Perché la guerra fa male ai lavoratori (II)

Vladimiro Giacché

“E’ un momento fortunato per la difesa. Qui si fa più politica estera che alla Farnesina. Inoltre, le Forze Armate vivono la fase di grazia dei vari interventi NATO...
L’obiettivo che continuo a giudicare indispensabile per l’Italia sta nell’elevare la spesa per la funzione Difesa all’1,5% del PIL in un arco ragionevole di tempo”
(Antonio Martino, Ministro della Difesa: intervista al Giornale e dichiarazione al convegno AIAD, 8 luglio 2002)

Noi siamo eroi e mercanti in un’unica ditta
(K. Kraus, Gli ultimi giorni dell’umanità, 1922; tr. it. Milano, Adelphi, 1980, p. 189)

La disfatta la paga il proletario,
la vittoria la paga il proletario

(B. Brecht, Canzone contro la guerra, in Poesie di Svendborg, tr. it. di F. Fortini, Torino, Einaudi, 1976, p. 43)

 

Dopo la “globalizzazione”, la guerra [1]

L’attuale fase delle relazioni internazionali può facilmente essere connotata come regressiva. E’ in regressione, ossia in recessione, innanzitutto l’economia dei principali paesi capitalistici, a cominciare da quella statunitense. Sono in regressione i commerci internazionali: nel 2001 gli scambi sono scesi del 2%, per la prima volta dopo anni di crescita ininterrotta. Che “la Belle Epoque della globalizzazione” sia finita non lo dicono più soltanto studiosi di sinistra, ma è cosa che si può leggere - testualmente - sull’ultimo numero della rivista dell’Aspen Institute. [2] E’ stato scardinato il sistema del diritto internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale: la guerra come modo di risoluzione delle controversie internazionali non è più “ripudiata”, neppure dai Paesi che - come il nostro - questo impegno l’hanno scritto sulla loro Costituzione. E recentemente - nel disinteresse pressoché generale - si è addirittura tornati a parlare, da parte della potenza imperialistica egemone, di “attacchi nucleari preventivi”.

In compenso, aumenta l’instabilità. Nel report di uno dei centri di previsioni strategiche che forniscono le loro analisi a pagamento alle grandi imprese, pubblicato il 21 febbraio scorso e intitolato appunto “L’intensificazione dell’instabilità a livello mondiale”, si poteva leggere che è in atto “una drammatica crescita dell’instabilità”, tanto più grave in quanto “le aree instabili appaiono avere soltanto nessi estremamente tenui tra di loro”. Per esemplificare, il rapporto faceva riferimento ai più recenti focolai di instabilità emersi: Colombia (guerra civile), Venezuela (instabilità politica), Afghanistan (rischio di caos), Medio Oriente (scenari di guerra tra Israeliani e Palestinesi), Iran (scontro tra moderati e fondamentalisti), Giappone (incapacità di gestire la crisi economica). E poi confronto India-Pakistan, minacce di guerra all’Irak, instabilità dei Balcani, default dell’Argentina... [3]

La situazione è fuori controllo. Per questo la guerra torna di moda. Perché - è inutile nasconderselo - quelli che spirano sul pianeta, agli albori del XXI secolo, sono proprio venti di guerra. Intendiamoci: ormai è facile, per chiunque osservi retrospettivamente gli anni Novanta, l’età del liberismo trionfante e dispiegato, constatare che essi non hanno portato con sé la “fine della storia”, come pretendevano alcuni apologeti, ma, al contrario, l’aumento e l’intensificazione dei conflitti (Iraq, Bosnia, Kosovo...). Però è difficile sottrarsi all’impressione che oggi si sia di fronte ad un drammatico salto di qualità.

La data che viene sempre citata, a questo proposito, è l’11 settembre. E in effetti è innegabile che dopo quella data lo scenario delle relazioni internazionali abbia subito un brusco e violento peggioramento. L’11 settembre, però, non è la causa profonda di tutto questo. Quel peggioramento è invece il precipitato di processi di più lunga portata. E riguardo ai quali ci sono date più significative che possono essere citate: lo scoppio della bolla speculativa della “new economy”, nel marzo 2000, o l’elezione-frode di Bush Jr. come Presidente degli USA, alla fine dello stesso anno. Vediamo perché.

Con la crisi della borsa, ed in particolare dei titoli tecnologici (l’indice Nasdaq era a 5.000 punti nel marzo 2000, oggi [luglio 2002] è a 1.350 punti...), si è rotto il giocattolo dell’economia americana: il mercato hi-tech è investito da una forte crisi da sovrapproduzione, la bolla speculativa scoppia ed il mercato borsistico non riesce più ad attrarre i capitali necessari a controbilanciare l’enorme deficit della bilancia commerciale USA; i tentativi della Fed di arginare la crisi ed il crollo delle borse, abbassando (11 volte!) i tassi di interesse, riesce sì a tenere provvisoriamente alte le quotazioni del dollaro, ma a spese della competitività del settore manifatturiero USA, nel quale infatti cominciano a verificarsi fallimenti a catena (ben prima di Enron, si pensi a Polaroid, Bethlehem Steel...). Nel marzo 2001 l’America è tecnicamente in recessione.

Nel frattempo è “sceso in campo” il rampollo della dinastia Bush. Il quale, sin dai primi mesi della sua presidenza, lancia al mondo tre messaggi tanto brutali quanto coerenti: insofferenza e rifiuto nei confronti di ogni vincolo internazionale (a cominciare da quelli rappresentati da trattati multilaterali quali il protocollo di Kyoto, gli accordi sul controllo delle armi chimiche e batteriologiche, quelli contro i paradisi fiscali ed il riciclaggio di capitali, il trattato ABM con Mosca); rilancio in grande stile del protezionismo, con forti dazi sull’import di acciaio (decisi di fatto già nel giugno 2001) e generosissime sovvenzioni agli agricoltori (decise nell’estate 2001); rilancio delle spese militari (a partire dal progetto di difesa missilistica, ripreso sin dai primi mesi del 2001).

Cosa comporta tutto questo? Comporta, con tutta probabilità, la fine di una fase di liberalizzazione degli scambi mondiali, e l’inizio di una fase protezionistica. Ma significa anche che gli USA intendono mettere sul piatto la loro incontrastata supremazia militare al fine di conservare un’egemonia che sentono in pericolo.

In questo contesto, l’opzione della guerra diviene sempre più “naturale”. Con l’11 settembre, poi, gli USA hanno di nuovo un “nemico” e possono mettere da parte ogni remora all’esercizio sul campo della loro potenza militare.

Insomma: il “post-Guerra Fredda” sembra entrato in una fase convulsiva che presenta inquietanti tratti di somiglianza con la situazione pre-1914.

E’ essenziale che i lavoratori abbiano chiari i pericoli di questa nuova fase, ed in particolare il fatto che la guerra e le sue logiche costituiscono immediatamente un attacco anche a loro: alle loro rivendicazioni, alle loro lotte, ai loro diritti. In questo senso, la guerra non è solo a Kabul o a Bagdad: la guerra è già tra noi. Con le sue scelte di campo manichee (“chi non è con noi è contro di noi”, si è affrettato a dire Bush jr. nel settembre scorso), con l’uso politico della paura, con la sua logica repressiva e con la messa in opera di strumenti che vanno dalle leggi liberticide alla più totale manipolazione dell’opinione pubblica.

Vediamo di cosa si tratta, prendendo in esame tanto il “fronte esterno” quanto quello “interno”.

 

A. Il fronte esterno

1. Lo “stato di eccezione” comealterazione delle relazioni internazionali

“Ponendo la minaccia proveniente da Al-Qaeda e dai suoi sostenitori al di sopra di tutto, gli Stati Uniti hanno tentato di sospendere il normale funzionamento del sistema internazionale”. [4]

Sono parole tratte da un rapporto dello stesso istituto che abbiamo citato sopra. In altre parole: la “scusa bin Laden” è servita agli USA proprio per tentare di riprendere il controllo della situazione internazionale.

Si può insomma affermare che la grande invenzione della “guerra infinita” contro il terrorismo consista in un duplice tentativo: da un lato, quello di dare allo sforzo bellico - che non può avere l’estensione nello spazio caratteristica di una guerra mondiale - l’estensione nel tempo che consentirebbe di continuare ad alimentare il modello di sviluppo americano; [5] dall’altro, quello di mantenere sospeso a tempo indeterminato il normale funzionamento delle relazioni internazionali, prolungando indefinitamente lo “stato di eccezione”.

E’ più che probabile (oltreché auspicabile) che questo tentativo sia votato alla sconfitta: anche perché la solidarietà cieca che ha accompagnato le prime mosse degli USA dopo l’11 settembre è un fenomeno non ripetibile.

Però attenzione: sul fronte delle relazioni internazionali qualcosa di molto grave è già successo.

 

2. La “guerra contro il terrore” e lo scardinamento del diritto internazionale

L’intervento in Afghanistan degli USA e dei suoi alleati ha determinato un colpo durissimo a ciò che restava del diritto internazionale costruito dopo il 1945.

E’ stata infatti condotta una guerra senza dichiarazione di guerra. Una guerra illegale, che violava la Carta ONU. Su questo punto la propaganda di guerra è stata particolarmente virulenta, ed è riuscita nell’intento di occultare la realtà delle cose. Varrà quindi la pena di ricostruire con qualche dettaglio quanto è accaduto.

I passi utilizzati dagli USA per scatenare la guerra in Afghanistan, in violazione della Carta dell’ONU, sono stati i seguenti:

a) in primo luogo, si è considerato l’attacco terroristico dell’11 settembre come “un atto di guerra”, che però è tale - se le parole hanno un senso - solo ove vi sia aggressione di uno stato contro un altro stato;

b) in secondo luogo si è esteso indebitamente il “diritto all’autodifesa”, che la Carta dell’ONU contempla solo come diritto temporaneo a respingere un attacco “fintanto che il Consiglio di Sicurezza non abbia attuato le misure necessarie per il mantenimento della pace della sicurezza internazionale” (art. 51); infatti solo il Consiglio può intraprendere “con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace ela sicurezza internazionale” (art. 42);

c) in terzo luogo si è mosso guerra non ad uno stato “aggressore”, ma ad uno stato che aveva ‘dato ospitalità’ ai presunti terroristi;

d) in quarto luogo è stato mosso un attacco non “proporzionato” all’offesa subita;

e) in quinto luogo, la guerra è stata iniziata senza aver di fatto nemmeno esperito le alternative (in effetti gli USA hanno rifiutato il negoziato con i Talebani). [6]

E’ importante sottolineare che queste violazioni sono avvenute con la complicità del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che:

a) con la risoluzione 1368 del 12 settembre 2001 ha dichiarato gli attacchi terroristici dell’11 settembre “una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”, accettando così di fatto l’equiparazione tra atto terroristico e atto di guerra; [7]

b) ha sostenuto che “il diritto alla legittima difesa individuale o collettiva” era “in conformità con la Carta” (senza alcun cenno alle fondamentali limitazioni di cui sopra), e dunque offerto agli USA un pseudo-fondamento giuridico per la loro guerra; questo in aperta violazione dell’art. 42 della Carta, citato più sopra. [8]

Va notato che, sugli altri tre punti menzionati più sopra, neppure l’obbediente Consiglio di Sicurezza è stato in grado di trovare una foglia di fico adeguata a coprire l’illegalità dell’intervento americano in Afghanistan. Resta il fatto che il Consiglio di Sicurezza ha definitivamente abdicato al suo ruolo. Non può quindi stupire che il ruolo dell’ONU, in tutta questa vicenda, sia stato assolutamente ridicolizzato dagli USA, che sono giunti a bombardare le agenzie delle Nazioni Unite.

3. La guerra e il diritto (unilaterale) all’impunità

Il bombardamento di una sede ONU è un crimine. Come lo sono i bombardamenti su civili: e secondo stime attendibili i civili morti sotto le bombe americane in Afghanistan sarebbero tra i 4.000 e i 7.000.

La spiegazione per un numero così elevato di vittime civili, secondo Marc Herold, autore di una meticolosa ricerca sull’argomento, è una sola: “la volontà degli strateghi militari statunitensi di lanciare missili e sganciare bombe su aree densamente popolate dell’Afghanistan”. [9]

Cosa si cela dietro questa scelta? Anche in questo caso, è possibile una sola risposta: la volontà di terrorizzare la popolazione. Ossia, se le parole hanno un senso, di effettuare bombardamenti terroristici. L’ultimo di essi è avvenuto nel mese di giugno, durante un matrimonio.

Ai bombardamenti vanno aggiunti svariati massacri. A cominciare dal massacro di prigionieri a Mazar-i-Sharif, guidato dagli USA, che ha fatto parlare di “pulizia etnica in stile afgano”; [10] a questo proposito vale la pena di ricordare che, contro il parere dell’ONU e della Croce Rossa, gli Stati Uniti e l’Inghilterra si sono opposti anche soltanto ad un’inchiesta sui fatti accaduti. Analoghe carneficine sono avvenute in molte altre località.

Quanto sopra ha indotto l’alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, Mary Robinson, a criticare con insolita ruvidezza gli USA per la loro gestione dell’intervento in Afghanistan. Dopo aver definito “irragionevolmente alto” il numero delle vittime civili, la Robinson ha aggiunto: “non posso accettare che vengano inflitti contro villaggi abitati i cosiddetti danni collaterali e che nessuno si preoccupi neanche di chiedere il nome o il numero dei morti. Sono molto preoccupata per questo modo di intervenire”. [11]

E’ una preoccupazione motivata: in realtà, prima in Afghanistan, poi a Guantanamo, sono state violate diverse convenzioni internazionali, a cominciare da quella di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra. A questo proposito, con particolare riferimento a Guantanamo, l’ex presidente del tribunale penale internazionale Antonio Cassese ha parlato senza mezzi termini di “disprezzo del diritto internazionale”. [12]

Disprezzo che si è da ultimo concretizzato nel rifiuto statunitense di aderire al Tribunale Penale Internazionale, per l’ovvio motivo che esso potrebbe perfino permettersi - pensate un po’ - di giudicare anche crimini americani. Nel 1998 gli Stati Uniti (con altri 6 paesi) avevano rifiutato di apporre la loro firma al trattato che istituiva questo tribunale. Alla fine del mandato, Clinton aveva infine aderito. Ma Bush ha ritirato [!] la firma dal trattato. Non solo: di recente ha ottenuto che i soldati americani in servizio sotto la bandiera delle Nazioni Unite godano - a differenza dei loro colleghi dei Paesi che hanno aderito al trattato - di un anno di immunità davanti al Tribunale Penale Internazionale. Un anno di impunità unilaterale per i padroni del mondo (e per gli altri Stati, tra cui Israele, che non hanno aderito al tribunale). E trascorso questo anno? Si avrà “una nuova discussione”, hanno detto i giornali. [13] In verità il testo approvato dall’ossequiente Consiglio di Sicurezza dell’ONU dice una cosa diversa: che sarà possibile “rinnovare la richiesta” di esenzione “alle stesse condizioni ogni 1 luglio per un ulteriore periodo di 12 mesi, per tante volte quanto necessario”. [14]

Insomma: la legge è uguale per tutti; ma per qualcuno è più uguale che per gli altri...

4. L’equiparazione tra movimenti di liberazione e terroristi

Se dalla parte degli USA abbiamo l’impunità più sfacciata, chiunque invece si opponga all’imperialismo americano ed ai suoi alleati di tutto il mondo, è marchiato con il marchio d’infamia di “terrorista”, con tutte le conseguenze del caso. Da questo punto di vista la portata della “Santa Alleanza contro il terrorismo”, in termini di lotta contro i movimenti di liberazione nei Paesi del Terzo Mondo, è stata assolutamente dirompente. Nella lista delle organizzazioni terroristiche, recepita anche dall’Unione Europea, sono in tal modo finiti i curdi del PKK, le FARC colombiane, nonché alcune importanti organizzazioni della sinistra palestinese (prima fra tutte il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina) ed altri movimenti di liberazione. Tutti questi movimenti sono stati messi nello stesso calderone di Al Qaeda.

Le conseguenze di questa equiparazione sono molto gravi. In tal modo, infatti, non soltanto si colpiscono questi movimenti in se stessi, ma si cerca di dare un serio colpo alla creazione di legami internazionalistici e solidarietà reciproca tra il movimento dei lavoratori in Europa (e negli USA) e quei movimenti. Si potrebbe obiettare che incontri a livello internazionale come quello del Forum Sociale di Porto Alegre dimostrano che invece l’internazionalismo è sempre vivo. In verità, proprio il Forum di Porto Alegre rappresenta una delle migliori conferme di quanto andiamo affermando: infatti in esso si è scelto di escludere organizzazioni come le FARC colombiane e Stati come Cuba, allegando - rispettivamente - il fatto di fare uso della lotta armata e la “mancanza di democrazia”. Ora, l’attuale presidente della Colombia, Uribe, è un fascista che da sempre appoggia le squadre della morte dell’AUC (senza che per questo i Paesi occidentali ritirino le loro rappresentanze diplomatiche). Quanto a Cuba, basterà dire che l’ex presidente degli USA, Jimmy Carter, ha recentemente dato prova di maggior apertura nei confronti del regime di Fidel Castro di quanta ne abbiano manifestato gli organizzatori di Porto Alegre.

L’episodio citato dimostra che il timore di essere assimilati ad “organizzazioni terroristiche” o a loro “fiancheggiatori” ha già rappresentato, per buona parte delle organizzazioni di sinistra, un efficace deterrente nei confronti dello svilupparsi di un confronto con alcune componenti importanti dei movimenti di liberazione dell’America Latina. Anche in questo caso, l’imperialismo ha segnato un punto - e un punto importante - a proprio favore.

5. La “guerra al terrorismo”: legittimazione e normalità della guerra

Come abbiamo visto, dopo l’11 settembre e la guerra in Afghanistan, la forza - ossia la guerra - viene posta esplicitamente come supremo principio regolatore dei rapporti tra gli Stati. [15] Tutto questo avviene in un contesto dominato dall’”unilateralismo” americano, che mentre rivendica l’impunità per i propri crimini chiede agli Stati alleati di collaborare fattivamente a schiacciare tanto gli Stati quanto i movimenti di liberazione che ostacolano i suoi interessi.

La “guerra contro il terrore”, insomma, viene adoperata dagli USA come una cambiale in bianco, da far valere di volta in volta contro il nemico di turno.

Un esempio? L’uso che si è inteso fare dell’art. 5 del trattato istitutivo della NATO. Come è noto, la NATO, sùbito dopo l’11 settembre, è stata chiamata (per la prima volta nella sua storia) a dichiarare guerra - ad un nemico ancora senza volto - per solidarietà con gli USA “attaccati”, a norma dell’art. 5 del Trattato istitutivo dell’Alleanza. Ma già l’8 dicembre il suo zelante segretario generale, l’inglese Robertson, in un’intervista a die Welt, diceva che l’art. 5 avrebbe potuto essere utilizzato anche contro l’Irak: “se ci dovessero essere delle prove sul coinvolgimento dell’Irak negli attentati contro gli Stati Uniti, allora l’articolo 5 potrebbe ancora valere”. Due giorni prima, questa volta in un’intervista rilasciata al giornale arabo Al Hayat, Robertson aveva fatto un’affermazione ancora più sorprendente: “la coalizione internazionale non ha mai detto che la lotta al terrorismo è limitata a Osama Bin Laden e alla sua organizzazione al Qaeda o al regime afgano dei Talebani. Il principale obiettivo continuerà a essere sconfiggere il terrorismo, e nel momento in cui vi saranno informazioni di covi di terroristi, questi luoghi saranno bombardati”.

La guerra diventa così un evento normale, equiparabile ad un’operazione di polizia. Con la “guerra al terrorismo”, insomma, il governo americano è riuscito a far passare l’idea della normalità della guerra. E’ quanto notava recentemente, con malcelato stupore, lo stesso periodico economico Fortune: “la cosa surreale è che, almeno per ora, a Washington si parla di sferrare un attacco a Saddam nello stesso modo in cui discuterebbe, poniamo, di votare una legge sulla scuola”. [16]

Ma il punto è proprio questo: ciò che ieri avremmo definito “surreale”, oggi non lo è più. E con questa operazione si colgono numerosi obbiettivi sul piano interno. A cominciare dalla conquista del consenso.

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B. Il fronte interno

1. La guerra come strumento di consenso politico

Come è noto, sin dai tempi della sua a dir poco tormentata elezione, Bush jr. godeva di un basso indice di popolarità presso la popolazione del suo Paese. In particolare, un sondaggio effettuato dall’istituto Gallup e dalla CNN dal 7 al 10 settembre 2001 faceva registrare il punto più basso della popolarità del presidente dall’inizio dell’anno: soltanto il 51% degli intervistati, infatti, approvava la sua politica. [17] Quanto poi all’opposizione politico-parlamentare, le cose non andavano meglio. I Democratici, infatti, non solo sembravano essersi ripresi psicologicamente dallo schiaffone della perdita della Presidenza, ma avevano anche guadagnato la maggioranza del Senato, con il risultato di poter mettere almeno in parte un freno alle iniziative presidenziali. Il migliore esempio riguarda proprio lo scudo stellare. Il 10 di settembre le agenzie battevano una notizia dal titolo ben poco rassicurante per Bush ed il fido Rumsfeld: “Scudo: offensiva democratica contro piano di Bush”. Eccone il testo completo: “La maggioranza democratica del Senato americano e’ pronta a lanciare un’offensiva contro la politica estera dell’amministrazione Bush, ed in particolare contro il suo piano di difesa anti-missilistica. Un progetto considerato dai senatori democratici un enorme spreco di denaro, destinato a a rendere, nei prossimi 15 anni, il mondo un posto piu’ pericoloso dove vivere. E, forti della maggioranza che permette loro di stabilire l’agenda di lavoro, i democratici avvieranno una serie di audizioni di Commissione Esteri del Senato - dove Joseph Biden ha preso il posto di presidente lasciato dall’ultraconservatore Jesse Helms - riguardo ai pericoli piu’ imminenti per la sicurezza nazionale che vengono ignorati da George Bush, che vede la politica estera solo ‘’attraverso il prisma’’ dello Scudo”. [18]

L’ultima affermazione è stata più che confermata dagli eventi del giorno successivo. Però, proprio in seguito ad essi ed alla guerra in Afghanistan, i Democratici hanno poi votato in massa a favore dello scudo di “difesa” missilistica. Mentre la popolarità di Bush saliva vertiginosamente, sino a superare la stessa popolarità di Franklin Delano Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale.

2. La guerra come “distrazione” e intrattenimento

Già Gramsci notava come a volte le guerre si fanno per disinnescare conflitti di classe interni. Il meccanismo è piuttosto semplice: nella lotta contro il Nemico esterno le “forze della Nazione si devono unire”, devono “mettere da parte le loro divisioni”. Sul proscenio viene il conflitto con il Nemico, gli altri problemi possono venire provvisoriamente accantonati. Anzi, rappresenta un “rischio per la Patria” anche solo rammentarne l’esistenza. Nella società dell’informazione, questo meccanismo tradizionale viene riproposto, ma con un’importante variante: grazie al bombardamento dei media, le informazioni che non hanno (apparentemente) a che fare con la “guerra al Nemico”, vengono semplicemente eliminate, non “passano”, non raggiungono l’opinione pubblica. La popolazione viene distratta da tutto ciò che non siano gli eventi bellici in corso e dai loro risultati (ovviamente a loro volta opportunamente “filtrati” e raccontati nell’ottica della propaganda di guerra). Di più: per quanto assurdo ciò possa sembrare, la guerra stessa diventa “intrattenimento”, e la sua rappresentazione obbedisce all’imperativo categorico dell’industria culturale: quello di “di-vertire”, ossia di “distrarre”.

Nel caso della guerra in Afghanistan questo schema è stato applicato in maniera esemplare. Con i risultati sottolineati il 16 gennaio scorso da un’editorialista de la Stampa: “Anziché affrontare i problemi, l’Occidente si è invece fatto assorbire dall’euforia insensata per una nuova vittoria. Quella contro i taleban. Un’euforia che sembra alimentata apposta per far dimenticare i reali problemi del mondo. Una specie di cortina fumogena inventata per distrarre l’attenzione del grande pubblico”. Per la cronaca, l’editorialista in questione porta il nome di Michail Gorbaciov.

3. “Chi protesta è un terrorista”: la guerra come arma contro i nemici interni

Ma il Nemico esterno è utile non soltanto per evitare guerre interne, ma anche per consentire alle classi dominanti di combatterle meglio.

L’esempio più chiaro di questo uso della guerra ce lo offre la parabola del cosiddetto movimento “no-global”. All’inizio del settembre 2001 questo movimento, con tutti i suoi limiti e tutta la contradditorietà delle sue parole d’ordine (e anzi probabilmente anche per questo), era ormai un fenomeno di massa ed in crescita. Le stesse tragiche giornate di Genova avevano contribuito a questa crescita del movimento, rendendolo visibile a larghi strati dell’opinione pubblica occidentale, e suscitando un forte dibattito sui temi che sollevava (oltreché sulla violenza di cui i poteri costituiti sono capaci, anche nella “libera” Europa...).

Anche i governi, sia pure per mero calcolo elettorale (ma già questo è significativo!), sul finire del mese di agosto e i primi giorni di settembre manifestavano qualche cauta apertura rispetto alle istanze del movimento. Si prenda ad esempio un tema-simbolo quale la proposta di tassazione dei movimenti di capitale a breve termine chiamata “Tobin Tax”. Il governo francese, con in prima linea il premier Jospin, sembrava appoggiare l’introduzione di questa tassa. Il cancelliere tedesco Schroeder, più cauto, dichiarava comunque di voler “reagire a questi flussi finanziari speculativi relativamente autonomi”. [19]

Il crescendo di articoli dedicati dai più compassati giornali economici ai “no-global” era così impressionante da far dire al le Monde del 28 agosto: “non c’è un solo giornale economico e finanziario, non una sola pagina salmone, da Londra a Washington e da Parigi a Francoforte, che non prenda sul serio le critiche della mondializzazione”. [20] Dal canto suo, l’Economist dell’8 settembre dedicava nientemeno che l’articolo di copertina ad una “confutazione” del libro di Naomi Klein No Logo, il testo-simbolo del movimento “no-global”.  [21]

Il giorno stesso dell’attentato alle torri gemelle, il movimento anti-global riceveva l’attenzione di due tra i più prestigiosi quotidiani internazionali: ancora le Monde, che dedicava le prime sette pagine del suo inserto di economia ad articoli sull’argomento. E il Financial Times, che proprio quel giorno iniziava una serie di articoli dal titolo generale assai eloquente: “Inchiesta: il capitalismo sotto assedio”. Il primo pezzo, a firma di J. Harding, era intitolato “I figli della globalizzazione colpiscono ancora” e sosteneva quanto segue: l’attuale sviluppo capitalistico viene posto in discussione, e - ciò che è peggio - chi tenta di metterlo in discussione non sono gli indios del Chiapas, e neppure gli operai licenziati di qualche fabbrica “delocalizzata”, ma i giovani cresciuti nel bel mezzo degli anni ruggenti del liberismo dispiegato.

Con l’attentato lo scenario cambia radicalmente. La criminalizzazione delle voci critiche della “globalizzazione liberista” guidata dal capitalismo americano inizia subito. L’esercizio preferito di innumerevoli editorialisti ed uomini politici di tutto il mondo consiste nell’accostare senza troppi complimenti movimento no-global e fondamentalisti islamici. Le Figaro Economie del 13 settembre, ad esempio, non ha dubbi: “scegliendo di attaccare un simbolo come il World Trade Center i terroristi si associano al discorso degli anti-global, i cui slogan sono ormai onnipresenti”. Forza Italia, dal canto suo, si conferma avanguardia del peggio: sul suo sito internet, il 17 settembre, è possibile leggere che “le stragi dell’11 settembre sono il risultato del sinistrismo imposto all’Occidente”. Alla raffinatezza dell’analisi tiene dietro una proposta di pari levatura: “oltre agli Stati canaglia ci sono i partiti canaglia. Puniamo anche loro cominciando qui in Italia”. [22]

Il Corriere della Sera del 26 settembre ospitava un editoriale di Angelo Panebianco (un vero autore cult della propaganda di guerra, assieme all’inarrivabile Oriana Fallaci) in cui venivano tranquillamente messi sullo stesso piano bin Laden e i manifestanti di Genova: “nei giorni di Genova, teppisti a parte, tante brave e miti persone erano là riunite a manifestare contro il G8 parlando di quella riunione di capi di governo di alcuni dei Paesi più liberi e più civili del mondo, più o meno negli stessi termini in cui ne parla Bin Laden”. Il motivo di questa “convergenza”? Il “relativismo culturale” ed l’”amnesia culturale” di cui chi non difende in tutto e per tutto l’Occidente darebbe prova.

Secondo questa singolare interpretazione, sarebbe insomma lo stesso esercizio del dubbio circa la superiorità della “civiltà occidentale” a spianare la strada ai terroristi. Opinione pienamente condivisa dal Presidente del Senato Marcello Pera, che sul Foglio sostiene che “se metti sullo stesso piano le civiltà, o addirittura [!] ti interroghi sulla bontà della nostra, non sei più equipaggiato per difenderti”. Verrebbe da chiedersi come sia possibile conciliare queste affermazioni con l’esaltazione di Popper che il medesimo Pera (nelle vesti di professore e sedicente “filosofo” lliberale) infliggeva ai suoi (pochi) studenti di Pisa. Ma come? Non era stato proprio il vecchio Popper [23] ad insegnare la forza liberale del dubbio contro il totalitarismo connaturato alle certezze storicistiche hegeliane e marxiste? Si tratta, ovviamente, di domande fuori luogo: la propaganda di guerra, infatti, non ricava la sua efficacia né dalla coerenza né dalla forza del ragionamento. Semmai dal volume della voce.

Quando si alza troppo la voce, però, è facile stonare. Si pensi alle famigerate dichiarazioni berlusconiane di Berlino sulla “superiorità dell’Occidente”. L’episodio è noto. Meno noto è il fatto che quelle dichiarazioni contenevano un esplicito riferimento anche al movimento “no-global”: “c’è una singolare coincidenza di questa azione [l’attacco terroristico dell’11 settembre] con il movimento antiglobalizzazione che si è manifestato da circa un anno a questa parte. Proprio dall’interno dell’Occidente si sono mosse critiche al modo di vivere e di pensare dello stesso Occidente. Si è cercato e si cerca in qualche modo di colpevolizzare l’Occidente. Come se fosse colpa dello stesso Occidente, della sua economia e del suo modo di essere sui mercati [?], la povertà di cui soffre ancora tanta parte del mondo”.  [24]

4. Guerra e sospensione dei diritti democratici

La guerra da sempre comporta un attacco ai diritti democratici. Il nostro caso non fa eccezione.

Prendiamo il diritto a manifestare. A questo proposito vale la pena di ricordare un episodio emblematico. Il 10 ottobre 2001 le agenzie battono una notizia: il vertice FAO torna a Roma. Si tratta di una notizia inattesa, perché da mesi il governo sta facendo un vergognoso tira e molla sull’argomento, inventandosi improbabili sedi alternative, pur di evitare manifestazioni a Roma. Ma ora, di punto in bianco, Berlusconi fa dietrofront: la conferenza si terrà a Roma. Il titolo dell’agenzia ANSA che comunica questa notizia è fantascientifico: “Vertice FAO: Berlusconi, cadute preoccupazioni sicurezza”. Il testo, però, non è da meno; vi si può leggere, infatti, che “Silvio Berlusconi ha confermato che il vertice Fao di novembre si terrà a Roma”, così motivando la decisione: “Crediamo che le preoccupazioni di sicurezza che avevamo prima dell’11 settembre ora non ci siano piu’”.

In pratica, il Presidente del Consiglio sostiene che dopo gli attentati USA (e a guerra appena iniziata) sono cadute le preoccupazioni per la sicurezza! Qualunque persona di buon senso penserebbe il contrario... [25] L’assurdità, però, è solo apparente. Infatti il presupposto implicito della frase di Berlusconi era questo: ‘non abbiamo più motivo di spostare da Roma ad un’altra città il vertice in quanto potremo tranquillamente vietare le manifestazioni, o confidare nel fatto che nessuno oserà manifestare’. E infatti, poche ore dopo, l’ultima parte del ragionamento è stata proposta esplicitamente dal post(?)-fascista Storace: “a me pare evidente che tra i motivi che hanno determinato la decisione del ritorno a Roma della conferenza della FAO, ci sia l’assoluta certezza [!] che non ci sarà qualche ‘bello-spirito’ [!!] che si rimette a fare manifestazioni in questa congiuntura”. [26]

Questo episodio la dice lunga sulla prontezza con cui i nostri governanti sono disposti a far uso in funzione antidemocratica delle “emergenze”. In fondo, lo stesso tentativo è stato recentemente messo in opera a proposito dell’omicidio Biagi. E le stesse, incredibili, accuse a Cofferati di essere oggettivamente colluso con il terrorismo per il solo fatto di aver criticato le proposte del governo, si inscrivono nello stesso clima. Ieri, criticare la “globalizzazione liberistica” significava dare una sponda al terrorismo islamico. Oggi, opporsi all’abolizione dell’art. 18 significa armare la mano dei terroristi. In entrambi i casi il conflitto sociale, ma già la stessa critica sociale, sono considerati come di per sé dannosi, e tali da minare la coesione sociale necessaria per combattere il “Nemico”.

In verità, il principale nemico che si intende colpire sono proprio loro: il conflitto e la critica della società. Del resto, le stesse proposte di normativa europea contro il terrorismo, che definiscono come “atto terroristico” anche la semplice “occupazione di edifici pubblici”, rendono chiaro come il bersaglio che si intende colpire siano proprio le opposizioni sociali. E va notato che questo e altri provvedimenti, quali la riforma dei Servizi segreti (che adesso hanno anche formalmente “licenza di reato”, con la sola esclusione dell’omicidio), sono stati proposti ed approvati nel solco delle leggi liberticide varate negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ed in particolare del famigerato “Patriot Act”, che di fatto sospende gran parte dei diritti individuali garantiti dalla Costituzione americana. [27]

5. Negazione della rappresentanza e violazioni costituzionali

Con la guerra subisce una forte accelerazione il processo, già in corso da anni, di progressivo svuotamento della democrazia e della rappresentanza parlamentare (leggi elettorali “semplificatrici”, forzata riduzione delle alternative con l’esclusione di fatto delle forze “antagonistiche” [non diremo rivoluzionarie], assottigliamento delle differenze programmatiche tra gli schieramenti elettorali, mediatizzazione della politica, ecc.). In concreto: la Francia è andata alla guerra di Afghanistan senza un voto parlamentare. [28] In Italia, invece, si è votato: a favore della guerra, e con una percentuale di favorevoli superiore al 90%, a dispetto del fatto che la maggioranza dell’opinione pubblica fosse contraria alla guerra. Ma, soprattutto, lo si è fatto violando 3 articoli della Costituzione italiana: l’art. 11, che ammette la guerra solo come strumento di difesa; l’art. 78, che prevede che per la guerra debba esservi una formale delibera dello stato di guerra da parte delle camere; l’art. 87, che prevede la dichiarazione dello stato di guerra da parte del Presidente della Repubblica.

Perchè è successo anche questo: la guerra all’Afghanistan non è mai stata dichiarata. Tant’è vero che quando il Parlamento ha (scandalosamente) votato il ripristino del codice penale militare in tempo di guerra, per la prima volta dal 1945, ha dovuto modificare in senso peggiorativo l’art. 165, che prevedeva appunto che il codice entrasse in vigore solo a seguito della dichiarazione di guerra. [29]

6. Guerra e militarizzazione della società

L’approvazione del codice penale militare di guerra rende visibile un altro processo, parallelo alla “normalizzazione” della guerra: la militarizzazione della società, attraverso la reintroduzione nel corpus normativo di leggi militariste e fasciste.

Nel caso in questione, vale la pena di notare che la maggior parte degli articoli dell’originario codice penale di guerra del 1941 sono rimasti al loro posto e sono stati semplicemente resuscitati. Così, ci imbattiamo in pene draconiane (in base all’art. 124, a determinate condizioni l’abbandono del posto di guardia comporta l’ergastolo...) e in reati di cui ignoravamo anche solo l’esistenza (come il reato di “codardia”, punibile con 10 anni di reclusione: art. 110). Il 31 gennaio 2002, quando il Parlamento, con voto “bipartisan”, [30] ha approvato la legge che riportava in vigore il codice di guerra, il sen. Brutti (DS) ha manifestato la sua soddisfazione per il voto, insistendo sul successo conseguito dall’opposizione nel far eliminare i “reati di opinione” dal codice. Purtroppo, però, non è vero neanche questo: infatti, se è stato soppresso l’art. 87 (Denigrazione della guerra), lo stesso non vale per l’art. 86 (Fatti diretti a indurre alla sospensione o alla cessazione delle ostilità), il cui contenuto è così vago da poter essere adoperato per perseguire reati di opinione.

E’ da notare, infine, che la validità del codice non è limitata al personale militare in servizio sul luogo delle operazioni, ma “si applica anche al personale di comando e controllo e di supporto del corpo di spedizione che resta nel territorio nazionale” (nuovo art. 9). Questo è molto pericoloso, in quanto rende possibile un’interpretazione estensiva dei soggetti a i quali il codice può applicarsi.

7. Dal Welfare al Warfare: le risorse dirottate

Sinora abbiamo visto i pericolosi effetti che il ritorno della guerra (anche se adesso pudicamente si chiama “operazione multinazionale all’estero”) ha portato con sé riguardo all’esercizio dei diritti civili e politici, e quindi alla difesa degli interessi di classe dei lavoratori.

La guerra però colpisce gli interessi dei lavoratori anche direttamente. Come? Nel modo più ovvio: dirottando ingenti risorse pubbliche (ossia pagate con le tasse dei lavoratori) dai settori del “Welfare” (sanità, scuola, assistenza, pensioni, ecc.) a quello degli armamenti, del “Warfare”. Questo è precisamente quanto avvenuto nei mesi scorsi negli Stati Uniti, ove l’enorme crescita delle spese militari è stata pagata con la riduzione dell’assistenza, dell’istruzione pubblica e dei servizi sociali, ed addirittura con il congelamento temporaneo dei fondi pensione degli impiegati pubblici; il tutto, mentre le imprese e i ceti più abbienti beneficiavano di generosi sconti fiscali.

In tal senso, la decisione italiana (6 giugno) di entrare nel progetto per la costruzione del nuovo aereo da guerra americano “Joint Strike Fighter” è una pessima notizia per i lavoratori. Perché i 100 aerei da guerra che si è deciso di acquistare, del valore di 1 miliardo di dollari, saranno pagati con le loro tasse, e prenderanno il posto di servizi sociali di importo equivalente.

Per questo, si resta sconcertati nel leggere le dichiarazioni rilasciate subito dopo il voto parlamentare dal segretario nazionale della UILM, Giovanni Contento. Il quale, dopo aver definito “positiva” la decisione, ha proseguito: ‘’riteniamo che l’esecutivo debba firmare al più presto l’intesa bilaterale con il Governo Usa”. E, siccome l’appetito vien mangiando, ha aggiunto che “occorre anche sostenere il finanziamento del programma Efa dell’aereo europeo e la partecipazione all’aggiornamento tecnologico della difesa integrata europea, definito Etap”. E qui il nostro rischia proprio di essere, come si dice, “cornuto e contento”. Per più di un motivo. In primo luogo, l’accordo con gli USA è alternativo ad accordi europei, ed anzi ha proprio l’obiettivo di impedire lo sviluppo di un autonomo polo aerospaziale europeo. Anzi, l’adesione dell’Italia al progetto JSF è stata preparata proprio dall’affossamento del progetto dell’Airbus militare di fabbricazione europea. [31] In secondo luogo, le “ricadute sullo sviluppo tecnologico e sulla compensazione di attività industriale per le aziende italiane” derivanti dalla partecipazione al programma americano sarebbero comunque molto inferiori per valore alla spesa sostenuta dallo Stato italiano: sinora si è parlato di 650-700 milioni di dollari. Non occorre essere dei geni della matematica per capire che spendere 1 miliardo di dollari per farne incassare a Finmeccanica o a Fiat Avio meno di 700 non è un’operazione particolarmente avveduta... In terzo luogo, come abbiamo già rilevato, quello che viene speso per la difesa è sottratto ad altri settori. Per questo è preoccupante che il ministro Martino dichiari che le spese militari sostenute dall’Italia dovranno crescere gradualmente dall’attuale 1,06% del PIL all’1,5% nel 2006, e ancora più grave che aggiunga che “questo obiettivo è stato esplicitamente accolto dal DPEF”. [32] Tanto più quando si parla di privatizzare scuola, sanità, pensioni e di svendere il patrimonio pubblico per fare cassa.

Ma non si tratta di incoerenza. Si tratta di una scelta ben precisa. Alla quale il movimento dei lavoratori deve opporsi con la massima decisione.


[1] Questo articolo è il secondo di una serie di due articoli. Il primo, dal titolo “Perché la guerra fa bene all’economia” (pubblicato su Proteo, n. 3/2001, pp. 111-118), è stato dedicato ad un’analisi dell’utilizzo della guerra e del “Warfare”, da parte degli USA, come strumento per rilanciare l’economia.

[2] S. Cingolani, “Le guerre di mercato”, Aspenia, n. 16, 2002, p. 70. “La ‘belle epoque’ è finita! Imperialismo ed economia di guerra” era il titolo di un Quaderno di Contropiano pubblicato nel novembre 2001 e dedicato alla guerra in Afghanistan.

[3] “The Intensification of Global Instability”, Stratfor.com, 21 febbraio 2002.

[4] “Second Quarter Forecast: Living in an Asymmetric World”, Stratfor.com, 9 aprile 2002.

[5] Se questo tentativo funzionasse, sarebbero almeno in parte superati i dubbi espressi da M. De Cecco nell’ottobre 2001: “Si può, e certamente sarà fatto, dar lavoro all’industria della difesa e spazio con grandi commesse statali, ma si tratta di un settore specializzato, che solo in parte coinvolge anche i produttori di beni civili, come le automobili. Se si trattasse di una grande mobilitazione bellica, tutti i settori industriali sarebbero coinvolti, e la General Motors produrrebbe navi, come ha fatto nella seconda guerra mondiale, o grandi missili, come durante la guerra fredda. Ma non stiamo parlando di questo tipo di mobilitazione, per fortuna dal punto di vista politico, ma sfortunatamente da quello economico” (“Quando l’angoscia governa l’economia”, la Repubblica, 5 ottobre 2001)

[6] Sull’argomento si veda M. Mandel, “All’Aja una farsa irrilevante”, il Manifesto, 17 marzo 2002.

[7] L’espressione “atto di guerra”, però, non viene usata: evidentemente era troppo anche per loro...

[8] E’ un pseudo-fondamento perché la Carta prevale comunque sulle risoluzioni del Consiglio: “nessuna interpretazione, per quanto autorevole, può modificare la Carta” (D. Gallo, “L’illegittima Difesa”, il Manifesto, 21 ottobre 2001). E quindi, a dispetto dell’on. Napolitano (vedi lettera a Repubblica del 14 ottobre), questa guerra è e resta illegale. In materia vedi anche M. Chemillier-Gendreau, “L’abdicazione del Consiglio di Sicurezza”, le Monde diplomatique, 6 novembre 2001, e l’appello firmato da 120 giuristi italiani “Il no del diritto” pubblicato sul Manifesto il 10 novembre 2001. Non si può quindi legittimamente affermare che “le due risoluzioni 1368 e 1373... conferiscono piena legittimità alle azioni per fronteggiare e sradicare la minaccia terroristica”, se - come sembra - queste frasi sono riferite alla guerra (lettera di Ciampi a Kofi Annan del 25 ottobre 2001).

[9] Vedi http://pubpages.unh.edu/ mwherold/ (vedi anche www.media-alliance.org). Una versione non definitiva della ricerca è stata parzialmente pubblicata dal Manifesto, il 23 dicembre 2001, con il titolo “Quando i morti non contano”.

[10] Vedi R. Caprile, “La repressione guidata dagli USA” e P. Garimberti, “Pulizia etnica in stile afgano”, entrambi su la Repubblica, 29 novembre .

[11] Intervista a Die Zeit, rilanciata dall’Adnkronos/DPA il 6 marzo.

[12] Articolo su la Repubblica del 24 gennaio con questo titolo.

[13] P. Veronese, “Un anno di impunità ai marines”, la Repubblica, 13 luglio 2002.

[14] Vedi il buon commento di D. Zolo, “Sopra tutto”, il Manifesto, 14 luglio 2002 (il quotidiano riporta anche il testo integrale del dispositivo del Consiglio di Sicurezza).

[15] Su questi temi vedi il saggio di S. Senese “Guerra e nuovo ordine mondiale”, in Questione Giustizia, n. 2/2002.

[16] B. Powell, “How a War With Iraq Will Change the World”, Fortune, 8 luglio 2002.

[17] Risultati analoghi davano quasi tutti i sondaggi condotti tra la fine di agosto e l’inizio di settembre. Un prospetto analitico completo si trova sul sito: http:// www.pollingreport.com/ BushJob.htm

[18] Agenzia Adnkronos.

[19] V. “Schröder calls for debate on capital flows” in Financial Times, 5 settembre.

Sulla posizione di Jospin vedi l’articolo del Financial Times del 30 agosto: “Jospin woos the anti-globalisation vote in France”. In questa sede non entro nel merito della “Tobin Tax”.

[20] “Mondialisation: le débat”, editoriale di le Monde, 28 agosto 2001.

[21] “ProLogo. Why brands are good for you”: the Economist, 8 settembre.

[22] Su quest’ultima proposta potremmo comunque essere d’accordo anche noi, ove con l’espressione di “partiti canaglia” si intendano “partiti formati da canaglie”...

[23] Per inciso, uno dei nani filosofici più ingiustamente esaltati del Novecento.

[24] Agenzia Adnkronos del 26 settembre. L’idea (originalissima) che se uno è povero è colpa sua costituisce un cardine del Berlusconi-pensiero, ed è stata riproposta anche al vertice sull’alimentazione della FAO del 13 giugno scorso: “non credo che la colpa dello scarso sviluppo dei Paesi poveri sia dei Paesi industrializzati; non si puo’ dire che la colpa sia loro se l’80 per cento della ricchezza del mondo sia nei Paesi occidentali e solo il 20 per cento nei Pvs. Credo che ciascun Paese deve cominciare ad aiutarsi da solo’’. No comment.

[25] E infatti la stessa FAO, dopo pochi giorni, avrebbe deciso di rinviare il vertice al giugno 2002.

[26] Ag. ANSA, 10 ottobre, 15:40.

[27] Si veda in proposito il discorso letto il 26 febbraio 2002 dal deputato democratico americano Dennis Kucinich (http://www.lewrockwell.com/orig2/ kucinich1.htm).

[28] Questa scelta di Jospin è stata lodata da Giuliano Amato in un’intervista a la Repubblica.

[29] Il nuovo art. 165 afferma invece che le disposizioni del codice penale di guerra “si applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra”. E’ un testo la cui pericolosità pratica è pari soltanto alla sua contraddittorietà logica.

[30] Hanno votato contro soltanto il PRC, il PdCI, i Verdi, e pochissimi parlamentari DS e della Margherita.

[31] Questo nesso era chiaro fin dal novembre scorso: ne abbiamo dato conto nell’articolo pubblicato sul numero 3/2001 di questa rivista (“Perché la guerra fa bene all’economia” : v. in particolare la n. 22).

[32] Cit. in”L’industria aerospaziale chiede 1,5 mld _ l’anno”, il Sole 24 Ore, 9 luglio 2002.