L’integrazione europea e l’organizzazione scolastica e formativa

Annamaria Crescimanni

1. Premessa

La cultura si conquista attraverso un processo individuale di formazione della propria personalità, ma nel contesto di un’esperienza sociale consapevole che è appunto la azione educativa dello Stato o di ogni altra associazione che si ponga come “Stato” e la scuola è lo strumento più importante dell’opera statale di direzione culturale.

Accettando la definizione gramsciana di cultura e di intellettuale (specialista + politico e quindi oltre ai letterati anche i tecnici) non vi è dubbio che la scuola resta lo strumento fondamentale per elaborare gli intellettuali.

Non bisogna dimenticare che la scuola deve formare intellettuali di vario grado, secondo una scala verticale di specializzazione. Non servono solo gli intellettuali dell’alta cultura e della tecnica superiore e comunque non si formano gli intellettuali di grado elevato se non si sono curati i gradi intermedi.

Nel moltiplicarsi delle specializzazioni tecniche, richieste a loro volta dallo sviluppo delle forze produttive della società moderna, è una necessità obiettiva implicita il crescente moltiplicarsi dei tipi di organizzazione scolastica educativa e culturale.

Si tratta di esigenze nel campo dell’istruzione e formazione culturale (prima che professionale) particolarmente evidenti oggi che strumenti (visivi ed informatici) consentono, oltre che richiedere per sé stessi, una diversa organizzazione della didattica.

La complessità della funzione intellettuale richiede dunque una coerente organizzazione scolastica, anch’essa disegnata secondo gradi verticali di complessità e pari dignità formativa.

Purtroppo però non sembra di poter dire che coloro che hanno attualmente la responsabilità della coerenza del ciclo dell’istruzione e della formazione, come chi l’aveva prima di questi, si siano posti il compito di coordinare l’azione degli operatori dei diversi livelli scolastici in funzione di un progressivo arricchimento culturale delle nuove generazioni. Il risultato si vede nelle ultime proposte per la scuola del governo attuale, così come nelle proposte per l’Università del precedente governo.

La decisione di scrivere questo articolo parte proprio da questa constatazione fondamentale: al di là di alcune differenze anche importanti, gli obiettivi sostanziali di formazione dei giovani, contenuti nel progetto di riforma scolastica e universitaria del governo di centro sinistra, non sono stati mutati dal governo di centro destra.

Evidentemente la stragrande maggioranza degli uomini della politica, della cultura e dei tecnici del mondo dell’istruzione e della produzione, a prescindere dalle specificità dei partiti di appartenenza o vicinanza, concordano su quale debba essere il ruolo primario dell’insegnamento, in funzione di quali interessi debba essere organizzato.

Questa convergenza tutto sommato è coerente con quanto ci ha insegnato Gramsci, ossia che l’autonomia degli intellettuali, la loro indipendenza dal gruppo sociale dominante è una utopia sociale.

Come dice ancora Gramsci il tipo tradizionale e volgarizzato (nel senso di conoscenza comune) dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Tra questi si pongono senz’altro come caso “patologico” molti giornalisti-opinionisti che, con qualche giustificazione (visto che i loro libri, letteralmente riempiono gli scaffali delle librerie e che spesso godono di grande spazio non solo sui giornali e nelle televisioni, ma anche nelle scuole e nelle università), si sentono sicuramente letterati, filosofi, artisti e quindi intellettuali. Ciò nonostante meraviglia un poco che anche uomini politici ideologicamente (?) schierati, su un tema chiave come è quello della formazione dei giovani convergano, a prescindere dalle diverse visioni del mondo.

La questione a ben vedere non riguarda solo l’Italia ma, anche se il dibattito ha poco rilievo ovunque, riguarda l’intera Europa.

Possiamo senz’altro dire che, come nel passato più o meno remoto (anni ’40-’80), anche oggi vi è concordanza di vedute nella maggioranza degli uomini di cultura europei e, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, anche negli uomini di governo (di destra- centro -sinistra). Solo che la risposta di allora è diversa da quella di oggi.

Da pochi possiamo aspettarci quanto ieri, in via di principio, non era messo in discussione da nessuno “...la educazione è la condizione elementare della vita spirituale e morale dell’uomo del futuro... la vita per l’ignorante è moralmente insopportabile... Gli interessi dei giovani sono gli interessi di tutta la società”.

Sia nella società che tra gli esponenti della cultura dominante nei diversi paesi della comunità, sia che governi una forza conservatrice o progressista, difficilmente verrebbero date risposte di questo genere, questo per un motivo semplice: perché il giovane in formazione non è visto più come il futuro cittadino, ma come il futuro lavoratore.

Questo perché, in questa fase dei rapporti internazionali, i paesi dell’Europa sono profondamente condizionati dagli interessi economici.

2. L’Europa Unita dall’Euro

L’Europa ha iniziato ormai da diversi anni, ma non ha ancora completato, il processo di trasformazione in un unico soggetto sovranazionale, né la sua realizzazione appare a tutt’oggi vicina.

I soli interessi che sembrano godere di un riconoscimento comune e che evidentemente fanno pensare alla possibilità di un consolidamento in una struttura sovranazionale, sono appunto quelli economici.

Non a caso la prima realizzazione importante è stata quella della moneta unica, l’euro. Essa dovrebbe dare concretezza in Europa, ma soprattutto nel resto del mondo, all’idea della sua unicità come potenza economica e politica.

L’istituzione della moneta unica ha richiesto però un’accelerata convergenza dei valori di quelli che sono riconosciuti come parametri d’efficienza dei sistemi economici.

Di conseguenza, in tutti i paesi della comunità domina un “pensiero unico”, i cui punti fermi sono essenzialmente l’aumento del PIL e la diminuzione del costo del lavoro e della spesa sociale: dunque, innanzitutto, della previdenza, della sanità e dell’istruzione pubblica.

In funzione di ciò e sempre a prescindere dall’orientamento ideologico della forza di governo, è ormai in atto un riassestamento degli equilibri sociali, a svantaggio della classe lavoratrice.

Si può ben comprendere come questo stato di cose stia avendo una ricaduta anche nel campo della formazione culturale e professionale delle nuove generazioni.

Per limitarsi all’Italia, come abbiamo già detto, questo ha comportato una sostanziale convergenza d’intenti tra gli ultimi governi. Entrambi infatti parlano di scuola azienda, di studente cliente e di professore manager.

Non è in discussione la coerenza del governo di destra o del suo ministro (imprenditore) dell’Istruzione, ma quella del precedente governo, liberale con la partecipazione del partito socialdemocratico dei Democratici di sinistra, eredi, ma non sul piano ideale, del vecchio Partito Comunista (PCI).

È responsabilità di questi, infatti, aver introdotto, per molti imposto, il concetto di scuola e università come azienda, di aver esaltato il collegamento tra istruzione e necessità del mondo produttivo, di aver aperto le porte al finanziamento della scuola privata.

In realtà, non per diminuire la loro responsabilità, bisogna ammettere che nell’attuale fase di sviluppo, non solo l’Italia ma l’intera Europa ha spostato l’attenzione dalla complessità della funzione intellettuale (che ovviamente deve comprendere anche l’aspetto professionale) alla convenienza (per le aziende) della duttilità di una formazione tecnica non troppo specialistica. Inevitabilmente questo sta lasciando il segno anche nell’offerta didattica sia della scuola che dell’università.

Lo scopo dell’insegnamento non è più visto nell’arricchimento culturale del popolo ma nell’addestramento di nuova forza lavoro coerente con le esigenze del mercato; non è più in funzione della felicità dell’uomo, ma dell’accrescimento della ricchezza economica della nazione, più precisamente, dell’arricchimento dei detentori del capitale economico e finanziario.

Visto che per soddisfare gli interessi di questi è necessario spostare rapidamente i capitali sulle attività via via più remunerative, diviene necessario formare una forza lavoro sufficientemente acculturata, perché questo assicura una maggiore capacità di adattamento; ma non fortemente specializzata, perché questo ne limiterebbe la mobilità.

Ovviamente non si ritiene di poter fare a meno degli intellettuali, ma evidentemente si pensa di poter formare specializzazioni tecnico-culturali d’eccellenza a prescindere dalla qualità di tutti i gradi intermedi, a partire dalla scuola primaria e fino ai corsi universitari di primo livello.

 

3. Le azioni della Comunità europea in tema di istruzione

Se dunque non vi è differenza sostanziale tra le politiche per la scuola e l’università degli ultimi anni, pur dovendo riconoscere che una politica di destra viene molto meglio se al governo è la destra, è perché il filo conduttore è comunque la politica europea. È il caso quindi di ripercorrerne brevemente i documenti ufficiali.

La politica europea in tema di istruzione e formazione culturale è stata piuttosto intensa, in particolare a partire dal libro bianco “Insegnare ed apprendere. Verso la società conoscitiva” del 1995, che però va letto tenendo presente il successivo libro verde del ’96 sugli ostacoli alla mobilità transnazionale.

Dal 1997 i programmi comunitari riguardanti l’istruzione, la formazione e i giovani si sono allargati a diversi paesi dell’Europa centrale e dell’est, anche non appartenenti alla comunità europea e coinvolgono ormai ben 30 paesi, parte dei quali sicuramente in posizione subalterna rispetto alle scelte in discussione.

A partire dalle due indagini conoscitive si ebbero una serie di incontri diretti ad armonizzare gli ordinamenti vigenti, al fine di rendere possibile il reciproco riconoscimento (anche ai fini lavorativi) dei titoli di studio esistenti; riconoscimento ottenuto individuando un criterio di equivalenza fra i corsi dei diversi paesi della comunità, il sistema dei crediti ECTS, che opportunamente rende anche possibile il riconoscimento di attività svolte dagli studenti al di fuori del territorio nazionale.

Non ci si è certo limitati a favorire la mobilità degli studenti, azione lodevole, ben presto questa armonizzazione ha assunto il significato di un ridisegno culturale incisivo tanto in tema di istruzione scolastica che universitaria.

Tra i diversi programmi, un ruolo preminente ha Socrates, che copre l’intero settore dell’istruzione e che ha concluso la prima fase quinquennale il 31 dicembre 1999. Dotato di un bilancio iniziale di 850 milioni di ecu, con lo scopo di finanziare la mobilità di studenti, docenti e operatori, ha coinvolto complessivamente 275.000 persone, circa 1.500 università, scuole (8.500) e ha finanziato 500 progetti transnazionali.

La seconda fase del programma Socrates (2000-2006) ha avuto una dotazione di 1.850 milioni di euro; in esso vengono conglobate anche azioni specifiche, nate separatamente, come ad esempio Erasmus (volto a favorire la collaborazione tra le diverse sedi di istruzione superiore) o il programma Lingua (volto ad ottenere che i giovani, all’interno del periodo di studio obbligatorio, imparino almeno due delle lingue parlate nella comunità stessa).

A proposito di questo è il caso di rimarcare che la commissione europea mette in guardia dal rischio che in Europa si produca un impoverimento linguistico, con il prevalere di una sola lingua comune (ossia l’inglese, come sembra preferire il nostro Presidente del Consiglio dei ministri) raccomandando piuttosto agli stati membri di salvaguardare le differenze linguistiche, di cui rimarca il valore di patrimonio culturale.

Viene detto: “... l’adattamento permanente dei sistemi di istruzione e di formazione alle nuove esigenze costituisce una missione di importanza strategica per l’Europa, poiché la sua competitività economica e la stabilità della società europea si fondano sulle conoscenze sia teoriche che pratiche e su concezioni fondamentali comuni...” La parola d’ordine di Socrates ora non è più solo quella di favorire la mobilità di persone e idee, ma “istruzione lungo tutto l’arco della vita”, così da favorire la capacità d’inserimento e reinserimento professionale

In questo modo, attribuendone il compito alla scuola e all’università, in realtà si apre ad esse una nuova strada: quella della riqualificazione dei lavoratori, costo sociale che evidentemente non si vuole far gravare sulle aziende.

È logico perciò che le finalità di Socrates si mescolino così a quelle di un altro programma: Leonardo da Vinci che, fino dalla sua prima fase (95-99), aveva l’obiettivo di migliorare la qualità della formazione professionale in Europa.

Anche Leonardo ha comportato il finanziamento di progetti (3.000) e la mobilità di (130.000) persone, in maggioranza giovani, l’enfasi su questo progetto e anche i fondi però sono minori.

A gennaio 2000 si è aperta la sua seconda fase quinquennale, con una dotazione è di 1.150 milioni di euro e anche per esso il campo di applicazione non è più nella sola fase iniziale della formazione, che deve diventare continua e consentire l’acquisizione delle competenze nel corso di tutta la vita.

Esplicitamente, fatto di per sè necessario, si raccomanda di operare coerentemente nell’utilizzo delle opportunità dei due programmi, entrambi sono finalizzati alla crescita anche economica della società.

Dal 2000 partono altre iniziative che riguardano ad esempio lo studio delle lingue e la promozione dell’apprendistato e che globalmente si propongono di dimezzare, entro il 2010, il numero di persone fra i 18 e 24 anni che hanno frequentato solo il primo ciclo d’istruzione secondaria e che non proseguono gli studi o la formazione.

Se si vedono (sul sito web) i documenti ufficiali dell’Unione, come ad esempio le conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona del 2000, che fissano l’obiettivo strategico di creare un’economia della conoscenza competitiva e dinamica e obiettivi specifici riguardo alle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) e all’istruzione, o le conclusioni del Consiglio europeo di Stoccolma del 2001 che hanno riaffermato che migliorare le competenze di base, segnatamente la padronanza delle tecnologie dell’informazione e delle tecniche digitali, è una priorità assoluta per l’Unione, si vede come le argomentazioni sull’istruzione siano indissolubilmente legate a quelle sul lavoro o più precisamente finalizzate a quest’ultimo.

Si sottolinea “l’importanza di aumentare il livello delle competenze e la loro trasferibilità da un paese all’altro, e di rafforzare le politiche in materia di istruzione, competenze e formazione permanente,... avvalendosi dell’esperienza delle imprese, del mondo dell’istruzione e delle parti sociali... per conseguire il nuovo obiettivo strategico fissato a Lisbona, di rendere l’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”. Ecco che qui si esplicita lo scopo ultimo, strategico.

...I buoni propositi sono tantissimi, tutti sottintendono nobili sentimenti.

Torniamo allora al motivo della convergenza tra obiettivi di governi di destra e di sinistra. Un primo scopo perseguito con la riforma dei cicli è quello di facilitare l’accesso al titolo di laureato. Questo vale particolarmente per l’Italia che, come noto, non ha il numero di laureati necessari per il mercato del lavoro. Come si possono ottenere i numeri giusti? Rendendo più leggera la didattica, proporsi un ripensamento dei modi della didattica sarebbe troppo lungo e di minor certezza!

Ancora l’Europa è all’origine della seconda ragione di convergenza tra governi “antagonisti”. È l’Europa infatti che si è data l’obiettivo di legare più strettamente il problema della formazione culturale a quello della formazione professionale. Perché lo studente, chiamato a volte utente, a volte cliente, altri non è che il lavoratore di domani ed evidentemente si vuole consegnare al mondo del lavoro un giovane più pronto ad aderire alle esigenze del mercato del lavoro.

Un caso esemplare può chiarire bene la questione: la riforma dei cicli nell’università (che piace anche al nuovo ministro dell’Istruzione).

Come noto i vecchi corsi di laurea sono stati sostituiti da una struttura verticale:un corso triennale di laurea, seguito da un corso specialistico, in genere biennale. Almeno in Italia (ed è così da tempo in Gran Bretagna), non ha, però, prevalso l’opinione di quanti ritenevano che doveva trattarsi di due gradi verticali di progressivo arricchimento culturale, per entrambi i quali era necessario insegnare in funzione del comprendere le ragioni del fare. Se non in tutti, almeno in molti casi ha prevalso l’opinione di quanti ritenevano che, con il primo ciclo triennale di studio superiore, si poteva imparare solamente a saper fare e solo dopo il biennio specialistico si potevano comprendere le ragioni del fare, il sapere: la cultura. -----

Insomma un giovane fa un percorso di studio che inizia ormai intorno ai 3- 4 anni, arriva a 19 anni all’Università, ma se si accontenterà del corso triennale, non sarà ritenuto in grado di soddisfare bisogni culturali, visto che si è deciso che di cultura si può parlare a partire dal secondo ciclo specialistico.

Pazienza se, come si prevede, solo pochi giovani accederanno alle lauree specialistiche: del resto il sapere- alto è per le èlite. Ancora più difficile accedere ai Master, piuttosto costosi, a meno che non si vinca una borsa di studio, ulteriormente più difficile accedere ai corsi di dottorato, questi retribuiti.

La parola d’ordine proposta dal Ministro Berlinguer, ma probabilmente coniata nel contesto della commissione europea dell’istruzione (e infatti usata tutt’ora), “sapere per saper fare” sintetizza un concetto fondamentale, di per sé condivisibile. Indubbiamente non si può negare che lo scopo finale è questo, il problema è nell’equilibrio e nell’ordine dato a questa realizzazione.

Il percorso della modificazione della funzione docente non è ancora terminato e speriamo che qualcuno, in uno dei paesi della comunità, abbia la voglia e l’autorevolezza di riporre la questione di fondo, sottintesa nell’azione di formazione: formare nell’interesse di chi? Del giovane e dell’intera società o del settore produttivo?

Del resto nelle raccomandazioni ufficiali non si invita certo ad un impoverimento dell’offerta didattica, questa è stata però anche la logica conseguenza dei nuovi obiettivi didattici.

Certo meraviglia come docenti universitari che, anche esagerando, non avrebbero mai consentito di riconoscersi in un ruolo di formazione direttamente utile, tanto è vero che si erano nella stragrande maggioranza rifiutati di applicare la sostanza della legge del 1990 che istituiva i Diplomi Universitari, ora abbiano collaborato o almeno attuato senza opporre resistenza, una riforma, cui in via di principio e in stragrande maggioranza, si dichiaravano totalmente alieni.

Meraviglia che nelle loro discussioni gli addetti ai lavori, i docenti, nel richiamarsi alla parola d’ordine “saper per saper fare”, esaltati dal fare si vadano dimenticando (le eccezioni contano poco) che per saper fare bene si deve aver capito le ragioni profonde dell’azione, si siano dimenticati che l’istruzione diventa cultura solo se lo studente, con l’aiuto del docente, riesce ad organizzare in un insieme coerente le informazioni accumulate.

Eppure loro sanno, o sapevano, che la scuola ha un fine concreto ma di una concretezza ideale e non meccanica e che questo deve valere anche per le scuole che intendono produrre una formazione tecnica o direttamente professionale.

Perché occorre abituare i giovani alla critica, all’analisi e alla sintesi; perché la scuola deve preparare i nuovi “intellettuali”.

Questo comunque non è lo scopo che unisce i governi degli ultimi tempi e, che lo si voglia o no, non è più lo scopo dei professori delle scuole e delle università.

Ancor meglio ce lo prospetta il testo della legge del febbraio 2002, che delega al governo la riforma dei cicli scolastici e che prefigura che nel sistema della formazione professionale, a partire dai 15 anni e fino ai 18, il giovane studente (- lavoratore) alterni periodi nella scuola a periodi di lavoro. Certo alla fine di questo lungo tirocinio sarà pronto per il lavoro, senza perdita di tempo e denaro da parte dell’azienda. Fosse questo lo scopo finale?

 

4. L’offerta didattica dei diversi paesi della Comunità europea

Non vi sono dubbi che una entità statuale si riconosce anche nell’omogeneità della struttura scolastica e che l’offerta didattica in Europa non lo è ancora, è quindi indiscutibilmente necessaria una politica volta alla sua omogeneizzazione. Per convincersene basta leggere il rapporto “Le cifre chiave dell’istruzione in Europa” disponibile sul sito web eurydice.org. Eurydice, nata nel 1980 è parte di Socrates e tra l’altro gestisce la banca dati Eurybase che, contenendo informazioni sui sistemi educativi dei paesi interessati (30, con la Turchia), consente di verificarne le diversità.

Per quanto riguarda la struttura didattica dell’istruzione nel suo insieme non si tratta di differenze sostanziali tanto è vero che il riferimento alla Classificazione Internazionale Tipo dell’Educazione (CITE) dell’Unesco consente la riconduzione ad un percorso equivalente che prevede: CITE 0= pre- primaria, CITE 1= primaria, CITE 2= secondaria, CITE 3= secondaria superiore, CITE 4= post- secondaria, CITE 5= superiore di 1° livello, CITE 6= superiore di 2° livello, CITE 7= superiore avanzato.

Quanti sono giovani della cui formazione stiamo ragionando? A di là dei valori assoluti, tenendo anche conto del fatto che il tasso di natalità in Europa è in diminuzione a partire dagli anni 60, i dati mostrano una positiva tendenza al prolungamento del tempo degli studi, oltre la scuola dell’obbligo.

Nella comunità europea, alunni e studenti sono il 22% della popolazione totale (83 milioni nel ’97) e il 57% dei giovani al di sotto dei trent’anni, qualche cosa di più se si guarda all’insieme dei 30 paesi coinvolti. Il 55% di essi sono nell’età dell’obbligo scolastico, il 15% nell’istruzione superiore (università, politecnici...).

È il caso di notare che l’Italia che è tra i paesi con le più alte percentuali di iscritti ai corsi universitari, è però anche tra quelli con le più basse percentuali di laureati, sicuramente minori del necessario. Non sono gli unici dati negativi per il nostro Paese, i nostri valori sono spesso sotto la media europea e questo testimonia della necessità di affrontare seriamente il problema, senza crogiolarsi nell’enumerare i grandi risultati dei pochi che raggiungono la formazione eccelsa, perché la maggioranza di loro la hanno raggiunta per meriti individuali.

Ad esempio, sempre nel 1997 in media solo il 31%, ma oltre 40 per Italia ( anche Lussemburgo e Portogallo) dei giovani tra i 20 e 29 anni non era in possesso di diploma di istruzione secondaria superiore (la percentuale era di 53 per le persone tra i 50 e i 59 anni).

Senza dimenticare che questi giovani che abbandonano lo studio non troveranno facilmente un’attività lavorativa.

Quasi il 25% dei giovani europei che hanno lasciato gli studi e cercano un lavoro, non lo trovano. Nella distribuzione dei valori, Danimarca, Paesi Bassi e Austria hanno quelli più favorevoli, viceversa Francia, Italia, Lussemburgo e Grecia i peggiori.

5. Istruzione scolastica

Per la maggioranza dei paesi la scuola primaria obbligatoria comincia a sei anni e costituisce un livello separato, anche se formalmente in alcuni casi non vi è distinzione tra ciclo primario e secondario inferiore e in altri vi è addirittura un unico ciclo complessivo. La sua durata va da un minimo di quattro anni (Austria e Germania) a un massimo di sei (la maggioranza).

Intorno ai dieci anni si frequenta un anno terminale di istruzione primaria e si ha comunque un incremento del numero di ore di lezione.

Anche le materie obbligatorie sono in genere le stesse in tutti paesi, anche se il tempo dedicato può essere diverso. Anche in questo caso possiamo fare una nota per l’Italia. Spesso si lancia l’allarme per la poca riuscita dei nostri giovani nelle gare di matematica, bene occorre sapere che l’Italia è tra quanti dedicano meno tempo ad essa, sin dal tempo della scuola elementare.

Restano aperte alcune questioni perché manca una soluzione di netta prevalenza. Uno dei temi riguarda l’opportunità o meno della ripetizione dell’anno scolastico per gli alunni in difficoltà. Alcuni paesi, tra cui l’Italia, la prevedono come fatto eccezionale (e ogni anno qualcuno ne chiede un uso più generalizzato), in Francia e Spagna la ripetizione di un anno si può avere solo al termine del ciclo, mentre in Gran Bretagna, Svezia e Norvegia vige la promozione automatica.

Una seconda questione che ha soluzioni diverse, è quello dell’utilizzo di esami formali per il controllo dell’efficacia didattica, alcuni paesi prevedono un esame di controllo ogni due anni, altri solo alla fine dei cicli, altri ancora, anche in questo caso, non sempre.

L’obbligo scolastico non termina alla stessa età. L’Italia sta per uniformarsi (almeno sembra) ai paesi in cui termina a 15 anni, anche se la maggioranza conclude a 16.

Non sempre la fine della scuola dell’obbligo coincide con il termine del ciclo secondario inferiore. Mentre anche la secondaria inferiore e comunque l’organizzazione dell’istruzione sino ai 13 anni è piuttosto simile, lo stesso non vale per la secondaria superiore.

In questo caso le differenze nell’organizzazione scolastica, valgono sia per quanto riguarda il monte ore, sia le materie di studio, dovendo l’offerta didattica coprire le necessità di diversi indirizzi di studio, si esaltano anche le differenze di impostazione generale tra i paesi.

Una prima ramificazione fondamentale, presente ovunque, distingue tra indirizzo orientato all’accesso alla istruzione superiore (indirizzo generale) e indirizzo orientato professionalmente (anche questo però consente ugualmente di proseguire gli studi).

Nella maggioranza dei casi (tra cui l’Italia) a prevalere è la frequenza dell’indirizzo professionale. Come si comprende a questo livello di studio non si tratta più di differenze nei tempi di studio delle stesse materie, ma di curricoli anche totalmente diversi.

Profondamente diversi possono comunque essere anche i corsi di studio interni all’indirizzo generale.

Una particolarità rilevante, riguarda la non obbligatorietà delle materie. Il caso estremo si ha nel Regno Unito e in Irlanda dove gli studenti, a partire da sedici anni, non hanno materie obbligatorie, mentre in altri paesi i giovani hanno delle ampie opzioni (Belgio, Germania, Olanda), totalmente assenti in Grecia e Italia. Si ricorderà lo sconcerto e la polemica prodotta (più per l’improvvisazione che per la sostanza della novità) dall’utilizzo dello strumento in un documento di riforma.

Pur differenziandosi la struttura organizzativa, la scuola secondaria in generale termina al compimento del diciannovesimo anno di età.

Indubbiamente la commissione europea per l’istruzione, pur rispettando le specificità locali, dovrà trovare dei criteri per uniformare di più l’offerta didattica in tema di scuola media superiore.

 

6. Istruzione superiore

Gli studenti iscritti a corsi di istruzione superiore sono 12 milioni, il loro numero è in aumento in Europa e nei singoli paesi; ancor più in termini relativi tenendo conto del calo demografico, globalmente è raddoppiato negli ultimi 30 anni.

Solo in Grecia le decisioni relative ai limiti di posti e criteri di selezione vengono prese a livello centrale. Negli altri paesi queste sono decise dai singoli istituti, eventualmente all’interno di vincoli decisi centralmente, questo ora, con la riforma universitaria, succede anche in Italia, mentre Belgio e a Austria non pongono vincoli al libero accesso.

Pur avendo l’Unione Europea attivato delle forme di sostegno alla mobilità degli studenti (Erasmus) e benché al successo di questa azione sia data grande enfasi, pubblicitaria, solo il 2% di essi studia per un periodo breve, in un altro stato membro o in un paese della comunità allargata. Una indagine apposita, della stessa comunità, ha evidenziato che a goderne sono prevalentemente i giovani di ceto più elevato.

Nell’Unione Europea, il 22% dei giovani tra i 30 e 34 anni è in possesso di un diploma di istruzione superiore. Ciò non vale all’interno dei diversi paesi: in Belgio e Svezia quasi il 30%, Italia a Austria e Portogallo meno del 15. Come già detto, almeno per quanto riguarda l’Italia, al di sotto delle esigenze del paese, anche se potremo attenderci a breve termine un qualche miglioramento del dato, visto che hanno cominciato ad essere istituiti, in modo generalizzato a partire dal 1996, i corsi universitari triennali (CITE 5).

7. La politica europea per l’istruzione-formazione superiore

Non ci sono dubbi che se si vorranno uniformare i titoli di studio, pur salvaguardando le specificità locali, occorrerà occuparsi della scuola media superiore Bisogna però riconoscere che, per quanto riguarda l’istruzione superiore, vi è già stata una consistente attiva.

Rispetto all’Università, la politica comunitaria viene enfatizzata con la dichiarazione congiunta dei ministri competenti di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, avvenuta a Parigi, il 25 maggio del 1998, in occasione della celebrazione della fondazione dell’Università della Sorbona.

Nell’anno successivo, il 1999, è stata sottoscritta una nuova dichiarazione a Bologna. Questa volta firmata dai 30 paesi associati in una comune politica per l’istruzione.

La Comunità europea rivendica la necessità che: “il sistema europeo dell’istruzione superiore acquisti nel mondo un grado di attrazione corrispondente alla nostra straordinaria tradizione scientifica e culturale”.

In particolare nella prima di queste dichiarazioni, intitolata “L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa”, risulta subito esplicita la nuova filosofia.

Testualmente si dice: “Noi dobbiamo ai nostri studenti ed alle nostre società in generale un sistema di istruzione superiore nel quale a ciascuno siano offerte le migliori opportunità per individuare il proprio campo d’eccellenza”.

Spesso il richiamo agli interessi dei singoli costituisce una strada per porre in secondo piano, se non negare, gli interessi collettivi. Anche in questo caso sembra proprio che si voglia soddisfare un interesse di parte.

Si nega l’opportunità di una definita formazione comune, privilegiandone una indicata come meno mirata, proprio perché si riconosce che ciò può rendere più facile la mobilità (ossia lo spostamento) dello studente, futuro lavoratore.

La formazione diviene “flessibile”, perché in prospettiva deve assicurare un rapido adattamento del lavoratore all’eventuale mutare delle esigenze del mercato produttivo.

Indubbiamente in questo modo si soddisferà anche il suo bisogno di lavoro, ma soprattutto si potrà assicurare una pronta adesione alle convenienze del datore di lavoro. E infatti, proprio per favorire la mobilità del lavoratore si decide anche che, tra i compiti delle università, debba esserci quello dell’istruzione permanente: istruzione lungo tutto l’arco della vita.

Questo del resto viene detto esplicitamente in diverse riunioni del Consiglio europeo: “promuovere la mobilità è uno degli obiettivi fondamentali delle disposizioni del trattato relative all’istruzione, alla formazione professionale e alla gioventù”.

Quello che si vuole costruire è un sistema universitario unico, in funzione di un unico mercato del lavoro, che in quanto tale assicuri, per le forze imprenditoriali, un agevole utilizzo di forza lavoro omogeneamente, ma non troppo specificatamente formata, in funzione di ciò occorre “... sviluppare un quadro per l’insegnamento e l’apprendimento che rafforzi la mobilità” prima dello studente, poi del lavoratore.

È nella dichiarazione di Bologna che, in funzione di ciò, viene concordata una strategia comune ed un piano di riforma organico che prevede la riorganizzazione dello studio universitario secondo i due cicli principali.

Il primo, in genere di durata triennale, costituente titolo di qualificazione nel mercato del lavoro e anche titolo per l’accesso al secondo livello, specialistico e in genere di durata biennale. A questi potranno seguire corsi di dottorato e Master, ossia corsi più o meno brevi su argomenti specifici.

Inutile dire che, questa struttura organizzativa, allungando fortemente i tempi per la formazione “eccellente” e quindi anche il suo costo, ne precluderà l’accesso a molti studenti.

Una successiva riunione dei ministri dell’istruzione superiore a Praga e alcune riunioni del Consiglio europeo, hanno attivato specifici programmi di supporto e finanziamento locale finalizzati alla realizzazione delle scelte politiche prese.

Come per la scuola, anche per l’università, a partire dall’esigenza di rafforzare le politiche in materia di istruzione e formazione permanente e di mobilità, si introduce, in realtà in modo generalizzato, il ricorso all’esperienza delle imprese, del mondo dell’istruzione e delle parti sociali.

In questo modo ci si propone di “rendere l’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo”.

Al di là delle parole, come in questo caso, a volte un po’ presuntuose e roboanti, globalmente rispetto all’istruzione si dà l’avvio ad una riforma dei cicli scolastici e della struttura universitaria nettamente orientata agli interessi del mondo imprenditoriale e capitalistico - forza ispiratrice dell’intero disegno riformatore - cui per la prima volta almeno in Italia, viene riconosciuto al riguardo un esplicito ruolo decisionale e di controllo, che comprende l’attivazione e l’orientamento disciplinare dei corsi universitari, nonché la valutazione dell’attività di docenza.

In coerenza con ciò, in Italia ci si propone di trasformare gli operatori del mondo dell’istruzione in manager e le strutture scolastiche e universitarie in aziende; nel contempo si aumenta drasticamente il costo dell’istruzione a diretto carico delle famiglie, attraverso cospicui aumenti delle tasse universitarie.-----

Si sta favorendo un profondo e negativo mutamento nella coscienza collettiva: la scuola non viene più proposta come lo strumento più importante dell’opera statale di direzione culturale, in grado di garantire lo sviluppo del corpo sociale, ma come uno strumento di formazione del lavoratore, perciò opera non più da delegare nelle sue linee fondamentali a struttura pubblica e la cui organizzazione coerentemente deve essere definita con il concorso dei più diretti interessati, gli imprenditori privati, ovviamente.

8. I modi della riforma in Italia

A differenza di altri paesi della comunità europea, l’Italia alla fine degli anni ’60 ha favorito l’accesso generalizzato dei giovani all’Università. Questo probabilmente anche come forma di controllo sociale verso giovani che non avrebbero comunque trovato accesso nel mondo del lavoro.

In via di principio ovviamente non si può non preferire una università di massa ad una università organizzata per una limitata èlite di giovani. Se però si aprono, come si è fatto, le porte dell’università ai giovani di formazione più debole senza riorganizzare in modo adeguato la didattica, si rischia di fare un danno grave ai giovani e alla società.

Di fatto l’accesso alle nostre Università è libero ma a laurearsi è solo il 30 % dei giovani che si iscrivono e visto che ad iscriversi all’università è circa il 45% dei giovani che prendono il diploma di scuola media superiore, a laurearsi è poco più del 13% dei diplomati.

Il tempo medio impiegato da quanti si laureano non è quello che prevedono gli ordinamenti, anziché quattro o cinque servono in media quasi 7 anni e questo significa che molti giovani si laureano dopo 8 anni o più. Come si vede, non un buon risultato ed una seria riforma sarebbe stata necessaria. Questi dati sono ormai noti a tutti, ma è sempre il caso di rimarcare il punto di partenza di qualsiasi ragionamento serio sull’Università e la sua necessità di riforma.

Nel ’68 si è potuto liberalizzare l’accesso, ma non si è potuto, voluto o saputo, operare la necessaria riorganizzazione della didattica.

Sarebbe stato necessario modificare il modo di insegnare. L’insegnamento è un servizio di pubblica utilità che si realizza pienamente solo se si prevedono anche forme attive di partecipazione per lo studente.

Con l’attuale riforma questa presenza attiva è stata attuata, purtroppo però mentre fino ad oggi nella didattica si è prevista la sua connessione con la ricerca di base, ora questa connessione viene sostituita da quella fra didattica e ricerca finalizzata, ossia di utilità pratica.

Questo proprio perché, come abbiamo già notato, si è imposto uno stretto collegamento tra sistema produttivo e università. Quest’ultima deve organizzare lo studio in funzione delle necessità attuali del mondo produttivo, come se vi fosse una sorta di contrapposizione tra professionalità e cultura.

In particolare le esigenze culturali della formazione scientifica sono sentite solo come esigenze tecniche e quindi mirate all’utilizzo.

Come si vede, quanto abbiamo detto per l’Europa vale anche per l’Italia. Come l’Europa anche l’Italia, volta agli interessi economici, parla di università azienda, studente-cliente e professore-manager.

I termini di riferimento dei ministri ( Democratici di sinistra ) dei precedenti governi sono uguali a quelli dell’attuale ministro (una manager dell’industria).

Anche se restano alcune differenze che in qualche modo rimarcano i riferimenti culturali dei ministri responsabili, l’impianto generale, il principio fondamentale, è lo stesso: la scuola, l’università sono aziende e quindi hanno una natura economica, le decisioni vanno assunte in una logica manageriale, favorendo iniziative che aumentino il budget dell’azienda o migliorino la sua “immagine”.

È una logica conseguenza che la scuola e università pubblica non gravino più solo sul bilancio dello Stato e che esse debbano (in realtà ancora dovrebbero) in parte provvedere attraverso forme di finanziamento da parte di aziende pubbliche e private. In nome del principio dell’autonomia organizzativa, amministrativa e in parte anche finanziaria dallo Stato ...ci si lega ai privati... in nome dell’autonomia?

Certo un governo di destra sa interpretare meglio la parte e così, mentre si decurtano di fondi per la ricerca pubblica, si apre alla scuola e alla ricerca privata. Però è stato con il governo di centro-sinistra che, nel gennaio 2001, si è costituito un comitato paritetico, Ministero della pubblica istruzione e Confindustria con il compito di mettere a punto iniziative per “la diffusione della qualità nella scuola”.

In Italia la scuola privata è essenzialmente una scuola cattolica ed è in fase di attuazione una sua totale equiparazione, eliminando le attuali, pur deboli, forme di controllo.

Non a caso si istituisce una commissione diretta a definire un codice deontologico per gli insegnanti e si pone a presiederla un cardinale.

A sanzionare la nuova politica il ministero è detto “Ministero dell’Istruzione”, non più ”Pubblica Istruzione”.

Questo profondo mutamento, che non avevano neppure sognato di proporre i governi democratico-cristiani, è possibile oggi all’interno del nuovo quadro europeo.

Non è stato possibile costruire un’Europa politica, si è pensato di arrivare a questa attraverso l’Europa economica.

L’Europa cui arriveremo sarà un’Europa liberista che non si limita alla mitizzazione del libero mercato ma che abbraccia il mito della virtù della libera = privata iniziativa.

Uno scenario per niente rassicurante per chi ancora creda, se non nella possibilità di uno Stato “al di sopra delle parti”, almeno in quella di un civile contemperamento degli interessi.