prodotto di una transizione graduale e endogena condotta dalle forze del mercato ma il risultato di una politica cosciente di riorganizzazione dell’economia internazionale con gli USA in testa [2]. Il nucleo di questa politica è stato inizialmente la liberalizzazione del mercato delle merci che era minacciato dalle pratiche protezioniste risorte prima della crisi. A questo obiettivo iniziale si aggiunge negli anni ’80 la ricerca di una liberalizzazione completa sia dei movimenti del capitale sia dei servizi, in particolare quelli finanziari, di fronte alla crescente accumulazione del capitale liquido prodotta dalla lenta ripresa del tasso di profitto che influiva sugli investimenti produttivi.

A questa liberalizzazione dei mercati dobbiamo aggiungere i profondi mutamenti che hanno influito direttamente sulla sfera della produzione e distribuzione del plusvalore. Ci riferiamo all’offensiva internazionale contro il lavoro che si espresse nello smantellamento di numerose conquiste storiche della classe operaia e dei salariati e nel peggioramento delle condizioni di lavoro. Su questo piano si è articolata una doppia strategia che combina la estrazione di plusvalore assoluto attraverso la intensificazione dei ritmi di lavoro, la prolungazione della giornata lavorativa, e l’abbassamento dei salari (specialmente nei paesi periferici), con la produzione di plusvalore relativo attraverso l’aumento della produttività basato sulla incorporazione delle tecnologie informatiche e dell’automatizzazione, che sono modalità predominanti nei paesi del centro.

Liberalizzazione e peggioramento delle condizioni di lavoro sono quindi le due caratteristiche che definiscono la tappa che si apre con la crisi degli anni ’70. All’interno di questo schema generale, le sofferenze patite dalle classi subalterne dei paesi periferici sono state di una grandezza che non hanno confronto con quelle delle classi subalterne nei paesi del centro. Seguiamo, quindi, lo sviluppo del caso argentino.

 

3. L’impatto dell’apertura economica in Argentina

La crisi internazionale degli anni ’70 pone fine alla industrializzazione dei paesi periferici basata sulla sostituzione delle importazioni e sul mercato interno. In Argentina, l’obiettivo economico del colpo di Stato del 1976 è stato precisamente la fine di questa forma di accumulazione. Il suo obiettivo politico è stato la sconfitta della classe operaia industriale che, attraverso una intensa mobilitazione, era riuscita a evitare una caduta del salario reale e a mantenere per sé un’alta quota del reddito nazionale [3].

Un quarto di secolo dopo che la dittatura iniziò il processo di apertura e liberalizzazione economica, si può osservare che i suoi aspetti fondamentali sono il debito esterno, la ristrutturazione dell’apparato produttivo, e la distribuzione regressiva del reddito. Di questi tre aspetti è stato il debito esterno che ha giocato il ruolo strategico in questa evoluzione.

Nel 1976, il debito esterno ammontava a 8.000 milioni di dollari. Nel 2001, si stima che esso ammonti a 160.000 milioni; ciò che ha un impatto ancor maggiore è che il rimborso in questo periodo è stato di 200.000 milioni, cioè 25 volte in più del suo valore originale [4]. L’importanza dell’indebitamento non si limita solo ai suoi effetti economici; esso assume una dimensione politica fondamentale. Gli organismi finanziari dell’imperialismo, il FMI e la Banca Mondiale, furono la testa di sbarco che resero strutturali il disequilibrio esterno e la crisi fiscale dello stato. Così il debito con l’estero e il suo costante rifinanziamento hanno permesso l’adozione dei piani di aggiustamento strutturali, delle riforme dello Stato, e delle privatizzazioni che hanno condotto alla ristrutturazione dell’apparato produttivo e alla deindustrializzazione.

Nel loro complesso, questi fenomeni hanno influito notevolmente sulle modalità vigenti di accumulazione producendo una profonda ricomposizione delle classi sociali. Con tale ricomposizione sono apparsi nuovi attori sociali e forme di lotta presenti nell’esplosione del dicembre passato (2001).

 

4. Gli anni ‘90: il piano di convertibilità, le privatizzazioni, la crescita e la crisi

Se l’inizio degli anni ’90 è stato contraddistinto da una crisi da inflazione, la sua fine è stata caratterizzata dalla deflazione dei prezzi e dalla recessione. Senza dubbio, tra questi due estremi sfavorevoli, l’Argentina è stata una delle Cenerentole del neo-liberalismo.

Vi furono due decisioni economiche che caratterizzarono l’evoluzione economica del decennio: un ampio piano di privatizzazioni e l’adozione nel marzo del 1991 del Piano di Convertibilità Monetaria.

Il successo anti-inflazionistico del Piano di Convertibilità ha permesso la stabilizzazione dei prezzi interni e questa stabilità, assieme ai prezzi delle imprese privatizzate e alle ampie concessioni offerte dallo Stato argentino, hanno fatto delle privatizzazioni un affare molto attraente.

Dal punto di vista della classe dominante, le privatizzazioni sono state non solo un affare eccezionalmente redditizio, ma anche, limitando gli antagonismi delle distinte frazioni, hanno unificato gli interessi della “cupola” imprenditoriale. Praticamente, non vi sono state privatizzazioni senza che vi partecipassero gruppi economici locali o conglomerati stranieri radicati nel paese, banche straniere, e imprese transnazionali. Questo fenomeno è collegato alla internazionalizzazione della borghesia argentina che si è manifestato anche nei suoi investimenti esteri, nel suo possesso di titoli di debito estero, e nella internazionalizzazione delle sue finanze.

Dal punto di vista dei lavoratori, questo trasferimento massiccio di imprese statali in mani private significò un aumento della disciplina del mercato della forza lavoro e un suo completo assoggettamento agli imperativi della valorizzazione, le cui conseguenze furono, come vedremo più sotto, riduzioni di personale e un aumento della intensità e delle ore di lavoro.

Molti dei critici del neo-liberalismo non hanno voluto riconoscere che entrambi i fenomeni hanno permesso la crescita dell’economia argentina all’inizio degli anni ’90, dopo il lungo periodo di stagnazione del 1976-1990. Pare che temano che il riconoscimento di questo fatto potrebbe portare alla giustificazione dell’aumento dello sfruttamento di classe, che lo rese possibile, e della marginalizzazione e esclusione sociale che esso produsse. Come se questa crescita fosse aliena al processo che condusse alla crisi! Tuttavia, i dati del PIL e i livelli di investimenti che essi generarono sono eloquenti.

Tra il 1991 e il 1997, il PIL argentino è cresciuto ad un tasso medio del 6.1%. Anche se si prende in considerazione la lunga recessione che chiuse il decennio, il tasso medio per tutto il periodo fu del 4.5%, che è di molto superiore non solo al periodo 1976-1990 ma anche alla media del 3,9% del periodo delle sostituzioni delle importazioni. Se prendiamo in considerazione i livelli di investimenti netti tra gli anni 1990 e 1999, essi raggiungono i 100.000 milioni di dollari. Questo, anche se non rappresenta un livello massiccio di investimenti, non può neppure essere considerato di poca importanza.

Questa crescita economica favorì il sogno neo-liberale ma fu del tutto inefficace per evitare l’incubo della recessione che si presentò nel paese a partire dall’Aprile del 1998.

5. La crisi e la spiegazione della crisi

Il dato più eloquente sulla profondità della crisi attuale è che dura da quattro anni. Questo spiega il paragone, oggi comune, con la crisi del 1930. Tuttavia, non dobbiamo lasciarci ingannare. Mentre la crisi del 1930 provocò cambi profondi nella strategia di accumulazione del capitale della borghesia agro-esportatrice, nulla indica che la crisi attuale possa condurre ad un cambiamento nel modello di accumulazione vigente. Al contrario, come quello che successe nel resto della periferia, la sua risoluzione punta verso un aggravamento delle tendenze generali menzionate all’inizio.

Per comprendere la gravità del peggioramento economico argentino, abbiamo bisogno di indicatori più sensibili che la semplice durata. Il PIL è caduto del 3,2% nel 1999, dello 0,5% nel 2000, e del circa 3,5% nel 2001. Per il 2002 vi sono stime diverse però tutte concordano che vi sarà un’ulteriore caduta del PIL. Gli investimenti nel 2000 sono caduti dell’8,3% e le diminuzioni degli investimenti nei due anni anteriori all’ insolvenza sono stati di 40.000 milioni di dollari.

La recessione generalizzata ha avuto ricadute sopra il debito delle imprese, e ciò ha portato come gravi conseguenze la caduta dei pagamenti e l’aumento delle bancarotte. Si calcola che il settore imprenditoriale non agricolo sia arrivato al 2001 con un debito con l’estero di circa 55.000 milioni di dollari e con promesse di pagamento di circa 7.500 milioni. Nel settore agricolo vi sono 12 milioni di ettari ipotecati. Negli anni 2000 e 2001, 3000 imprese hanno cessato le attività e varie decine si sono trasferite all’estero. Alla generalizzata cessazione dei pagamenti, si deve aggiungere una caduta della riscossione delle imposte tra il 40% e il 50%.

La disoccupazione è aumentata al 18,3% e si calcola che dei 36 milioni di argentini, 14 milioni vivono al di sotto della linea della povertà.

Che spiegazioni sono state date di un tale collasso? Incominciamo dagli argomenti ripetutamente avanzati dalla ortodossia neoliberale.

La spiegazione favorita e più banale ravvede le radice del problema in questioni psicologiche. Prima di tutto, nelle aspettative negative dei lavoratori e poi nella loro mancanza di fiducia con i suoi effetti negativi sul mercato interno. Un altro argomento classico è quello che dà la colpa alla corruzione. Il FMI e la Banca Mondiale hanno insistito recentemente su questa idea, non come una spiegazione completa del fenomeno ma come ciò che spiega la precipitazione della crisi perlomeno in Argentina e in Turchia [i]. Questo argomento ha chiari fini ideologici. In Argentina, la sua funzionalità per la borghesia si esprime a tre distinti livelli: ha incanalato il malcontento sociale verso la classe politica occultando così la responsabilità dei capitalisti; è servita alla costruzione di opzioni politiche di ricambio istituzionale quando si esaurì la formula Menemista; ed è funzionale all’obiettivo di ridurre i costi sociali. Tuttavia, ha avuto effetti contradditori perché ha approfondito la crisi di rappresentatività e di legittimità della classe dirigente e del sistema politico [5]. Ma la profondità e la durata della recessione hanno provocato il graduale abbandono di questo tipo di spiegazioni.

I ministri dell’economia - se ne sono succeduti tre nel 2000 - hanno avanzato un loro proprio argomento: la mancanza di coraggio dei governi precedenti nel fare “le riforme necessarie” e chiudere definitivamente con il deficit fiscale. Quello che nessuno dice è che le cause di questo deficit cronico non devono essere cercate nella spesa pubblica ma nel pagamento degli interessi sul debito estero e nella esistenza di trasferimenti multipli di reddito ai capitalisti.-----

Come segnala Katz, il pagamento di interessi sul debito “hanno triplicato i costi amministrativi del governo, rappresentano fondi sei volte maggiori della previdenza sociale e 23 volte più risorse dei piani di occupazione [6].”

I trasferimenti di reddito ai quali alludiamo sono multipli. Tra questi, dobbiamo menzionare il programma di privatizzazioni a prezzi ridicoli e con generose concessioni tariffarie, l’esistenza di un sistema fiscale assolutamente regressivo, la persistenza di evasione fiscale da parte dei grandi capitalisti per circa 20.000 milioni di dollari annui, e la perdita di altri 4.000 milioni all’anno a causa dell’eliminazione dei contributi padronali al sistema di previdenza sociale [7].

Infine, l’establishment ha spiegato la crisi con una sfortunata combinazione di circostanze avverse per l’esportazione: il ribasso dei prezzi, la caduta della domanda brasiliana, e il rialzo del prezzo del dollaro che ha rivalutato la moneta argentina deteriorando, quindi, la competitività dell’economia [8].

L’importanza congiunturale di questi fattori non può essere negata però essi non sono una novità per l’Argentina, e pertanto non possono spiegare una recessione tanto prolungata. Per di più, essi alimentano il mito “esportatore”. Nel momento di maggior crescita economica del decennio, tra il 1991 e il 1994, le esportazioni avevano un peso limitato e il deficit della bilancia commerciale era pronunciato. Tra il 1991 e il 1997, mentre le esportazioni aumentarono di due volte, le importazioni aumentarono sette volte. Nell’insieme, esse rappresentano meno del 10% del Pil per cui la loro capacità di influire sull’economia argentina è limitata. Per di più, nel primo ciclo di espansione economica (1991-1994) la fluttuazione della domanda brasiliana aveva influito sulle esportazioni argentine incidendo sulla sua scarsa performance. E nel secondo ciclo di espansione, nonostante il graduale emergere delle difficoltà menzionate, l’aumento delle esportazioni fu rapido e significativo. Pertanto, la congiuntura ha annullato l’effetto anticiclico che le esportazioni avrebbero potuto avere a condizioni più favorevoli, però di per sè non può spiegare la crisi.

La critica anti-liberale, da parte sua, ha fatto della “convertibilità” uno dei suoi obiettivi favoriti [9]. Si tratta di una spiegazione semplice. Da un lato, a causa del legame col prezzo del dollaro, la sopravalutazione della divisa argentina ha reso più care le esportazioni e provocato difficoltà nella bilancia commerciale. Dall’altro, rinunciando per legge alla possibilità di implementare una politica monetaria anticiclica, lo Stato è rimasto senza risposte di fronte alla recessione o alla crisi del sistema finanziario.

Al di là del mito “esportatore”, proprio anche di questa tesi, il problema è che, di nuovo, prima si identifica un fenomeno, in questo caso una politica monetaria, e poi si passa in rivista la sequenza dei disequilibri che esso genera facendola passare per una spiegazione. In realtà il fenomeno identificato serve solo a capire le caratteristiche assunte dalla crisi quando essa si sviluppa. Niente di più, niente di meno. Tanto il vincolo con una divisa forte (la convertibilità o la dollarizzazione) quanto la libera fluttuazione dei cambi sono due maniere per rinunciare alla sovranità monetaria e alla esistenza di forme intermedie di regolazione del tipo di cambio, che è un prodotto delle esigenze e delle pressioni del capitale finanziario. Mentre in Argentina la adozione della convertibilità sarebbe stata l’uscita dalla crisi iperinflazionistica del 1989-90 però la colpevole della crisi attuale, nell’Ecuador la combinazione di svalutazione e dollarizzazione sarebbe stata la soluzione della sua crisi [10]. Però in realtà nessuna alternativa monetaria ha protetto la periferia, come dimostrato dai casi messicano, asiatico, brasiliano, russo, ecuadoriano, turco e argentino. Ma non è neanche stata l’unica causa dei suoi disastri.

Vi sono anche coloro che sottolineano che la causa della crisi risiede nella esistenza di contraddizioni interne al blocco dominante. Questo punto di vista identifica due gruppi con progetti opposti che differenziano gli interessi del capitale locale da quelli del capitale straniero. Questa frattura spiegherebbe le dispute attorno ai progetti di dollarizzazione e svalutazione che si sono risolte per adesso con l’abbandono della convertibilità e la conseguente svalutazione del peso [11]. Questi autori scoprono che dal 1995, i gruppi locali incominciano a vendere le loro partecipazioni azionarie nelle imprese privatizzate al capitale straniero, col quale si era inizialmente associato. Così ritorna la eterogeneità e la lotta entro coloro che sono proprietari di attività fisse (il capitale straniero) e la borghesia locale che colloca il denaro proveniente da tali vendite nel circuito finanziario internazionale. Per i primi, la dollarizzazione avrebbe implicato il mantenimento del valore delle loro attività e la possibilità di continuare con la remissione di dollari a buon mercato alle case madri. La svalutazione invece avrebbe beneficiato i secondi per tre motivi: perché i dollari provenienti dalla vendita di azioni delle imprese privatizzate sono stati collocati nel circuito finanziario internazionale; perché queste divise possono essere facilmente reinvestite approfittando della valorizzazione di attività fisse di numerose imprese indebitate; e perché sono proprietari di imprese esportatrici che hanno aumentato la loro competitività.

Il problema appare quando si attribuisce a questa divisione lo stato di causa. Pare più adeguato parlare di strategie differenti di fronte ad una crisi già incominciata -il suo inizio coincide con una forte crisi prodotta dal disastro messicano- dato che la complessità dell’articolazione degli affari dei capitalisti rende difficile questa separazione in maniera tanto netta. D’altro lato, mentre appare evidente che la svalutazione favorisce in linea di principio le esportazioni, l’alto indebitamento con l’estero in dollari della maggioranza delle imprese e la forte dipendenza della produzione locale dalla importazione di investimenti, di beni intermedi e di macchinari, fa sì che i suoi effetti siano contradditori. Questi esempi potrebbero essere moltiplicati. Per di più questo tipo di tensioni si manifestano in maniera classica quando cade il tasso di profitto e si acuisce la lotta per la sopravvivenza. Ancora più importante, entrambe le frazioni mantengono intatta la loro convergenza riguardo la necessità di approfondire la pressione fiscale, di andare avanti con la riforma degli stati provinciali, e soprattutto di precarizzare sempre di più le condizioni del lavoro.

All’interno della sinistra ci sono state tre spiegazioni comuni. La più semplice dà la colpa al FMI, alla banca Mondiale o al debito con l’estero13. Questa è una spiegazione insufficiente e congiunturale che alimenta l’illusione che si possano evitare le crisi con giuste politiche economiche o se si mette fine alle pratiche usuraie dell’imperialismo; essa ignora così le tendenze insite nel capitalismo.

In secondo luogo vi è la spiegazione che attribuisce la crisi alla depressione del mercato interno, causata dalla caduta della domanda dei settori popolari. La distribuzione regressiva del reddito, i crescenti indici di povertà, l’aumento della disoccupazione, il basso livello salariale, sono i suoi indicatori preferiti. Tuttavia le critiche delle teorie sottoconsumiste sono ben conosciute, e come è stato segnalato, “per quanto riguarda specificamente il ciclo economico in Argentina, non si vede una caduta delle vendite dei prodotti di consumo (beni non durevoli) prima dell’inizio delle due recessioni”  [12].

Infine, vi sono coloro che danno la colpa ai movimenti del capitale finanziario e alla speculazione. È indubitabile che il capitale finanziario abbia raggiunto un grado di autonomia molto accentuato e che esistano crisi finanziarie relativamente indipendenti che influiscono sulla sfera produttiva. Però la profondità della crisi della produzione in Argentina non può essere attribuita ad un effetto derivato dalla speculazione. È una crisi nella quale c’è in gioco la capacità del capitale di ricreare sia le condizioni che permettono la produzione e realizzazione del plusvalore che la marcia dell’accumulazione. E non vi è produzione e realizzazione di plusvalore nel sistema finanziario perché non c’è valorizzazione del capitale indipendentemente dalla produzione. Al di là del grado di autonomia raggiunto dal capitale finanziario, tale capacità dipende sempre dalla generazione e appropriazione del plusvalore prodotto dai lavoratori da parte della classe dominante. È in questa dinamica di produzione e appropriazione del plusvalore prodotto dai lavoratori che si debbono cercare le cause delle crisi capitaliste. È questa dinamica che conduce, attraverso le innovazioni tecnologiche, all’acuirsi delle contraddizioni inerenti al capitalismo tra la quantità di valore prodotto e il numero crescente di valori d’uso nei quali tale valore si oggettivizza, ciò che si ripercuote negativamente sul tasso di profitto. Questo processo conduce ad un aumento della ‘fame di plusvalore’ che prende forme sempre più brutali nei paesi tecnologicamente arretrati e che si traduce nell’aumento dello sfruttamento della classe operaia [13]. È giunto quindi il momento di analizzare le ripercussioni del processo che abbiamo analizzato sui lavoratori.

 

6. L’offensiva contro il lavoro

L’aumento della disoccupazione è stato il fenomeno più visibile e d’impatto dei primi anni ’90. Se nel 1991 la disoccupazione riguardava il 6% della popolazione economicamente attiva (PEA), nel 1994 questo tassoera raddoppiato. Se inizialmente questo aumento non ha realizzato un aumento degli indici di povertà, verso la metà degli anni ’90 la relazione tra disoccupazione, caduta del salario reale, e povertà era diventa evidente. La seguente tabella sintetizza un insieme di indicatori che mettono in evidenza la grandezza del deterioramento generale delle condizioni di vita:

Gli alti indici di disoccupazione furono la conseguenza di una serie di fattori di cui i più importanti sono la riduzione dell’occupazione provocata dalle privatizzazioni (in nessun caso minore del 40%), la ristrutturazione delle imprese, la chiusura di migliaia di piccole e medie imprese, e la diminuzione dell’occupazione statale.

La disoccupazione -assieme alla sottooccupazione e al deterioramento salariale- e la concomitante ricerca dell’impiego si sono tradotte in un’enorme pressione sul mercato del lavoro. Nel 1999, il 40% della popolazione economicamente attiva era in questa situazione. Questa minaccia pendente sul lavoratore occupato ha facilitato la sua disciplina, sottomissione e flessibilità permettendo il successo dell’offensiva capitalistica che si è espressa in un ribasso dei salari, in un incremento dei ritmi e delle ore di lavoro, sul piano legislativo con contenuti di precarizzazione e nella flessibilizzazione dei processi di lavoro.

Una delle espressioni più chiare è stata l’evoluzione della distribuzione del reddito che ha evidenziato indirettamente l’incremento della appropriazione di plusvalore da parte del capitale. Questa distribuzione diseguale rende manifesta anche la poca incidenza che ha il salario come componente della domanda nel mercato interno sotto le nuove condizioni di accumulazione. In questo contesto, il reddito diventa sempre più regressivo. Mentre nel 1975 ai salariati andava il 43% del totale del reddito, nella situazione menzionata la percentuale è scesa al 20%.

Questo processo ha trovato una sua espressione anche sul piano legale e legislativo col quale i capitalisti hanno perseguito tre obiettivi fondamentali. Primo, la diminuzione dei costi del lavoro attraverso le riduzioni dei contributi padronali alla previdenza sociale e ai costi di licenziamenti e di infortunistica. Secondo, la flessibilizzazione della distribuzione del tempo di lavoro. Terzo, la decentralizzazione dei contratti collettivi e l’erosione della resistenza sindacale.-----

Le leggi sul lavoro che appaiono soprattutto a partire dal 1995, cinicamente presentate come i mezzi idonei a combattere la disoccupazione, sono state il riconoscimento di pratiche già abituali nelle imprese. Molte di queste pratiche, che esprimono la portata della flessibilizzazione al livello dell’impresa, furono inserite nei contratti collettivi di lavoro anche prima di essere incorporate nelle riforme legali e spesso in aperta contraddizione con la legge sul lavoro. Queste modifiche possono essere raggruppate attorno a quattro assi principali:

1 - Distribuzione del tempo di lavoro e della giornata lavorativa: tra il 1991 e il 1998, un totale di 429 contratti collettivi soprattutto a livello dell’impresa, hanno inserito clausole che aumentano il tempo di lavoro. Un caso classico fu l’aumento delle giornate ridotte delle imprese statali privatizzate che passarono da 6 o 7 ore a 8 o 9 ore. Per di più si introdusse il criterio della flessibilizzazione della giornata che permette in pratica ai capitalisti l’uso discrezionale della forza lavoro a seconda dei requisiti congiunturali del mercato o le necessità tecniche [14]. Nello stesso spirito, si introdussero nei contratti clausole che flessibilizzano le ferie e il riposo settimanale.

2 - Organizzazione del processo di lavoro. Qui si registra la massiccia incorporazione dei concetti di polivalenza, multifunzionalità o flessibilità funzionale della forza lavoro, associati all’obbiettivo di aumentare la produttività. Uno dei suoi risultati è l’appiattimento della tradizionale piramide delle categorie vincolate a compiti precisi con livelli salariali stipulati in maniera chiara. Questi concetti si incorporano in gradi differenti a seconda delle attività, i gruppi semiautonomi di lavoro, lavoro in cellule, sistemi di qualità totale, ecc. Nel loro insieme, questa modifiche intensificano il carico e i ritmi di lavoro.

3- Stipulazione dei salari: la tradizionale struttura salariale fa posto a remunerazioni che si compongono di un livello fisso molto basso che aumenta attraverso incentivi o retribuzioni legate all’aumento della produttività o del prodotto. Questi possono essere erogati in forma individuale, di gruppo, settoriali, o assieme. In genere le imprese favoriscono i primi due modi favorendo la competizione tra i lavoratori. Si sottolinea sempre che questi benefici non sono diritti acquisiti permanenti.

4 - Proliferazione di modalità flessibili di contrattazione: ciò ha condotto ad un maggiore eterogeneità del tipo di relazioni industriali come risultato di una utilizzazione massiccia delle nuove modalità di contrattazione temporanea e della sub-contrattazione. Non solo riducono i costi ma anche frammentano gli interessi immediati dei lavoratori, rompono la solidarietà e rendono più difficile l’azione sindacale.

Ovviamente, queste trasformazioni, causate dalla offensiva capitalistica, hanno avuto serie conseguenze per i lavoratori, per le loro organizzazioni e per le forme assunte dalla lotta di classe.

Primo, esse hanno contribuito alla maggiore disciplina della forza lavoro industriale. Ciò si espresse nel diminuito conflitto industriale durante questo periodo. A questa diminuzione si è accompagnato uno spostamento della combattività che ha investito fortemente i lavoratori statali e verso i conflitti regionali e decentralizzati.

Secondo, le nuove condizioni hanno colpito duramente il sindacalismo. La Confederazione Generale del Lavoro (CGT) ha visto il suo prestigio calare per mancanza di risposte adeguate di fronte agli attacchi e per la sua collaborazione e concertazione con i governi Menem (1989-99). Conseguentemente, si è prodotto uno scollamento ancor maggiore con la base sindacale che la CGT ha praticamente ha smesso di rappresentare.

Contemporaneamente a questo declino della burocrazia sindacale sono emersi nuovi nuclei di opposizione. Nel 1992 incomincia a svilupparsi il Congresso dei Lavoratori Argentini (CTA) la cui base sono i lavoratori statali, maestri, gruppi di opposizione di diversi sindacati e sindacalisti di base. Nel 1994 nasce il Movimento dei Lavoratori Argentini la cui strategia iniziale fu quella di contestare la direzione della CGT. Questo nucleo è quello che ha più affinità con la pratica tradizionale del sindacalismo peronista. Infine, nel 1995 ha acquisito notorietà la Corrente Classista Combattiva (CCC) che, inizialmente limitata alla provincia del Jujuy, ampliò il suo campo di azione riuscendo a estendere la sua influenza fino A Buenos Aires.

Terzo, la disoccupazione e la pauperizzazione fece sì che emergessero nuovi attori sociali, organizzazioni, e forme di lotta. Così sono stati i disoccupati a convertirsi in protagonisti delle agitazioni contro la politica economica del governo, con il rafforzamento delle proprie organizzazioni e facendo lotte come dei blocchi stradali con un metodo effettivo per rimpiazzare le forme tradizionali di lotta che, a loro volta, subiscono importanti trasformazioni durante gli anni 90 [15]. Queste forme di lotta possono essere raggruppate in cinque categorie. Primo, dobbiamo menzionare i saccheggi e veri e propri assalti di massa ai negozi per procurarsi alimenti; sono apparsi nel 1989, si ripeterono nel 1990 e sono stati massicciamente presenti nell’ultimo dicembre. Si tratta di una forma molto primitiva di protesta in cui prevale il comportamento spontaneo da cui non è emerso alcun risultato organizzativo. In secondo luogo ci sono le vere e proprie esplosioni sociali di “rabbia popolare”. Il primo del decennio fu il “Santiagazo” (1993) nella provincia di Santiago del Estero. Gli obiettivi dei ribelli furono edifici pubblici, sedi del governo, e case di politici. In terzo luogo vi è una innumerevole quantità di proteste di strada (manifestazioni, marce, raduni, mense dei poveri, occupazioni di edifici pubblici, cacerolazos, ecc.[Nota del traduttore: i cacelorazos sono dimostrazioni dove si percuotono le pentole come segno di protesta], molte volte con scontri diretti con le forze della polizia. In quarto luogo, vi è lo sciopero, che, nonostante il suo declino, ha avuto un ruolo difensivo importante. Vi sono stati 14 scioperi generali, l’ultimo dei quali alcuni giorni prima dell’insurrezione popolare. Infine, i blocchi stradali. Questa forma assume importanza dal 1996 e il suo obiettivo principale è l’occupazione e la lotta alla disoccupazione. I loro inizi hanno avuto alcune caratteristiche comuni. Primo, inizialmente sono avvenuti in zone dove la crisi economica cronica si è combinata con privatizzazioni e ristrutturazioni dell’unica o principale fonte di reddito o di occupazione. Secondo, sono state organizzate da commissioni multisettoriali di disoccupati, coordinamenti di picchetti, appoggiati da sindacati locali, o con la partecipazione di gran parte della comunità. Terzo, lo Stato nazionale ha risposto con una combinazione di trattative e repressioni incontrollate che si sono scontrate sempre con forme creative di resistenza organizzata dalla comunità. Quarto, a differenze della CTA e del CCC, le altre organizzazioni sindacali hanno tenuto un atteggiamento dubbio e prudente di fronte a questo fenomeno [16].

Questo ampio repertorio ha contraddistinto le azioni che condussero all’insurrezione popolare dell’ultimo dicembre. Questa identità è un indicatore che si è trattato del punto di partenza di un processo di lotta e mobilitazione frammentata ma continua. Senza dubbio, è stato il “cacerolazo” il modo di protesta che acquisì risonanza mondiale. Questa è una forma di protesta tipica della classe media, protagonista principale dei successi [17].

 

7. L’esplosione

Messo alla corda dai problemi economici e dalle domande sociali, il governo argentino si è preoccupato principalmente durante il 2001 di mediare tra le distinte frazioni del capitale minacciate dalla crisi, e cioè le banche, i creditori nazionali e stranieri del debito, le grandi imprese straniere, e i grandi industriali locali. A questo fine, messo sotto pressione da tali interessi, mentre realizzava una serie di misure eterogenee, ha intensificato i meccanismi di trasferimento regressivo del reddito attraverso aggiustamenti mirati a mantenere l’equilibrio fiscale. Le vittime dirette sono stati i lavoratori statali che hanno visto i loro salari realizzare una perdita iniziale del 13%, con continui licenziamenti e interruzioni dei loro contratti, e che sono stati costretti ad accettare i loro salari in titoli emessi dalle amministrazioni provinciali a causa della penuria di denaro.

Così, tutto il periodo precedente l’esplosione popolare è stato contraddistinto da una crescente mobilitazione nella quale si sono intensificati i blocchi stradali e anche l’incremento della conflittualità nel settore pubblico sotto la leadership della CTA. Però il colpo di grazia è stato dato dal congelamento dei risparmi bancari e dalla loro bancarizzazione forzata come conseguenza del prelievo di depositi. Tale congelamento ebbe un effetto non solo su ampi settori medi ma anche sul funzionamento della economia informale e sui settori popolari che sopravvivono anche grazie ad essa. Questa misura presa dal governo di fronte al collasso finanziario ha demolito la sua capacità di continuare a mediare tra le diverse frazioni del capitale e di disinnescare il conflitto sociale; in tal modo il governo ha perso la fiducia della borghesia, degli organismi internazionali, del resto delle forze politiche, e della sua base elettorale. Questo indebolimento è stata l’altra faccia del successo della mobilitazione che pose fine al governo.

Se si vuole caratterizzare brevemente l’eterogeneo arco sociale che partecipò all’insurrezione, bisogna mettere in luce la presenza degli abitanti dei quartieri popolari che iniziarono i saccheggi in cerca di vitto e soprattutto dei settori medi urbani più colpiti, che già manifestavano prima del congelamento dei loro risparmi e che reagirono decisamente contro lo stato di assedio decretato dal governo.

Dobbiamo rilevare che gli operai non hanno giocato nessun ruolo rilevante come classe nell’insurrezione; non sono state presenti le sue organizzazioni, né è stata riconoscibile la sua presenza come un diverso gruppo sociale. La partecipazione dei lavoratori si frammentò nella mobilitazione di massa alla quale parteciparono individualmente. Non dobbiamo meravigliarci se durante tutto l’anno vi è stata una netta diminuzione della conflittualità dei lavoratori del settore privato nonostante i licenziamenti, le sospensioni, e gli attacchi al salario; e che la CTA essendo stato il referente principale della lotta degli statali, si è mantenuta al margine degli eventi del dicembre per i quali non aveva una risposta adeguata.

A questo si collega l’assenza di una leadership e l’alto grado di spontaneismo dell’insurrezione. Se da un lato ciò può essere considerato un vantaggio relativamente alle forme tradizionali di demobilitazione e canalizzazione del conflitto, dall’altro esso ha espresso i limiti del forte anti-politicismo e anti-partitismo di coloro che si mobilitarono. Questa è oggigiorno la caratteristica ideologica predominante dei “cacerolazos” e delle assemblee di quartiere dei settori medi che hanno egemonizzato la protesta, determinando il tono della sua evoluzione.

Tra le forme concrete assunte dalla lotta, si evidenziano per la loro partecipazione massiccia gli attacchi ai grandi supermercati, alle banche e alle entità finanziarie, la distruzione di telefoni pubblici di imprese straniere, e l’attacco ai locali dei McDonalds. Anche questo fenomeno ha un significato contraddittorio. È un risultato rilevante perché esprime la identificazione del nemico nelle diverse frazioni del capitale e va oltre all’attacco ai “politici”. Però rafforza il risorgere di discorsi industrialisti e nazionalisti, che concentrano la loro furia contro il capitale finanziario, e le imprese straniere di servizi, specialmente quelle privatizzate. Queste forme di lotta non pongono in questione le relazioni capitaliste; anche se il margine di manovra attuale della classe politica è molto limitato, esse aprono la possibilità di costruire alternative future di ricambio istituzionale che sono essenziali per la borghesia nel mezzo dell’immensa crisi di rappresentatività e di legittimità del sistema politico.

 

8. Epilogo

Per terminare, sottolineiamo alcune idee basilari.

In primo luogo, le spiegazioni della crisi argentina che si fermano ai limiti delle frontiere nazionali sono insoddisfacenti. Solo prendendo in considerazione l’evoluzione del capitalismo mondiale partendo dagli anni ’70, possiamo arrivare a comprenderla. Una caratteristica di base di questa evoluzione è stata un aumento della mobilità dei capitali transnazionali in cerca di mercati, di forza lavoro da sfruttare, e di opportunità di investimenti. Con questa espansione mondiale delle condizioni sociali dell’accumulazione, la crisi si è espansa in forma frammentata nella periferia e con una attenuazione dei suoi effetti nel centro, grazie all’appropriazione sistematica di plusvalore resa possibile dalla egemonia imperialista [18]. Se la sua manifestazione finale è la crisi finanziaria, è fuori dubbio la sua connessione in Argentina con una estesa recessione e caduta del tasso di profitto che ha provocato la svalutazione, la centralizzazione, la concentrazione, e la distruzione di capitali. Questa spirale si è accentuata col collasso di tutti i fenomeni che avrebbero potuto avere un ruolo anti-ciclico: l’assenza della politica monetaria, la caduta del prezzo delle esportazioni e la forte depressione del mercato interno.

Secondo, il carattere internazionale delle condizioni di accumulazione rende illusoria l’opinione che la ribellione e la convertibilità abbiano come conseguenza un cambiamento del modello di accumulazione con effetti positivi per la distribuzione. Al contrario, come dimostrano tutti gli sforzi del governo attuale per riprendere i negoziati con il FMI, dovremmo considerarli come un peggioramento delle tendenze fondamentali sopra analizzate.

Terzo, il capitale, nella sua fame vorace di plusvalore, ha lanciato un attacco contro le spese statali. Tale attacco ha condotto sempre di più verso una crisi di legittimità del sistema politico, che oggi si è trasformata in un serio problema per la borghesia nella sua ricerca di una formula politica stabile di dominazione. Il dispiegarsi di tale antagonismo può avere delle conseguenze importanti per la lotta di classe che si sta sviluppando.

Quarto, all’interno della crescente mobilitazione sociale vi è stato fino ad ora un grande assente, la classe operaia e le sue organizzazioni; dal momento che non vi è stata una partecipazione al processo precedente l’insurrezione attraverso i cinque scioperi generali degli ultimi due anni, e attraverso l’acuirsi delle lotte difensive dei lavoratori statali, la classe operaia non ha potuto assumere un ruolo protagonista nell’esplosione popolare. Ciò ha indebolito la sua posizione lasciando il passo ai settori medi urbani che hanno obiettivi molto limitati.

In ogni caso, è sorta tutta una serie di fenomeni che indicano una crescita della politicizzazione della popolazione. Può darsi che il più visibile di tutti siano le assemblee di base di quartiere che già formano parte della esperienza popolare. Esse sicuramente si ripeteranno, come è stato dimostrato dalla riattualizzazione costante delle forme di lotta sviluppate negli anni ’90, fenomeno tipico prima di ogni forte ripresa della lotta di classe.


[1] Ns. traduzione dall’originale olandese

[2] Alan Freeman (2000), “Crisis and the Poverty of Nations: Two Markets Products Which Value Explains Better”, en Historical Materialism, nº 5.

[3] Questo spiega la violenza della dittatura più sanguinosa della storia argentina, il cui scopo era l’eliminazione fisica di un ampio arco di militanti (mediante assassini e sparizioni), delle sue organizzazioni di quartiere, studentesche, politiche, sindacali e politico-militari. Fu la lotta contro queste ultime che costituì il discorso ideologico della dittatura e che fu appoggiata da ampi settori delle classi medie. Questo arco eterogeneo di forze sociali era costituito tanto da gruppi rivoluzionari che da gruppi combattivi riformisti di orientamento nazional-popolare. Esso includeva quindi un’ampia gamma di orientamenti ideologici e identità politiche.

[4] L’origine del debito esterno è correlata con la decisione della dittatura di farsi carico della totalità del debito privato favorendo le grandi imprese che poi parteciparono alle privatizzazioni, le quali furono presentate come la soluzione del problema dell’indebitamento.

[i] La Nación, 19 de febrero del 2002.

[5] Ovviamente, la corruzione esiste però non è un’esclusiva delle economie in crisi. Un esempio della sua importanza è dato da uno studio recente che calcola che il 6% del reddito annuale delle imprese servono a pagare tangenti e commissioni. Negli Stati Uniti, questi costi ammontano a 400.000 milioni di dollari annuali. Però queste pratiche corrotte non sembrano influire sulla marcia della economia degli USA e sulla loro posizione egemonica mondiale.

[6] Claudio Katz (2001b), “La crisis económica argentina: interpretaciones y propuestas”, in Sociedade de Economia Politica, Brasil, junio 2001.

[7] Becerra, L. - Bonnet, A. - Florido, A. - Gigliani, G. - Katz, C. - Marchini, J. - Teszkiewicz, A. (2002): “Argentina: propuesta para el debate de un grupo de economistas”, 30 de enero.

[8] Joseph Stiglitz, “Lecciones del desastre argentino”, El grano de arena, Correo de información ATTAC n°124, 23-2-2002.

[9] Paul Krugman, “Don’t Laugh at Me, Argentina. Serious lessons from a silly crisis”, July, 1999; Gerard Coffey, “Argentina: poltical contagion poses bigest risk for U.S.”, January, 2002; Mark Weisbrot, “How the IMF Messed Up Argentina”, The Washington Post, 3-1-2002; Robert Kuttner “EE.UU. exacerbó el colapso económico de Argentina”, The Boston Globe,
7-1-2002.

[10] Come sottolinea un articolo recente, la dollarizzazione continua ad essere un’opzione in Argentina. “Argentines’ love of dollar threatens economic fortune”, Financial Times, 21-2-2002.

[11] Daniel Azpiazu - Eduardo Basualdo (1999), “El papel de las privatizaciones en el proceso de concentración y centralización económica”, Documento de Trabajo, nª 6, Flacso; Eduardo Basualdo (2001), “Entre la dolarización y la devaluación: la crisis de la Convertibilidad en la Argentina”, en Nac&Pop.

[12] Rolando Astarita (2000), “Ciclos económicos en la Argentina de los ’90”, in Revista Herramienta, nª 16. Per la critica delle teorie sottoconsumistiche si veda Guglielmo Carchedi (2001), op. cit., “Frontiers of Political Economy” (1991), London, Verso.

[13] Michel Husson, “Contra el fetichismo financiero”, Razòn y Revoluciòn, nª 5, 1999. Astarita (2000), op.cit., ha suggerito anche che non c’è una relazione diretta tra il flusso del capitale estero e le crisi argentine degli anni 90. Per quanto riguarda la dinamica della crisi capitalista, si veda Carchedi (1991 - 2001) e (1999): “A Missed Opportunity: Orthodox Versus Marxist Crises Theories”, en Historical Materialism, n º 4.

[14] Sono tipiche la ‘giornata continua’ e la ‘giornata modulizzata’. Nel primo caso si fissano i limiti della giornata settimanale (per esempio, tra le 6 della mattina del lunedì e le 13 del pomeriggio di sabato) e si obbligano i lavoratori a essere disponibili fino a 4 ore dopo l’orario stabilito nel contratto in caso di qualsiasi eventualità che ciò richieda. Nell’altro caso, si fissa una giornata mensile e si lascia indefinito il carico orario giornaliero, specificando che le giornate possono essere di durata diversa.

[15] Iñigo Carrera, N. - Cotarelo, M. (1997): “Las formas que toma la lucha social en la Argentina actual”, Cuadernos del Sur, nª 25.

[16] Dinerstein, Ana (1998): “Desocupados en lucha, contradicción en movimiento”, Cuadernos del Sur, nª 26.

[17] I “cacerolazos” furono incoraggiati dall’Alleanza durante gli ultimi anni del governo di Menem. I suoi protagonisti furono quasi esclusivamente i settori medi urbani di Buenos Aires.

[18] In una triplice modo: il commercio internazionale, data la differenza di produttività provocata dalle differenze tecnologiche; le rimesse di divise dei capitali oligopolistici a quelli associati; e i pagamenti di servizi finanziari da parte degli Stati periferici indebitati.