La privatizzazione finanziaria

Joseph Halevi

1. Introduzione

Eric Helleiner nel suo ormai classico lavoro sulla finanziarizzazione dell’economia mostra come tale processo sia stato stimolato e sospinto dallo Stato in risposta alla crisi del sistema di Bretton Woods [1]. In tal senso gli stati occidentali si sono mossi nella direzione della crisi dell’accumulazione reale iniziatasi ai primi degli anni Settanta. Il principale effetto tangibile del processo della finanziarizzazione è costituito dall’accresciuta aleatorietà dell’investimento reale. Se le condizioni per effettuare quest’ultimo diventano più difficili anche l’ottenimento di profitti da investimenti produttivi risulterà più ostico. Per Keynes l’aleatorietà dell’investimento caratterizzava lo stato normale dell’economia per cui la scappatoia verso attività il cui rendimento non comportava un relativamente alto rischio di illiquidità era tanto più presente quanto più il sistema finanziario e borsistico erano efficienti. Per Lenin invece lo sviluppo del sistema monopolistico conteneva gli elementi della sua finanziarizzazione ed in questo contesto i movimenti internazionali di capitali e l’imperialismo assumevano delle caratteristiche connaturate al sistema economico stesso. Le due tesi sembrano ricongiungersi a partire dagli anni Ottanta quando alla crisi dell’investimento nei maggiori settori dell’economia corrisponde un vero e proprio boom nei settori finanziari e nelle tecnologie, spesso nuove e di punta, ad esso connesse.

La finanziarizzazione è sostenuta attivamente dagli stati e ciò contribuisce a modificare la definizione stessa del settore pubblico e di ciò che conviene che sia pubblico o privato. In sostanza lo Stato assume non solo la funzione di assecondare l’espansione finanziaria ma di diventare a sua volta una fonte di surplus finanziari appunto. La natura proprietaria delle imprese viene oggi disgiunta anche dalle tradizionali considerazioni liberali concernenti i monopoli naturali, la necessità di offrire servizi che, sebbene non regolarmente domandati, debbono essere sempre disponibili come i pompieri e le ambulanze. È scomparso totalmente il ragionamento, una volta presente nei tradizionali manuali di finanza pubblica, secondo il quale un servizio pubblico non può essere valutato in termini di costi e ricavi, quindi in base al profitto, perchè il suo eventuale deficit in realtà sovvenziona una molteplictà di attività che di tale servizio usufruiscono. L’eliminazione di considerazioni tecnico-normative che provengono dallo stesso pensiero liberale è da ascriversi alla concezione puramente finanziaria delle forme di proprietà che annega e distrugge la stessa base tecnica su cui si fonda la ragion d’essere di una società sia privata, sia pubblica.

2. Mutamento del ruolo della finanza pubblica

Apparentemente gli stati vendono attività pubbliche con l’obiettivo di alleggerire il bilancio o di ripianare dei deficit e così via. In realtà, una parte del lavoro erogato che i cittadini occupati recuperano sottoforma di salario deve essere ulteriormente sacrificata per mantenere in attivo il bilancio pubblico senza pertanto ottenere alcuna contropartita in termini di servizi. Pagare per respirare dunque. Perchè? Perchè lo Stato deve trasformarsi in una società finanziaria, non bancaria, forma moderna dell’esazione feudale? La risposta va articolata su due livelli. Il primo è quello macroeconomico, il secondo riguarda le garanzie contro il rischio e le disfunzionalità, ben note ai neo-proprietari, inerenti alle privatizzazioni.

Sul piano macroeconomico la necessità di disfarsi dai deficit di bilancio corrisponde all’esigenza di punire, attraverso la scarsità sociale della moneta, la popolazione lavoratrice - accusata di domandare troppi servizi e beni sociali quando l’accumulazione era già entrata in crisi -. Non c’è bisogno di ipotizzare un ‘piano del capitale’ per spiegare la volontà punitiva nei confronti del lavoro dipendente. Basta constatare come lo Stato si faccia carico - attraverso la politica - delle preoccupazioni del settore privato, quello delle imprese e quello bancario. La crisi dell’accumulazione comporta un orientamento pessimistico nelle aspettative di profitto imprenditoriale. Concretamente le imprese si adopereranno quindi per aumentare la pressione per una flessibilità verso il basso dei salari rispetto alla produttività. Le aspettative negative si riproducono nel settore bancario. Tanto più le banche temono l’avvenire, tanto più esse esigeranno delle rendite sui prestiti erogati. Questi due aspetti non possono però coordinarsi spontaneamente. Devono invece venir incorporati nelle politiche della Banca Centrale ed in quelle della finanza pubblica. La prima, attraverso il tasso di interesse, deve dunque emettere una norma monetaria compatibile con le aspettative ed i desideri del settore bancario cui si deve adeguare anche la finanza pubblica [2]. Quest’ultima deve assecondare le attese di austerità sia da parte dei mercati finanziari che da parte delle imprese nei confronti dei salari. Sulla finanza pubblica ricade quindi il compito di introiettare l’austerità nella gestione del rapporto tra massa salariale e spesa sociale dato che nelle economie capitalistiche post 1945 questi due elementi sono strettamente collegati, perfino negli Stati Uniti ove il welfare state è minimo. In questo contesto, la riduzione dei profitti indotta dalla restrizione della spesa pubblica non induce ad un mutamento nel consenso capitalistico riguardo l’austerità salariale e generale. Ad eccezione di casi ove la crisi è percepita come una reale minaccia di implosione del sistema economico (Giappone), l’austerità iniziale comporta un’ulteriore dose della medesima.

Raramente tale ricetta produce la quadratura dei conti. La riduzione della spesa pubblica, l’aumento della disoccupazione permanente, la necessità di correre in salvataggio di istituti finanziari in eventuale difficoltà [3] - difficoltà a loro volta indotte dalla crisi dell’accumulazione reale - impone allo Stato, una volta introiettata dalle forze politiche l’austerità salariale ed i corrispondenti desideri di rendita da parte del settore bancario, di predisporre gli strumenti volti ad evitare il riemergere dei defict pubblici ed il conseguente deragliamento delle politiche di supporto ai mercati finanziari ed alla flessibilità del salario e del lavoro. Le privatizzazioni entrano in questa logica che si sposa pienamente con l’obiettivo di classe di arricchire il capitale privato trasferendo nelle sue mani ampi fette di richezza pubblica. In tal modo vengono spesso presi due piccioni con una fava perché le privatizzazioni comportano l’aumento della precarietà dei dipendenti delle ex-aziende pubbliche acuendo così la flessibilità del ‘mercato del lavoro’.

Dall’aspetto macreconomico passiamo ora a quello aziendale e vedremo come questo si colleghi al primo attraverso le disfunzionalità che la privatizzazione dei servizi pubblici comporta.

Il capitalismo fordista o militar-keynesiano che dir si voglia, non si poneva in realtà un problema di privatizzazione dei settori nazionalizzati. Tanto meno si poneva il problema di privatizzare le aziende di pubblica utilità. Dato il settore pubblco quello privato si espandeva grazie alla domanda sostenuta dalla spesa statale. A sua volta l’estensione dei servizi implicava un adeguamento della dimensione del settore pubblico. Oggi per privatizzazione si intendono prevalentemente le aziende di pubblica utilità non solo perchè quelle tradizionali o sono state già vendute o, il più delle volte, sono state chiuse. Ma soprattutto perchè nei settori serviti dalle aziende di pubblica utilità si trovano o si pensa di trovare delle sicure fonti di rendita. Il fatto che il capitalismo fordista militar-keynesiano non avesse delle grandi idee sulle privatizzazioni - negli USA, ove anche acqua e telefoni appartenevano a società private, il problema non si poneva - comportava la mancanza di regole e di metodi in materia. Inoltre la stessa distruzione della coscienza pubblica, condizione necessaria per passare alla privatizzazione globale, riultava problematica. Infatti non tutte le classi dirigenti dei paesi capitalistici aventi un ampio settore pubblico, potevano permettersi la guerra frontale scatenata da Margaret Thatcher prima di passare alle privatizzazioni che vennero in realtà assai più tardi e mai nella dimensione programmata dal governo laburista attuale che ha addirittura privatizzato settori ancora formalmente pubblici con il trucco dei mercati interni.

3. Privatizzazioni laburiste

Procedure istituzionali, quindi soft, di privatizzazione sono venute da paesi capitalisti periferici ma fortemente ancorati al cuore del mondo anglo-americano. Si tratta dell’Australia, della Nuova Zelanda e del Canada la cui esperienza va vista però provincia per provincia. Ad ogni modo le esperienze di questi paesi sono state incorporate dall’Ocse, dalla Banca Mondiale e al Fondo Monetario come indicazioni o modelli procedurali [4]. Anche le massicce privatizzazioni effettuate da Jospin durnate il suo malaugurato governo - tanto ammirato dalla pseudo sinistra italiana - sono state ispirate, forse indirettamente, dalle procedure adottate dalle suddette nazioni anglosassoni. Infine la politica privatistica di Blair è stata esplicitamente influenzata dall’ esperienza australiana, anch’essa laburista, del periodo 1983-96 [5].

Lo schema generale ricalca le osservazioni macroeconomiche svolte in precedenza. Tuttavia il ferreo controllo laburista sui sindacati, da cui provengono la maggioranza dei leader di quel partito, ha comportato la simultaneità della politica di restrizione di bilancio con la modificazione in senso negativo dei contratti collettivi di lavoro. L’effetto si è sentito soprattutto nel settore pubblico le cui componenti hanno subito da un lato una riduzione, prima relativa poi assoluta, dei fondi erogati e dall’altro un netto deterioramento nei rapporti contrattuali che ha aperto la strada alla flessibilità, vedi calo, salariale. Contemporaneamente i laburisti hanno sollecitato modificazioni negli ordinamenti interni degli enti pubblici trasformando le carriere dirigenziali in carriere manageriali. Ne consegue che i manager ottenevano il permesso di fissare i loro stipendi in base alle ‘condizioni di mercato’. Però ad esclusione del campo medico i cosiddetti ‘mercati’ non esistevano per cui come approssimazione venivano presi gli stipendi ed emolumenti versati da aziende private di comparabile grandezza. I contratti di lavoro sancivano la crescente divaricazione salariale trasformando lo stipendio contrattuale in un salario minimo. Infatti i laburisti hanno richiesto ai sindacati di accettare la contrattazione individuale per ogni aggiunta al salario pattuito collettivamente. La trasformazione del salario contrattuale in stipendio minimo di base non poteva che spingere la maggioranza dei dipendenti a ricercare un introito aggiuntivo attraverso la contrattazione individuale. In tal modo la dirigenza neomanageriale poteva richiedere come contropartita nuove condizioni normative valvoli però per tutti - ricalcanti precise indicazioni del governo - volte ad introdurre criteri di produttività anche in servizi non tangibili. A sua volta la contabilità interna di queste aziende ed enti subiva una mutazione sostanziale. La riduzione dei fondi pubblici e l’esplosione delle paghe manageriali riduceva tanto le voci per gli stipendi, quanto quelle afferenti alla produzione dei servizi, a somme residuali. In altre parole, prima si assicurano gli stipendi manageriali poi gli altri e se non rimane niente, il nuovo cat scan non si compra, oppure se si compra si devono pianificare ristrutturazioni, licenziamenti, per l’anno prossimo. Questa libertà di manovra si rendeva possibile grazie alla sostituzione della normale direzione burocratica con consigli di amministrazione aventi poteri autonomi in materia di spesa di assunzioni e di licenziamenti.

Fin qui gli enti sono ancora formalmente pubblici. La privatizzazione appare in due forme, una diretta ed una indiretta, ossia attraverso i cosiddetti mercati interni di Blair, già ampiamente sperimentati in Australia, Nuova Zelanda e Canada. Ambedue le forme derivano dai tagli al bilancio pubblico. Le decurtazioni di bilancio introducono un vincolo severo interno all’ente il quale ha difficoltà ad espletare la sua funzione tecnica. Non ha i soldi e va in deficit. L’ente viene quindi considerato inefficiente e se ne propone da parte del governo, generalmente statale nel caso dell’Australia e provinciale nel caso del Canada, la privatizzazione. Ma come si fa a privatizzare un ente inefficiente? Ristrutturando è vero ma come? Si commissiona ad una società di consulenza esterna, generalmente una multinazionale, un rapporto sulle potenzialità competitive dell’ente e sulle modalità per risanarlo. In effetti tutte le attività dell’ente in questione vengono esaminate da consulenti il cui unico obiettivo è la valutazione finanziaria. Questa è una fase molto importante e delicata della privatizzazione perchè crea un’osmosi tra le società di consulenza e la dirigenza manageriale dell’ente. Invariabilmente il rapporto finale raccomanderà schemi di pensionamento anticipato per alcuni dirigenti, i quali spesso e volentieri passano subito a lavorare presso le suddette società di consulenza, la messa in esubero di un certo numero di dipendenti normali, con la liquidazione soggetta a contrattazione. Infine si propone lo scorporo tra attività tecniche ed attività di coordinamento, subappaltando le prime. Si ottiene così l’esternalizzazione dei costi dei servizi effettivi e l’ente appare ormai come la finanziaria delle imprese di subappalto. Infatti compiuta questa operazione lo Stato continuerà ed erogare i soldi all’ente, ormai libero del suo apparato tecnico, magari anche con la creazione di un lauto fondo di garanzia. Ecco dunque che l’ente diventa molto appetibile ad eventuali società private. Ciò che la prestigiosa SNCF si apprestava a fare l’anno scorso varando il piano clientela e scorporando la componente viaggiatori dalla componente tecnica, locomotori,ecc, era già stato visto, vissuto e sofferto in Australia ed in Gran Bretagna.

Prima di passare all’analisi dei mercati interni voluti da Blair dobbiamo inoltrarci un attimo nell’azienda quando è già passata ai privati. Abbiamo visto che tutta la procedura di privatizzazione si fonda su criteri finanziari. La produzione dei servizi diventa secondaria ed è percepita come fonte sicura di rendite. Ma queste però possono risultare insufficienti rispetto ad altre possibilità che si presentano sui mercati finanziari interni od esteri. Se è così, come è già successo in Nuova Zelanda e nello stato del Vittoria in Australia nel campo delle centrali elettriche, le società private - specificatamente al Vittoria si trattava di società americane - vendono e se ne vanno. Per assicurare l’erogazione dell’elettricità lo Stato deve riacquistarle. Tuttavia mentre ha privatizzato svuotando, è vero, l’ente del suo contenuto tecnico ma rimpolpandolo di denaro liquido, in genere ricompra delle società sotto-capitalizzate. Cosa questa che è in procinto di accadere in Gran Bretagna nelle ferrovie. Il meccanismo di privatizzazione spesso e volentieri induce alla sotto-capitalizzazione dell’azienda. La società acquirente è attirata prevalentemente dal lucro sepculativo, dall’esistenza del fondo di garanzia grazie allo Stato e dalla promessa da parte dello Stato di sostenere per un certo periodo i valori azionari della neoprivatizzata. Notiamo subito che tutto ciò impone allo Stato due funzioni. Da un lato esso è garante, attraverso l’austerità del bilancio pubblico globale, delle aspettative di lucro dei mercati finanziari. Dall’altro lato lo Stato deve accumulare soldi pubblici per sostenere direttamente i valori azionari, almeno in una fase iniziale, proprio per evitare il pericolo che le società acquirenti escano repentinamente. In Gran Bretagna il sostegno del valore azionario delle ferrovie privatizzate è ormai permanente. La spesa pubblica britannica confluisce verso le ferrovie non per ragioni di investimento tecnico e strutturale, che sono invece in drammatico declino, ma per sostenere il valore delle azioni! Nella privatizzazione finanziaria lo Stato assume una doppia funzione parassitaria, ottiene dal pubblico un introito netto una parte del quale va a sostenere la componente finanziaria di operazioni fallimentari private.

Quando l’acquirente privato entra in possesso di un’azienda di pubblica utilità trova già predisposta la struttura organizzativa che permetterà di concentrarsi sulle rendite. L’esternalizzazione delle operazioni tecniche pone l’acquirente in condizioni di sprmere ulteriormente le società subappaltrici a scapito della funzionalità tecnica del servizio. La proponsione ad investire ed a modernizzare è bassa mentre quella ad usare i fondi di garanzia per motivi speculativi è alta. La sottocapitalizzazione è insita nelle procedure stesse di privatizzazione. Se poi ci si trova di fronte a servzi le cui unità tecniche sono indivisibili, come nel campo delle centrali elettriche, allora diventa inutile andare per il sottile: si accumulano soldi e non si fanno investimenti finchè il sistema non regge più. A quel punto si vende al vecchio venditore che, essendo lo Stato su cui incombe il dovere di garantire i servizi essenziali, deve assolutamente comprare.

Nel caso dei mercati interni voluti da Blair cambia la forma ma non la sostanza. Vi sono vari modi per concepire un mercato interno. Tutti però si basano su una contabilità fittizia in cui vengono inventati dei parametri per far emergere degli squilibri di bilancio interni su cui poi agire in base a ristrutturazioni, chiusure e contratti di lavoro flessibili. Si prenda ad esempio l’istruzione universitaria. Basta introdurre una componente privata, permettere cioè l’esistenza di una fascia di studenti paganti per stabilire delle medie cui l’istituzione dovrebbe tendere nel rapporto studenti paganti/insegnanti. Ovviamente non tutte le facoltà si troveranno su questa media. Quelle inferiori alla media sono dichiarate in deficit ed in attivo quelle situate ad un livello superiore. Èinoltre sufficiente stabilire il principio dell’autonomia manageriale di ciascuna facoltà affinchè il surplus fittizio non sia trasferibile. Come nel caso dei paesi colpiti dalle misure di aggiustamento strutturale del Fondo monetario, le facoltà deficitarie dovranno effettuare l’aggiustamento con drastici tagli interni e con la ricerca di nuovi prodotti, corsi paganti, masters serali corsi per corrispondenza elettronica e via di seguito. L’innovazione dei prodotti non comporta in genere alcuna nuova assunzione, se non precaria e part-time, con il conseguente aumento dello stress lavorativo. Un fattore di ulteriore aumento dell’intensità del lavoro è dato dalla ipertecnologizzazione di tali istituzioni, almeno nel mondo anglosassone. Questo permette la moltiplicazione dei moduli concernenti garanzie di qualità, come un prodotto, che richiedono molto tempo per essere istruiti. Inoltre la ricerca del mercato, cioè degli studenti, in maniera competitiva impone la formulazione di criteri contrattuali precisi, specificazione dettagliata degli obiettivi dei corsi, specificazione dello sbocco conoscitivo finale ecc, al fine di evitare vertenze legali con la clientela pagante. Ciò richiede un elaborato lavoro elettronico, corso per corso assieme alla messa in rete delle bibliografie, appunti per le lezioni, note varie. La managerializzazione verso l’alto ed il cumulo di attività didattiche ed amminstrative attraverso la tecnologizzazione programmata dai manager, dequalifica il corpo docente in quanto, assieme alla affannosa ricerca dei mercati, viene ridotto il tempo disponibile per il proprio sviluppo professionale ed intellettuale. Inoltre il cumulo, grazie ai computer, di mansioni amministrative e didattiche dà lo spunto alla direzione manageriale di trattare le funzioni del personale amministrativo come ridondanti. Il tornaconto capitalstico sta nella subordinazione totale dell’istruzione superiore alle più immediate esigenze del mercato, nonchè nel fatto che - entrando negli schemi di finanziamento una molteplicità di elementi - si crea un alto flusso di denaro che, in base ad una contabilità fondata sul throughput permette l’espansione degli strati manageriali7.

La privatizzazione dei servizi della sanità invece alimenta direttamente l’ammontare accaparrato dai fondi privati aiutati dallo Stato con una legislazione diretta a spostare la popolazione dal servizio pubblico all’assistenza sanitaria privata. Ciò vene attuato con una soprattassa sulla salute per chi rimane con il servizio pubblico e con politiche di sgravi fiscali e polizze speciali da sottoscrivere non oltre una certa data per stimolare l’abbandono del settore pubblico. La privatizzazione tipo Australia laburista-Blair dei servizi sanitari, ha una doppia valenza speculativa e destrutturante. La stimolazione dell’emigrazione della popolazione verso società di assicurazione private aumenta il capitale speculativo di queste a scapito del’investimento. Negli ultimi anni sia negli USA che in Australia l’instabilità finanziaria ha colpito parecchie società asscuratrici lasciando scoperte decine di migliaia di persone. Inoltre, nella misura in cui l’emigrazione verso il privato ha successo e le famiglie aprono polizze concernenti l’assistenza sanitaria, il governo centrale riduce l’erogazione di fondi al settore pubblico aumentando il rigore di bilancio ed il surplus e con esso le difficoltà degli ospedali.

4. Privatizzazioni e Banca Mondiale

Rispetto ai paesi summenzionati le privatizzazioni nei paesi sottosviluppati differiscono in intensità e per la connessione che viene stabilita tra le politiche economiche della Banca Mondiale del Fondo monetario e gli interessi delle grandi multinazionali. Spesso nei paesi del terzo mondo vengano realizzate delle privatizzazioni che prefigurano le condizioni del nostro prossimo futuro specialmente per ciò che concerne elementi vitali come l’acqua.. Uno di questi casi proviene dalla Bolivia ove dal 1999 al 2000 si sviluppò una forte battaglia a causa della privatizzazione dell’acqua nella città di Cochabamba, la terza nel paese per numero di abitanti. È un caso molto importante perchè la storia degli eventi che hanno portato nel 2000 ad una vera e propria rivolta obbligando la società dell’acqua ad un completo dietro front nella politca tariffaria, costituiscono di per sè una elucidazione delle dinamiche in atto.

Nel 1998 la Banca mondiale rifiutò di firmare una garanzia su un prestito di 25 milioni di dollari per il risanamento della rete idrica e de servizi dell’acqua nella città a meno che il Governo non fosse disposto a prendere immediate misure di privatizzazione completa dell’azienda municipale. Solo un’offerta venne presa in considerazione proveniente da una sussidiaria dalla multinazionale USA Bechtel. Appena installatasi a Cochabamba la Bechtel annunciò il raddoppio delle tariffe. Inoltre la Banca mondiale aveva ottenuto che ai concessionari privati venissero conferiti poteri di monopolio in nome del prezzo a costo pieno dell’acqua. L’organismo di Washington fece agganciare le tariffe dell’acqua al dollaro e proibì che i suoi prestiti al governo boliviano venissero utilizzati per sovvenzionare il consumo d’acqua dei più poveri. La politica della tariffa a costo pieno della Banca mondiale altro non è che il sostegno ai saggi di profitto desiderati dalla società multinazionale. Tale margine era del 16 per cento annuo garantito dal Governo in rapporto all’ammontare dell’investimento. E chiaro che un tale margine di profitto non è diretto alla investimento reale bensì all’accumulazione di una rendita da monopolio da indirizzare poi verso le piazze finanziarie speculative. La Banca mondiale era riuscita ad imporre le sue scelte sulla Bolivia minacciando di intervenire presso il Fondo monetario ed altre fonti di credito per interrompere ogni prestito.

Nel giro di poche settimane gli utenti si videro aumentare le tariffe dal 100 al 200% portando il costo mensile dell’acqua ad oltre il 20% del bilancio di una famiglia con 100 dollari al mese. Nel giro di un anno una rivolta popolare obbligò il Governo boliviano ad espellere la Bechtel, ad abolire le esorbitanti tariffe ed a rimunicipalizzare l’acqua. Vi sono stati episodi ben più gravi con saggi di profitto che raggingevano anche il 700% il che vuol dire che di investimento non c’era proprio niente. In queste situazioni la politica monetaria e fiscale deve assorbire gli alti tassi di profitto e proteggerli con le politiche di aggiustamento strutturale. In Bolivia il quadro analitico non è poi tanto diverso da quanto è successo ai primi di quest’anno in Francia allorchè il governo Jospin privatizzò senza nessun dibattito pubblico all’Assemblea Nazionale la società delle Autostrade del sud per accelerare l’avvicinamento al tanto agognato defiit zero, come in Argentina.

Conclusioni

La carellata sul tema delle privatizzazioni permette di svolgere tanto considerazioni economiche quanto osservazioni puramente politiche.

Nel mondo economicamente avanzato le privatizzazioni si effettuano nei settori strategici come nella telefonia e sempre di più nei settori dei servizi terziari. Nel primo caso l’obiettivo è esplicito ed è collegato alla formazione di oligopoli dominanti in settori a rendite assicurate. Nei servizi terziari di natura storicamente pubblica la privatizzazione, cambiando le condizioni contrattuali e normative introduce precarizzazione, diversificazione nelle funzioni sociali e anche dequalificazione per l’uso vieppiù capitalistico della tecnologia. Considerando che nei paesi avanzati la crescita occupazionale nell’ultimo ventennio è stata più forte nei settori aventi una ruolo di servizio pubblico, i processi in atto proletarizzano e precarizzano la gran massa delle persone ivi impiegate. Senza la presenza, ancora debole, di organizzazioni sindacali o comunque solidaristiche in questi settori, che non potranno mai più venir ricompattati in un quadro di stabilità corporativa, si delinea la possibilità che i servizi, compresi quelli dell’istruzione superiore, generino nel futuro massicce ondate di precariato e di disoccupazione [6].

La privatizzazione finanziara porta i paesi sviluppati ed i paesi poveri ad avere la stessa politica in materia di finanza pubblica, il che dal punto di vista oggettivo dei rispettivi problemi è un’evidente irrazionalità del mondo reale. In ambo i casi il ruolo della finanza pubblica è unicamente deflazionistico in quanto lo Stato si deve trasformare in garante della stabilità del valore monetario della ricchezza nonchè deve agire come protettore degli interessi finanziari nei confronti del rischio, spesso reso più acuto dalle politiche di trozzinaggio praticate dalle società privatizzate (in Bolivia ed in California-Texas ad esempio). La nuova concezione della finanza pubblica in funzione delle privatizzazioni comporta pertanto la trasformazione dello Stato in un accumulatore netto di attività. Questo elemento acuisce la crisi dell’accumulazione reale perchè uno Stato che tende verso attività nette si fa pagare piuttosto che creare domanda.

Oltre che a detrarre della domanda effettiva, lo Stato, attraverso le privatizzazioni, genera instabilità finanziaria. Infatti quando un’impresa privata - non privatizzata - vende delle azioni al pubblico ottiene del denaro che, in linea di pricncipio, potrebbe utilizzare per migliorare la capacità produttiva, i prodotti ecc aumentando quindi per il futuro le probabilità di un flusso di reddito da impresa sostenuto. In tal caso le azioni in mano al pubblico hanno un riscontro nella capitalizzaione dell’impresa che le ha emesse. Invece nel caso delle privatizzazioni, i soldi raccolti con la vendita delle azioni delle società in via di privatizzazione non vanno a queste società bensì allo Stato che li usa per finanziare la spesa pubblica ed eventuali fondi di garanzia. In altri termini le imprese non ricevono i denari raccolti dopo la prima emissione azionaria. Esse partano sottocapitalizzate. É per questo che i prezzi di vendita della azioni sono al momento di partenza assai bassi relativamente agli sviluppi successivi. Un’impresa sottocapitalizzata non può effettuare investimenti significativi quindi non contribuisce in modo sostanziale alla creazione della domanda In mancanza di basi solide per l’investimento le neoprivatizzate dipendono dalle aspettative speculative che provengono dai mercati finanziari. Qualora queste si sgonfiassero, o qualora problemi tecnici le indebolissero (gli incidenti delle società ferroviare in Gran Bretagna sono dovuti alla mancanza di investimenti) lo Stato è costretto ad intervenire sul mercato azionario per garantire un minimo di stabilità.

Le privatizzazioni di oggi non sono il prodotto di un processo razionale in base al quale viene valutato il pro ed il contro riguardo questa o quella fabbrica di mattoni, di acciao in quanto fabbriche di quei prodotti. Oggi la privatizzazione viene fatta in funzione di aspettative speculative sul piano azionario ed in funzaione dell’austerità salariale che, in ultima analisi, travolge lo stesso ruolo della finanza pubblica. Tale scenario non si presta ad un recupero keynesiano. Esattamente come non è possibile recuperare Maastricht o l’‘Europa’ all’interno di un quadro keynesiano, come molto erroneamente credono Valentino Parlato e Lucio Magri. La trasformazione finanziaria ha generato cambiamenti sia nella scala degli interessi economici sia nel personale funzionariale civile. Ormai nei maggiori paesi capitalistici la tendenza è verso la somparsa del civil servant (funzionario pubblico) e la sua sostituzione con individui perfettamente omogenei al sistema del capitale finanziario attuale.


[1] Eric Helleiner. States and the Reemergence of Global Finance: from Bretton Woods to the 1990s / Ithaca, NY: Cornell University Press, 1994.

[2] Si vedano gli articoli apparsi sui numeri della serie ’Monnaie et Production’ diretta da Alain Parguez (1984-1996) della rivista Économies et Sociétés.

[3] Nella seconda metà degli anni ‘90 due grosse manovre di restrizioni aggiuntive al bilancio vennero effettuate sia in Francia che in Italia per salvare due importantissimi istituti di credito.

[4] Questo l’ho appreso in un seminario sul tema effettuato all’Université Pierre Mndès france di Grenoble.

[5] Boris Frankel, “Beyond Labourism and Socialism: How the Australian Labor Party developed the Model of ‘New Labour’”, New Left Review, n. 221, January-February 1997.

[6] David Noble, Digital Diploma Mills: The Automation fo Higher Education, New Yorrk: Monthly Review Press, 2002.