1. La crisi argentina per molti aspetti è più profonda e grave di quelle che negli ultimi anni hanno investito il Messico o il Brasile. Preparata da un lungo declino, aggravatosi proprio nell’ultimo decennio in cui le “cure da Cavallo” dell’omonimo mago della finanza da un quarto di secolo al centro del potere economico avevano dato l’illusione di una soluzione, ancorando il peso al dollaro e bloccando l’inflazione (ma anche la competitività dei prodotti argentini), la crisi sociale era esplosa nel corso di tutto il 2001 con una crescita impetuosa del movimento dei piqueteros, i licenziati o disoccupati cronici che bloccavano le vie di comunicazione in molte province e soprattutto nella cintura industriale di Buenos Aires.
Lo sprofondamento dell’economia negli ultimi mesi del 2001 non aveva sorpreso nessuno, la risposta popolare sì: non era facile immaginare che centinaia di migliaia di persone scendessero in piazza sfidando lo stato d’assedio, e assediando tutti i palazzi simbolo del potere.
La crisi politica, preannunciata da molti anni di logoramento delle due formazioni maggiori (radicali e peronisti) che si alternavano al potere o si accordavano tra loro in diversi momenti cruciali, era aggravata dalla subalternità del possibile “terzo polo” di centrosinistra, incapace di concepire altro che ritocchi alle misure antipopolari dei governi centrale e provinciali, e si era manifestata clamorosamente nelle elezioni dell’ottobre 2001, in cui l’astensionismo (prevalentemente spontaneo, ma propagandato attivamente sia dalla destra estrema, sia dalle Madri di Plaza de Mayo) ha raggiunto punte altissime: 6.500.000 persone, pari al 26% dell’elettorato, non sono andate alle urne, e altre 3.800.000 (pari al 21,1% dei votanti) hanno annullato o lasciato in bianco la scheda.
Ad esempio la maggior parte dei senatori sono stati eletti con percentuali inferiori al 20% (il candidato appoggiato dal presidente De la Rúa, Terragno, solo con l’11%), grazie all’altissimo livello delle schede bianche e nulle, e alla frammentazione delle liste (in maggioranza mimetizzate e non riferite esplicitamente ai due grandi schieramenti). Fortemente votato un personaggio dei fumetti, un papero che non avendo mani e tasche non può rubare...
Il settarismo ha impedito tuttavia un ruolo della pur numerosa e vivace sinistra rivoluzionaria, che pur raccogliendo complessivamente 1.500.000 voti non è riuscita ad avere rappresentanti, tranne Luis Zamora e un altro candidato della sua lista improvvisata.
La sfiducia espressa nei confronti di tutti gli esponenti dei due raggruppamenti che hanno governato alternativamente o insieme l’Argentina negli ultimi cinquanta anni (i radicali, anzi, erano andati al potere per la prima volta nel lontano 1916) era evidente dunque fin da ottobre, ma non era facile prevedere la forma dell’esplosione del 19-22 dicembre, che ha portato alla cacciata prima del potentissimo Domingo Cavallo (sulla scena politica fin dagli anni della dittatura, e che ha collaborato a molti dei governi “democratici”), poi dello stesso presidente De la Rúa, senza che nessuno (letteralmente nessuno) scendesse in piazza per difenderli. Anche altri tre tentativi di trovare un presidente accettabile sono falliti, prima che venisse riesumato Duhalde, prima collaboratore e poi rivale di Menem e sconfitto da De la Rúa nelle elezioni del 1999.
Il colpo di grazia è venuto dall’inedita protesta dei ceti medi urbani defraudati dal corralito (il blocco dei prelievi dai conti correnti che tutti ormai avevano in dollari), mentre le grandi società straniere e argentine erano state autorizzate a portare via milioni di dollari subito prima dell’inevitabile svalutazione del peso. Erano colpiti duramente in primo luogo coloro che non potevano più ritirare salario e pensione, e neppure il più piccolo risparmio depositato in banca, ma anche molti piccoli imprenditori e commercianti, che sono falliti a decine di migliaia.
Sono costoro che hanno dato corpo alle massicce manifestazioni davanti al Palazzo presidenziale, alle banche e al Palazzo di Giustizia. I primi morti, caduti in Plaza de Mayo e poi nei quartieri dove i più disperati assaltavano i supermercati, non hanno fermato le mobilitazioni. Quando nel quartiere periferico di Floresta un poliziotto esasperato ha ucciso in un bar tre giovani inermi che commentavano la repressione, la popolazione della zona ha trasformato il punto in cui erano caduti in un vero e proprio luogo di culto della memoria dei tre. Quel poliziotto, ma anche i massimi dirigenti che avevano ordinato di sparare davanti alla Casa rosada, sono stati arrestati e processati, con una forte emozione in un paese che aveva visto tanti delitti del potere impuniti.
Dopo più di tre mesi il movimento regge, perché il governo è paralizzato e i veri responsabili dei crimini economici, gli organismi internazionali che hanno distrutto il paese, rifiutano di contribuire al risanamento, o pretendono di dettare ancora le condizioni. Sempre più spesso la parola d’ordine “piqueteros, cacerolas, la lucha es una sola” avanzata da tutte le organizzazioni della sinistra viene accolta superando le molte diffidenze reciproche (del ceto medio verso i “violenti” dei blocchi stradali, dei proletari dei picchetti nei confronti della piccola borghesia che in passato aveva votato radicale o peronista e accettato le ricette economiche di Cavallo).
L’inesperienza delle nuove leve “incazzate” nei primi tempi aveva fatto più volte riproporre il divieto di partecipazione ai raduni con bandiere di organizzazione, e aveva anche portato a qualche flessione della partecipazione popolare alle iniziative centrali, per timore di provocazioni, ma soprattutto per il permanere del riflesso condizionato ereditato dal periodo immediatamente successivo alla caduta della dittatura, con la teoria dei “due demoni”, che attribuiva pari responsabilità ai militari e ai gruppi rivoluzionari degli anni Settanta.
Della sinistra rivoluzionaria per un quarto di secolo il “pensiero unico” ha ricordato soprattutto gli errori (che a volte ci furono, ma non erano però stati la causa della repressione, e al massimo fornirono qualche pretesto aggiuntivo a un esercito feroce e abituato da più di un secolo a sparare sul popolo), mentre era stata dimenticata la generosa partecipazione delle stesse organizzazioni armate alle lotte operaie e popolari. Queste d’altra parte non rappresentavano la totalità della sinistra; e anche i partiti che criticavano aspramente la guerriglia furono ugualmente spazzati via e sterminati dai militari, solo perché avevano avuto un ruolo nelle lotte della classe operaia della prima metà degli anni Settanta.
Perfino molti militanti del PCA, la cui dirigenza ebbe un ruolo vergognoso (insieme e non solo al rimorchio dell’URSS, che non ruppe mai i rapporti con la dittatura, analogamente a quel che fece la Cina con Pinochet), furono assassinati dalle squadre della morte. Ciò non assolve il partito, e anzi ne aggrava le responsabilità, anche se ora ha cominciato una seria autocritica.
Oggi la sinistra rivoluzionaria, pur se ancora divisa e con rigurgiti settari, ha un grande spazio aperto davanti a sé: le sue parole d’ordine sul rifiuto del debito, la confisca senza indennizzo delle multinazionali e di tutte le imprese private che hanno saccheggiato il paese, la riduzione del carico fiscale su lavoratori e fasce basse dello stesso ceto medio, la riduzione delle tariffe dei servizi possibile solo grazie a una severa tassazione dei capitali, ecc., sono sempre più condivise a livello di massa, radicali e giustizialisti (peronisti) sono fuori gioco, mentre le formazioni di centrosinistra sono state travolte dalla loro subalternità ai due maggiori raggruppamenti responsabili della bancarotta dello Stato e della svendita delle risorse nazionali. Quanto ai sindacati, la CGT peronista gode dello stesso discredito dei politicanti, mentre la CTA e la CCC, nate come confederazioni alternative e combattive (la seconda è di derivazione maoista) hanno scelto il compromesso con De la Rúa prima, poi con i suoi effimeri successori, e ora con Duhalde, in cambio dell’elemosina di un pugno di “piani lavoro”. I due dirigenti del settore disoccupati della CTA D’Elia, e della CC Alderete hanno finito per rompere il fronte dei piqueteros.
Finora tuttavia non si è riusciti a trovare una forma di unità d’azione della sinistra che consenta di rendere visibile un’alternativa politica (tanto più necessaria se le elezioni fossero davvero anticipate come inizialmente è stato chiesto nelle manifestazioni di piazza).
I più lucidi propongono una strutturazione del movimento, fin qui gestito in forma assembleare, attraverso l’elezione di delegati dei comitati di quartiere. Non sarebbero certo ancora i soviet, ma probabilmente si ridurrebbero le possibilità di manipolazioni da parte di chi controlla i microfoni nelle grandi assemblee dei piqueteros, o in quella domenicale del Parque Centenario (che per giunta riunisce solo una parte dei militanti di Buenos Aires ed è ben lontana dall’apparire e soprattutto dal poter essere veramente una direzione riconosciuta a livello nazionale).
Si tratta di una strada lunga e complessa, che va imboccata quanto prima: Duhalde ha già approfittato di qualche flessione della partecipazione alle troppo ripetitive assemblee settimanali e ai cacerolazos per organizzare qualche pullman di “sostenitori” reclutati nella feccia della provincia che lo aveva eletto governatore in ottobre.
E, nell’ombra, anche se screditatissimi, perché tutti hanno capito che il saccheggio dell’Argentina è stato avviato proprio da loro, ma non privi di mezzi potentissimi (forniti anche dalla nostra industria bellica!) rimangono i generali che hanno cominciato la loro carriera sterminando la parte migliore della gioventù del paese.
2. Quando il 23 marzo 1976 le Forze armate destituirono la presidente Isabelita Perón con un colpo di Stato “incruento” (nel senso che al governo uscente non fu torto un capello, mentre in realtà cominciava subito lo sterminio della sinistra vera o presunta), il debito estero argentino raggiungeva appena gli 8 miliardi di dollari. Quando agli inizi del 1983, come contraccolpo dell’insensata guerra delle Malvine (costata cara a un esercito validissimo contro i civili inermi e inetto contro un avversario esterno), il regime militare dovette lasciare il posto ai civili, il debito era salito a 44 miliardi di dollari.
La logica di quella politica era in primo luogo l’arricchimento personale dei membri della casta militare grazie alle commissioni pagate dalle grandi banche internazionali, ma anche un rilevante aumento delle importazioni (specialmente l’acquisto di armi sofisticate). Inoltre la politica di apertura economica agli investimenti stranieri e l’indebitamento consentivano alla dittatura militare di migliorare la sua immagine internazionale presso i principali paesi industrializzati, che chiudevano volentieri gli occhi di fronte al regime di terrore instaurato dal regime, un così buon cliente. Gli Stati Uniti poi erano molto soddisfatti della fine del nazionalismo argentino, e soprattutto dei tentativi di decollo di un’industria nazionale iniziati sotto il regime peronista.
A dirigere l’economia argentina, tuttavia, dopo il 1983 rimasero gli stessi uomini che l’avevano guidata per conto dei militari: Juan Martinez de Hoz, Guillermo Klein, e l’eterno Domingo Cavallo (che sotto la giunta militare era presidente del Banco Central), che rappresentavano un’ottima garanzia per i creditori.
Ad esempio Guillermo Walter Klein, segretario di Stato per il coordinamento e la programmazione economica sotto i militari, nel 1976 rappresentava una banca svedese, la Scandinavian Enskilda Bank, qualche anno dopo ben 22 banche; durante la guerra con la Gran Bretagna per le Malvine era stato designato procuratore a Buenos Aires anche della società anonima britannica Barclays Bank Limited, tra i principali creditori del debito pubblico e privato argentino, e rimase rappresentante delle stesse banche sotto il governo del radicale Alfonsín. La biografia di Cavallo è altrettanto significativa, ma più nota: vogliamo tuttavia ricordare le tre lauree honoris causa concessegli da prestigiose università italiane, ultima quella di Bologna, che sottolineava l’esemplare saldatura tra teoria economica e capacità di guidare un paese.
Grazie a questa stretta integrazione tra governi argentini e multinazionali, rappresentata ottimamente dalla nomina a ministri dell’economia di rappresentanti dei creditori, il debito si è ulteriormente accresciuto negli anni successivi, senza che la maggior parte di nuovi crediti entrassero in Argentina. Come nel caso dell’Egitto del XIX secolo descritto da Rosa Luxemburg, a un certo punto ogni nuovo credito serviva esclusivamente a rimborsare i creditori, anche se questi si erano ripagati ad usura di quel che avevano dato. Nel 2000 il debito era infatti arrivato a circa 160 miliardi di dollari (venti volte quello che il paese doveva all’inizio della dittatura), mentre il servizio pagato (ammortamento più interessi) aveva raggiunto ben 212 miliardi.
Uno dei meccanismi avviati sotto la dittatura e poi proseguiti e accelerati dai governi radicali o peronisti è stata l’assunzione del debito privato dei capitalisti da parte dello Stato, nonostante molti di questi indebitamenti nascondessero una fuga di capitali all’estero, che la stessa Banca Mondiale valutava intorno ai 21 miliardi di dollari per il solo periodo 1980-1982. Anche le imprese pubbliche, alcune fiorentissime, erano state spinte dalla dittatura a indebitarsi. Ad esempio YPF (Yacimentos Petrolíferos Fiscales, l’azienda di Stato per il petrolio) fu costretta a indebitarsi nonostante avesse risorse sufficienti per il proprio sviluppo. Nel marzo 1976 il suo debito era fisiologico, 372 milioni di dollari, alla fine della dittatura si era moltiplicato per 16, raggiungendo (6 miliardi di dollari). Inoltre era stata costretta a far raffinare il suo petrolio da Esso e Shell, la produttività era aumentata dell’80% ma il personale era stato ridotto da 47.000 a 34.000 lavoratori. Nel 1982 l’intero attivo della società era pignorato per debiti.
Le privatizzazioni avviate sotto Alfonsin e proseguite con maggiore slancio sotto Menem, nel 1990-1992, hanno liquidato gran parte del patrimonio nazionale, con una perdita valutata a 60 miliardi di dollari. Menem prese a pretesto l’indebitamento delle aziende pubbliche argentine per giustificarne la vendita, ma la cattiva situazione finanziaria era dovuta alla politica di indebitamento forzato imposto dalle autorità economiche della dittatura. Menem aveva affidato la valutazione del valore di YPF alla banca nordamericana Merril Lynch, che ridusse deliberatamente al 30% le riserve petrolifere disponibili, per sminuire il valore di YPF. Una volta realizzata la privatizzazione, la parte delle riserve occultate riemerse nei conti. Gli operatori finanziari che avevano comprato a basso prezzo le azioni dell’impresa riuscirono a ricavare guadagni favolosi grazie all’aumento della quotazione in borsa delle azioni YPF. Un’operazione del genere consente di menare vanto ideologicamente della superiorità del privato sul pubblico. La stessa banca è stata incaricata dal presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso di valutare, nel 1997, la principale società pubblica brasiliana, la Vale do Río Doce, una società mineraria, ed è stata accusata da numerosi parlamentari brasiliani di avere sottovalutato del 75% le riserve di minerali dell’impresa.
A parte YPF (venduta alla multinazionale petrolifera spagnola Repsol nel 1999), è stata liquidata un’altra perla argentina: si tratta dell’impresa Aerolineas Argentinas (venduta alla compagnia aerea spagnola Iberia). I Boeing 707 che facevano parte della sua flotta sono stati venduti simbolicamente a 1 dollaro (1,54 $, per la precisione!). A qualche anno di distanza, sono ancora in servizio nelle linee della compagnia privatizzata, ma Aerolineas deve pagare un “leasing” per servirsene. Nel 2001 Aerolineas Argentinas, proprietà di Iberia, era sull’orlo del fallimento per colpa dei nuovi proprietari. La privatizzazione di Aerolineas è un caso paradigmatico.
Un altro scandalo: i prestiti per cifre favolose contratti con i banchieri statunitensi o europei sono stati immediatamente ricollocati come depositi nelle loro stesse banche o in altre competitive. L’83% di tali riserve è stato depositato nel 1979 in istituti bancari fuori dal paese. Le riserve sono aumentate fino a 10.138 milioni di dollari e i depositi nelle banche estere hanno raggiunto gli 8.410 milioni di dollari.
Un esempio di connivenza tra una banca privata statunitense e la dittatura argentina: tra il luglio e il novembre del 1976, la Chase Manhattan Bank ha ricevuto mensilmente depositi di 22 milioni di dollari (cifre che poi sono aumentate ulteriormente), ricavando un interesse del 5,5% in quel periodo e, allo stesso ritmo, la Banca Centrale argentina ha acceso prestiti presso la stessa banca degli Stati Uniti, la Chase Manhattan Bank, a un interesse dell’8,75%.
Sinteticamente: il contribuente argentino paga il debito contratto dalle filiali delle multinazionali con le rispettive case madri o con le banche internazionali. Legittimo il sospetto che le multinazionali in questione abbiano creato un debito delle rispettive filiali argentine attraverso un semplice gioco di contratti. I poteri pubblici argentini non dispongono di alcuno strumento di controllo, e anche quando li hanno avuti si sono guardati bene dall’usarli.
E il Fondo Monetario Internazionale (sotto la dittatura e dopo, a coordinarne l’attività c’era lo stesso uomo, di origine italiana, Dante Simone)? E la Banca Mondiale? Hanno mai esercitato il minimo controllo sulla destinazione dei crediti? Ovviamente no, tanto più quando questi non entravano neppure in Argentina, ma tornavano, moltiplicati, al punto di partenza.
Allora FMI e BM sono organizzazioni criminali, o perlomeno complici di crimini? È difficile sostenere il contrario. Ma non sono organizzazioni dell’ONU? Certo, ma come stupirsene? L’ONU nel corso di più di mezzo secolo ha avallato crimini terribili compiuti dagli Stati imperialisti o loro complici, e abbandonato popoli come quello palestinese o quello curdo.
Piuttosto sarebbe meglio ricordare che a prendere le decisioni nel FMI e nella BM non sono misteriosi appartenenti a una specie di “Banda Bassotti”, ma i rispettabili rappresentanti dei sette paesi che detengono la maggioranza del pacchetto azionario e quindi a norma di statuto anche dei voti: Stati Uniti, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Francia, Canada e ... Italia.
Lo ricordiamo perché troppi compagni dimenticano le nostre responsabilità nei crimini economici commessi dall’imperialismo (appunto non solo nordamericano) in gran parte del mondo, e che generano crisi sociali e quindi correnti migratorie. E oltre a queste responsabilità collettive, assunte dai nostri governi (anche di centrosinistra), ci sono quelle di singoli capitalisti italiani.
Abbiamo parlato delle incursioni di imprese spagnole in Argentina, ma subito dopo queste (e prima di quelle degli Stati Uniti, vengono tante imprese italiane: dalla Telecom alla Todini a Benetton (che si è comprato per poco gran parte della Patagonia). Non lo dimentichiamo mai, ed anzi mettiamo nel conto dei nostri nemici di classe anche la distruzione dell’economia di un paese che aveva raggiunto una grande prosperità e che aveva accolto milioni e milioni di italiani. [1]
Luis Zamora
Luis Zamora ha militato in diverse formazioni della sinistra rivoluzionaria trotskista. Era stato eletto deputato nel 1989 in Izquierda Unida, ed era stato uno dei principali dirigenti del MAS, ma nel 1997 aveva presentato un severo bilancio della sua esperienza e per anni era parso lontano da ogni impegno politico organizzato. Nel giugno 2001, con non più di una cinquantina di compagni, aveva promosso una formazione dal nome Autodeterminación y libertad, che, senza nessun appoggio di partiti, senza una sede, aveva raccolto in poco tempo le firme necessarie per presentare una lista nel collegio di Buenos Aires; pur boicottata da gran parte della sinistra settaria, essa ha avuto un certo successo nelle elezioni di ottobre, ottenendo 140.000 voti, pari a quasi l’11% dei votanti in quel collegio, e due deputati (Zamora e José “Cuero” Roselli).
Luis Zamora oggi è bene accolto nei cacerolazos e nelle assemblee dei piqueteros, che pure ripetono unanimemente lo slogan “Que se vayan todos” (“se ne vadano tutti”, sottintendendo deputati e senatori, ma anche i membri della corrotta Corte suprema). Evidentemente per lui fanno eccezione, anche se qualcuno obietta che potrebbe aumentare la sua popolarità e al tempo stesso accentuare il discredito del Congresso offrendo le proprie dimissioni al movimento. |
[1] Le schede e le tabelle dell’articolo sono tratte da un saggio di Eric Toussaint finora inedito in Italia, Argentina: ¿El eslabón más débil de la cadena mundial de la deuda?, dal quale l’Autore ha tratto anche la quasi totalità dei dati della seconda parte dell’articolo.