Le condizioni politiche per la cooperazione allo sviluppo dell’Unione Europea. Il caso Cuba

MCs. Eduardo Perera Gómez

1. Introduzione

La cooperazione allo sviluppo dell’Unione Europea (UE) non è stata capace di evitare la sopravvivenza, e in molti casi il proliferare, dei problemi che hanno dato origine alla cooperazione stessa: sottosviluppo, fame ed estrema povertà, solo per nominarne alcuni. La strategia della cooperazione della UE, basata sul condizionamento politico, non è stata neanche capace di modificare gli standard dei diritti umani e della democrazia a livello mondiale.

Le condizioni politiche per la cooperazione da parte della UE, hanno dimostrato di essere un mezzo incapace di raggiungere i propri obiettivi in politica estera, sempre che il rispetto dei diritti umani e la democrazia siano degli obiettivi. In questo articolo si spiega come l’inefficacia del condizionamento politico della UE sia causato più dalla propria inconsistenza e dalla mancanza di sostenibilità che dagli atteggiamenti dei paesi riceventi. Molto più frequentemente di quanto si creda, l’applicazione di una politica di condizionamento causa opposizione da parte dei riceventi. In questo senso, un ulteriore elemento, è dato dal fatto che le condizioni politiche poste dall’UE non sono focalizzate certo sulle cause del sottosviluppo.

L’articolo esamina, inoltre, quelli che, secondo me, sono alcuni degli elementi principali che determinano l’inefficacia del condizionamento politico della UE. Per sviluppare argomenti a favore di questa tesi esamino il caso di Cuba -che non è certo l’unico da potersi prendere in considerazione- in quanto potenziale ricevente della cooperazione UE.

Vorrei iniziare con alcune osservazioni.

La cooperazione della UE ha molti punti di contatto e caratteristiche comuni con la cooperazione internazionale, anche se ha alcuni tratti distintivi. Si può fare un esempio paragonando la UE con gli Stati Uniti
 altro importante donatore internazionale - e notando l’uso generale del condizionamento politico basato sui diritti umani, la democrazia e la buona gestione delle risorse (good governance), priorizzando sia l’uso di misure “positive” che “negative”. Al tempo stesso, l’interesse nazionale che determina, dal mio punto di vista, l’applicazione caso per caso della condizionalità (o condizionamenti), non è lo stesso se si considerano regioni o paesi particolari. Ciò che mi interessa sottolineare non è tanto una valutazione della cooperazione internazionale - che sarebbe tema di un altro lavoro- né fare un paragone tra l’applicazione del condizionamento politico da parte della UE e di altri donatori.

L’articolo ben evidenzia la cattiva gestione da parte dell’UE dei processi di condizionamento politico.

In secondo luogo, comunemente si accetta una distinzione tra le così dette condizionalità “positive” e quelle “negative”. [1]

Considerando che la maggior parte della cooperazione della UE si attua nel quadro di accordi bilaterali o multilaterali, propongo un’ulteriore distinzione tra le condizionalità incluse negli accordi di cooperazione secondo la formula delle “clausole democratiche”, che costituiscono il quadro generale per la sua applicazione “positiva” o “negativa”, e quelle che chiamo condizionalità preventive o a priori, che vengono imposte al ricevente prima della concretizzazione di un accordo e ne condizionano la negoziazione. Dal mio punto di vista, esiste una differenza fondamentale tra le condizionalità come parte di un accordo di cooperazione che sono, almeno teoricamente, negoziabili tra le parti e presuppongono un compromesso reciproco, e quelle che vengono imposte unilateralmente e al di fuori dell’ambito di contrattazione per il donatore o i donatori. Questo tipo di condizionalità preventive introduce un doppio livello che si aggiunge a quello già applicato con la messa in pratica delle condizionalità politiche della UE. E’ per questo che non sono d’accordo con gli autori che in queste vedono una forma di condizionalità positiva. [2] Il caso di Cuba ne è un chiaro esempio.

2. L’inefficacia delle condizionalità politiche della UE

Un esame generale della cooperazione allo sviluppo della Unione Europea mostra alcuni elementi interessanti.

In primo luogo, la cooperazione allo sviluppo non è una priorità della politica estera della UE. Nella pratica, è sempre stata subordinata agli sviluppi interni del processo di integrazione e alle priorità fissate dai più influenti tra gli Stati membri. Tutto ciò viene evidenziato dai significativi sbilanciamenti nella distribuzione regionale degli Aiuti Ufficiali allo Sviluppo della UE ed inoltre dal fatto che il Mercato Unico Europeo non ha mai preso in considerazione le possibili conseguenze esterne.

In secondo luogo, l’apporto della cooperazione internazionale allo sviluppo della UE non corrisponde al ruolo che le è stato assegnato dal Trattato dell’Unione Europea. Nonostante la vasta esperienza accumulata durante la sua esistenza nella integrazione di diverse sfere dell’attività economica dei suoi Stati membri, è stato necessario attendere circa 35 anni perché il diritto primario europeo includesse alcune formule minime riferite alla cooperazione allo sviluppo. Questo la dice lunga sul peso degli Stati nazionali in questo campo e sulle difficoltà che affronta la UE per affermare e proiettare una immagine coerente.

In terzo luogo, e nella stessa direzione sopra indicata, la cooperazione bilaterale - Stati membri della UE con Stati terzi - predomina su quella della Commissione Europea relativamente al volume di Aiuti Ufficiali allo Sviluppo, entro un quadro caratterizzato dalla mancanza di coordinamento tra i programmi nazionali e quelli comunitari. La conseguenza principale di questa situazione è l’incoerenza della cooperazione nel suo insieme, cosa che viene rafforzata dalla sua frequente subordinazione ad altre politiche come quella commerciale, agricola e della Politica Estera e di Sicurezza comune (PESC).

L’Articolo 130 (U) del Trattato di Maastricht ha introdotto un riferimento legale per le condizionalità politiche, stabilendo che “la politica della Comunità in questo campo contribuirà all’obiettivo generale di sviluppare e consolidare la democrazia e lo Stato di diritto oltre che all’obiettivo di rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. [3]

Dall’Articolo citato si possono trarre due conclusioni principali:

- Primo, la democrazia e i diritti umani sono posti al centro della politica di cooperazione, davanti a quelli che dovrebbero essere i suoi obiettivi principali: riduzione e eliminazione della povertà, sviluppo economico e sociale sostenibile e inserimento dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale. Da questo punto di vista, la cooperazione allo sviluppo della UE non è focalizzata sulle cause del sottosviluppo.

- Secondo, il punto di partenza di questa concezione è che la democrazia e i diritti umani sono una condizione indispensabile dello sviluppo economico. Questo punto di vista è centrale nella pratica internazionale della UE in questo campo, cosa che risulta significativa dal momento in cui “la realtà mostra che la relazione (tra democratizzazione e crescita economica) non può essere dimostrata (e che, di fatto) forme di governo di tutti i tipi possono coincidere con lo sviluppo economico”. [4] Altri autori si riferiscono all’incerto vincolo tra condizionalità politica e democratizzazione, chiedendosi se una promuove l’altra e come. [5] Questa relazione non è stata dimostrata neanche nel caso della buona gestione delle risorse, un cavallo di battaglia più recente della UE nelle sue relazioni con i Paesi del Terzo Mondo. Si possono trovare prove sia a favore che contro questa relazione, però “nel campo delle prove empiriche, negli ultimi anni si è affermato una “convinzione” che sostiene, ma non dimostra, questa relazione, (e) si è inserita in una proposta ideologica eccessivamente semplicista e quindi potenzialmente dannosa per i paesi in via di sviluppo.” [6]

Frequentemente i “diritti umani” vengono ridotti a “democrazia” che a sua volta viene ridotta a “elezioni pluripartitiche”. [7] In molti casi questo porta a un contesto formale in cui le condizioni sono soddisfatte semplicemente da segni esteriori. La situazione politica dei paesi dell’America Latina, per esempio, è molto diversa da caso a caso e in vari paesi si possono trovare numerose carenze per quanto concerne lo Stato di diritto, l’influenza dei militari sul potere civile, l’astensione elettorale, l’inadeguatezza dei sistemi legali e la mancanza di legittimità dei partiti politici e dei suoi capi, per non parlare di fenomeni molto più gravi come la tortura, le sparizioni e le esecuzioni extra giudiziali. Questo non è stato un ostacolo perché tutti i paesi latinoamericani, ad eccezione di Cuba, abbiano un accordo di cooperazione con la UE. Però al tempo stesso, nessuno potrebbe seriamente assicurare, ad esempio, che il passaggio dalle dittature alla democrazia in America Latina sia dovuto in alcun modo alle promesse di aiuti dell’UE o di altri donatori.

Qualcosa di simile si potrebbe dire per quanto riguarda i paesi ACP. Se l’Articolo 5 della vecchia Convenzione di Lomé o la clausola base dell’attuale Accordo di Cotonù fossero applicati strettamente, più della metà di questi paesi dovrebbero subire delle sanzioni o non potrebbero continuare ad essere Parti dell’associazione. Allo stesso tempo, i paesi ACP che hanno subito sanzioni non sono necessariamente quelli che hanno la situazione peggiore per quanto riguarda il comportamento nel campo dei diritti umani e/o della democrazia, né hanno risolto i propri problemi in questi campi grazie alle sanzioni.

Anche molti dei paesi dell’Europa dell’Est che probabilmente saranno accettati nel 2004 come Stati membri della UE, hanno difficoltà per quanto riguarda la democrazia e i diritti umani, come è stato riconosciuto dalla UE stessa, ma nonostante questo il processo dei negoziati non è stato interrotto. Le considerazioni politiche sono diventate sempre più evidenti in questo caso e si può supporre che peseranno sulla decisione finale per quanto riguarda l’adesione.

Il doppio livello nell’applicazione della condizionalità politica non risponde a differenze tra i riceventi, ma piuttosto a interessi diversi dei donatori. In questo senso, quando si tratta di imporre e applicare condizioni politiche, per la UE le considerazioni geopolitiche hanno molto più peso dei giudizi positivi sulla situazione politica dei paesi riceventi. Lo stesso si potrebbe dire per quanto riguarda gli interessi economici. E’ chiaro che la UE tratta i diversi partner in modo diverso, per motivi che non sempre hanno a che fare con i diritti umani e la democrazia; perciò, paesi che sono considerati importanti per scopi commerciali o politici generalmente non sono sottoposti, o lo sono meno, a misure restrittive. [8]

Di solito i paesi riceventi, per soddisfare le condizioni imposte, devono pagare un prezzo interno molto alto. Al tempo stesso, e per questa stessa ragione, il premio promesso non è sufficiente né come quantità né come qualità. Questo significa, per i riceventi, una cattiva relazione qualità/prezzo o costo/beneficio. Quindi, solo i governi con limitato accesso a fonti alternative di entrata sono inclini ad acconsentire alle condizioni (sempre che abbiano le risorse e la capacità di farlo) soprattutto se il loro mancato soddisfacimento causerà costi interni - politici o economici - danni e/o minaccia di deterioramento delle relazioni con altre fonti di entrata reali o possibili.

I paesi donatori cercano di far sì che l’intervento negli affari interni dei paesi sovrani diventi una condotta politica e sociale internazionalmente ammissibile. In pratica, tuttavia, questo non è un principio valido per tutti per quanto riguarda le relazioni internazionali. Per molti paesi, soprattutto nel Sud, la sovranità continua a essere totalmente ammissibile. Anche la Carta delle Nazioni Unite mantiene il riconoscimento del principio di uguaglianza sovrana. Detto questo, è totalmente ovvio che i paesi riceventi non possono vedere le condizionalità politiche se non come imposizioni. Questo aspetto è rafforzato dal fatto che le condizionalità sono “un’opzione di tutto o niente, generalmente meno credibile e più difficile da porre in pratica.”

Se un livello generalizzato di estrema povertà è considerato prova formale dell’esistenza di enormi masse di persone private dei propri diritti, tuttavia per la metà più povera dei paesi del mondo non c’è correlazione statistica tra democrazia e buona politica economica.

3. Il caso cubano

Le condizionalità politiche possono basarsi su considerazioni ideologiche. Questo è stato evidente nel caso di Cuba, non solo per l’evoluzione storica e politica del paese a partire dagli anni sessanta, ma anche per le forme in cui si è manifestato l’interesse della UE verso l’isola.

Cuba è stata un soggetto molto particolare nel sistema delle relazioni internazionali degli ultimi quaranta anni. Dal punto di vista geografico, storico e culturale è un paese latinoamericano e caribeño. Considerando il suo livello di sviluppo relativo, è un paese del Terzo Mondo, anche se si distacca a livello internazionale per i suoi indicatori sociali. E’ un paese socialista per quanto riguarda il suo sistema socio-economico e politico e per più di venti anni è stato associato ai paesi ad economia centralmente pianificata attraverso il vecchio CAME. Allo stesso tempo, è un paese occidentale per quanto riguarda le sue tradizioni culturali. Tutto ciò significa, quindi, che qualunque tentativo di classificare Cuba risulterebbe semplicistico.

In qualche modo, prima che si stabilissero relazioni formali tra Cuba e la UE nel settembre del 1988, l’Isola era considerata dalle cancellerie dell’Europa Occidentale come un paese dell’Est, piuttosto che come un paese latinoamericano. Dopo la caduta del muro di Berlino, percezioni diverse della transizione nell’Europa dell’Est hanno politicizzato notevolmente il contesto bilaterale e portato alla paradossale situazione che fa di Cuba, fino ad oggi, l’unico paese latinoamericano e uno dei pochi nel mondo che non ha un accordo di cooperazione con la UE.

Questo significa che le relazioni UE-Cuba sono sempre dipese da considerazioni ideologiche e politiche.

La UE ha creato “un caso speciale” a partire da Cuba. La forma specifica in cui la UE ha trattato il “caso cubano” è in stretta relazione con le trasformazioni dell’ordine mondiale alla fine degli anni ottanta e la sua successiva evoluzione, ed è diventata evidente nel contesto delle repentine trasformazioni avvenute in Europa in questo periodo, meno di un anno dopo lo stabilirsi di relazioni tra Cuba e la CEE. Mentre la CEE ha cambiato la sua politica verso l’Europa dell’Est come conseguenza della caduta del muro di Berlino, Cuba ha deciso di mantenere le sue conquiste socio-economiche fin dove i mutamenti dell’ordine mondiale lo hanno reso possibile.

Sebbene gli interessi di entrambi gli attori nelle relazioni bilaterali sembrano aver dominato a dispetto dei disaccordi di lunga data, i vincoli sono stati fragili, considerando la loro vulnerabilità, l’influenza della situazione politica e vari fattori esterni alla relazione stessa, in particolare la politica nord americana. Di fatto, la relazione tra UE e Cuba non può vedersi isolatamente, ma piuttosto come parte di un triangolo il cui terzo vertice è Washington. Il lato più corto di questo triangolo è quello che unisce la UE con gli USA, a causa di considerazioni strategiche derivate dall’alleanza atlantica.

Fondamentalmente, ciò che distingue il trattamento riservato a Cuba dalla UE, nell’ambito della sua politica di cooperazione allo sviluppo, è l’applicazione di un doppio livello nel senso di ciò che ho definito sopra come condizionalità a priori. Le condizioni imposte a Cuba dalla UE non fanno parte delle negoziazioni di un accordo particolare (clausola democratica), ma sono piuttosto un prerequisito alla negoziazione stessa.

Due esempi mostrano con chiarezza la particolare forma di condizionalità imposta a Cuba nel contesto delle sue relazioni di cooperazione con la UE.

Il primo si è manifestato quando le possibilità di negoziare un accordo di cooperazione economica e commerciale con la UE erano più vicine, a seguito di una proposta spagnola, durante la sua presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1995.

Tra giugno e dicembre di quell’anno il processo procedette piuttosto velocemente. In meno di sei mesi si passò dalla Comunicazione della Commissione sulle relazioni con Cuba all’approvazione della relazione della troika sulla sua visita di novembre a Cuba da parte del Consiglio Europeo di Madrid, che diede mandato alla Commissione di elaborare le direttive di negoziazione. Nel gennaio del 1996 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che, benché controversa, appoggiava l’apertura delle negoziazioni.

Un mese più tardi, il vicepresidente della Commissione Europea incaricato dell’America Latina, realizzò un’improvvisa visita a La Habana. Questa visita non aveva a che vedere con il carattere tecnico delle conversazioni esplorative che si stavano tenendo tra la UE e Cuba. Aveva l’obiettivo di arrivare ad alcuni impegni politici da parte cubana, in una fase precedente all’apertura delle negoziazioni formali (inoltre la proposta di indicazioni di negoziazione non era stata emessa dalla Commissione). Tuttavia, questo processo era stato presentato come non legato a precondizioni.

Il rifiuto delle condizioni da parte delle autorità cubane fu interpretato come mancanza di interesse all’accordo da parte di Cuba. Inoltre, l’Isola fu incolpata di aver impedito la continuazione del processo.

In realtà, l’interruzione del processo fu causata dalla sua ambiguità. La UE non offrì nessun argomento coerente per difendere il suo atteggiamento. Il comunicato ufficiale emesso dalla Commissione il 7 maggio 1996 segnala che “Continuando questi contatti e considerando le adeguate conseguenze delle controparti cubane, sembra che la Commissione non riuscirà a presentare al Consiglio dei Ministri, entro la data limite fissata dal Consiglio Europeo, il progetto di direttive di negoziazione per un accordo tra Unione Europea e Cuba.” [9]

In pratica, la decisione della Commissione Europea era basata sulla sua delusione per il ritmo e il conseguimento delle riforme economiche e politiche iniziate a Cuba nel 1993.

Un esempio più chiaro è quello della Posizione Comune su Cuba.

Nel contesto dei rapidi cambiamenti della politica spagnola nei confronti di Cuba, dopo il trionfo elettorale del Partido Popular nel 1996, la Spagna ha presentato al Consiglio dei Ministri della UE, un progetto di Posizione Comune su Cuba nell’ambito della Politica Estera e della Sicurezza Comune. Questo documento si basava su tre assi fondamentali: interruzione della cooperazione, chiusura di credito e dialogo con l’opposizione. C’erano significative coincidenze tra questo documento e “l’elenco di misure” presentato da Stuart Eisenstat, allora sotto segretario al Commercio degli USA, durante il suo viaggio europeo nel settembre del 1996.

Benché la versione finale adottata dal Consiglio differisse considerevolmente dall’originale spagnolo, per la prima volta stabilì in un documento scritto, basato sul consenso degli Stati membri della UE, una esplicita condizionalità a priori sullo sviluppo futuro della cooperazione bilaterale UE-Cuba, subordinandola a sostanziali cambiamenti politici ed economici.

Il Consiglio ha ratificato questa Posizione Comune, in accordo con il procedimento stabilito dal suo testo, per dieci semestri consecutivi.

4. Elementi per il dibattito

Il caso che si presenta in questo articolo è rilevante ai fini di dimostrare l’inefficacia delle condizioni politiche imposte dalla UE alla cooperazione.

La UE non è riuscita ad imporre a Cuba i suoi obiettivi di riforma. Inoltre, la sua capacità di influenzare lo scenario interno dell’Isola in termini comparativi si è ridotto. Come segnala Smith, la UE non può esercitare alcuna influenza se non ha legami con il paese in questione. [10] Fino ad ora, la UE ha perso terreno per quanto riguarda le sue possibilità di influenza su Cuba, a causa delle condizioni politiche che impone all’Isola. Non ha alcun accordo di cooperazione con Cuba, il che significa che non c’è nessuno strumento contrattuale che regoli le relazioni bilaterali a medio o lungo termine e che la cooperazione è basata soltanto su alcune azioni specifiche.

Altro valido esempio è il fatto che non c’è una rappresentanza della Commissione Europea nel paese. Questo limita la presenza politica della UE e può incidere sulla fluidità del dialogo politico - recentemente ristabilito- così come sull’inserimento di Cuba nelle nuove forme di gestione della cooperazione da parte della UE, in particolare il decentramento da Brussels alle rappresentanze della Commissione nei vari paesi. Questo processo deve riorientare la maggior parte della gestione degli aiuti, in modo che avvenga in situ, entro la fine del 2003. Il fatto che la Rappresentanza della Commissione Europea in Messico è quella che si occupa degli affari cubani, mantiene lontane dalla realtà locale e dallo spirito della riforma della Commissione le già scarse azioni di cooperazione della UE con Cuba. Nel frattempo, gli USA, nonostante l’assenza di relazioni bilaterali con Cuba, hanno una Sezione di Interesse a La Habana.

Evidentemente, Cuba non è una priorità per la UE. Almeno, la sua importanza, per la politica estera della UE, è molto relativa e, per tanto, insufficiente a porre in gioco la sua alleanza con gli USA. Questo è il caso della legge Helms-Burton, per nominare un esempio attuale. Se accettiamo che la cooperazione allo sviluppo tenda a essere molto più fortemente condizionata per i paesi terzi meno importanti e che la priorità sia data a considerazioni geopolitiche e ad interessi economici, diventa comprensibile come Cuba sia l’unico paese dell’America Latina senza un accordo di cooperazione con la UE. Inoltre, è l’unico ad essere oggetto di una Posizione Comune del Consiglio.

Dal 1988 si è sempre cercato di imporre condizioni a Cuba, prima della negoziazione formale di un accordo con la UE. Questo è un punto di frizione fondamentale tra le due parti se si considera che questa forma di applicazione delle condizionalità implica un trattamento differenziato, e quindi discriminatorio, con riferimento a paesi terzi.

Le autorità cubane non accettano condizioni imposte da potenze straniere, però la UE non ha mai saputo se sarebbero state d’accordo con una clausola democratica simile a quella inclusa negli accordi di cooperazione con l’America Latina. La ragione è che l’Isola non ha mai avuto la possibilità di sedere ad un tavolo di trattative come partner alla pari con la UE; questa stessa possibilità è stata legata al soddisfacimento di prerequisiti politici.

Inoltre, Cuba ha dimostrato che è capace di accettare le condizioni stabilite da una clausola democratica, quando queste hanno lo stesso peso per entrambe le parti. In realtà, quando Cuba ha presentato richiesta di adesione all’Accordo di Cotonù, lo ha accettato in tutte le sue parti, inclusa la clausola degli elementi essenziali e la clausola degli elementi fondamentali. Anche qui le precondizioni hanno portato all’interruzione del processo, determinando la reazione del ricevente. Nella politica della UE verso Cuba le considerazioni politiche e ideologiche hanno prevalso su quelle relative allo sviluppo, il che può portare a pensare in termini di scenari negativi: uno dei quali potrebbe essere che, se si arrivasse ad un accordo, anche se la UE sembra essere restia a imporre misure negative forti, [11] si può essere certi che sarebbe pronta a farlo rapidamente nel caso di Cuba.

L’incoerenza nell’applicazione delle condizionalità, da parte della UE, è facilmente percepibile da vari punti di vista. Prendiamo ad esempio il caso della Posizione Comune su Cuba, che si suppone giuridicamente vincolante per gli Stati membri. Questo strumento ha rafforzato il paradosso principale delle relazioni UE-Cuba: ciò che è buono/normale/accettabile per le relazioni Stato-Stato non lo è in questo caso. In termini pratici: esistono normali relazioni diplomatiche, commerciali e anche di cooperazione tra gli Stati membri e Cuba, mentre la stessa cosa non si può dire per la UE. E’ difficile trovare una risposta convincente alla domanda di come questo può accadere. Tuttavia, sono d’accordo nel vederci la via che usano gli Stati membri per evitare la responsabilità di ridurre o sospendere gli aiuti.  [12] E può anche darsi che questa sia una delle ragioni per cui nessuno crede più all’efficacia della Posizione Comune, che è mantenuta in vigore grazie a una certa inerziadeterminatadalla sua difesa da parte della Spagna del Partido Popular. La Posizione Comune è una trappola in cui è caduta la UE, divenendo ostaggio di una politica che non può modificare a causa di due o tre dei suoi Stati membri.

Tutto ciò rende evidente che gli interessi di Stati membri isolati, ma influenti, possono determinare, a volte, l’atteggiamento dell’Unione verso un terzo paese. Certamente, la Spagna è, nella UE, il paese più coinvolto nelle relazioni con l’America Latina e in particolare con Cuba. Nella misura in cui i suoi interessi in queste relazioni crescono o diminuiscono, a seconda di ragioni diverse, la direzione della UE ne sarà influenzata. Però, allo stesso tempo, essa può influenzare l’immagine dell’Unione. L’applicazione di una politica dei diritti umani, basata sugli interessi nazionali di alcuni dei quindici Stati membri riduce visibilmente la credibilità della UE.

Nessuno sosterrebbe seriamente che, paragonata a molti altri paesi del Terzo Mondo, Cuba non si impegni nel campo dei diritti umani. A proposito, questo è riconosciuto “nei corridoi” delle istituzioni della UE e delle cancellerie degli Stati membri. Quindi, non c’è giustificazione, alla luce della politica dei diritti umani della UE, all’applicazione in questo caso, o in qualsiasi altro, di un doppio livello basato su considerazioni politiche e/o ideologiche.

Non ci sono aiuti Nord-Sud senza condizioni. Anzi, si può dire che non ci sono aiuti senza condizioni nel mondo attuale. Quindi, la questione se gli aiuti siano o meno incondizionati è secondaria, se paragonata al come e su quali basi la condizionalità viene applicata, nella misura in cui determina le reazioni del ricevente - fondamentalmente quando questo si trova nella possibilità di scegliere - e la effettività della politica stessa.

In questo senso, vorrei riprendere la distinzione tra condizionalità “normale” e a priori. La prima, indipendentemente da quali possano essere le sue debolezze concettuali o etiche, è accettata legalmente e con mutuo accordo dalle due parti che negoziano, almeno teoricamente, come uguali. Questo tipo di condizionalità è una conseguenza dell’evoluzione delle relazioni internazionali a partire dalla fine degli anni ottanta e fa parte del comportamento dei donatori, siano essi paesi o organizzazioni internazionali. Sarebbe poco realistico, per quanto più giusto, pretendere la sua eliminazione dagli accordi di cooperazione Nord-Sud nella situazione mondiale odierna, anche come eccezione concessa ad un paese particolare. L’unico caso che si possa citare in questo campo è stato quello dell’accordo di cooperazione di terza generazione UE-Messico negli anni novanta, l’unico a non includere la clausola democratica. L’accordo attualmente vigente tra le parti contiene la suddetta clausola.

Il secondo tipo di condizionalità caratterizza il trattamento riservato a Cuba e ad alcuni altri paesi da parte della UE come un meccanismo di pressione extra-negoziato. E’ molto più unilaterale e ingerente della condizionalità contrattuale, e non necessariamente meno formale, a seconda degli interessi del donante e, cosa più importante, non è conseguente ad un accordo, ma viene imposta secondo la logica del “tutto o nulla”. Di fatto, è molto più condizionante e costituisce una formula discriminatoria. Alcuni specialisti obiettano a quanto segnalato partendo dall’esempio dei paesi dell’Europa dell’Est candidati all’adesione e ai così detti criteri di Copenhaghen, in realtà condizioni a priori o prerequisiti veramente intrusivi. In questo senso si potrebbe commentare parendo da due elementi: in primo luogo, si sta parlando qui della partecipazione ad una organizzazione transnazionale che ha le sue regole già stabilite, indipendentemente dagli adattamenti di cui siano stati oggetto. In secondo luogo, i candidati hanno accettato le condizioni, probabilmente perché lo stimolo del così detto “ritorno in Europa” e dell’appartenenza con diritto di voto e di parola ad un club che prende decisioni di risonanza mondiale, ha per loro sufficiente importanza. O, a volte, perché non possono fare diversamente.

Ultimo elemento, ma non ultimo per importanza, è che la stessa UE non sempre soddisfa le norme di comportamento che vuole imporre ai riceventi. Ciò è evidente paradossalmente in ambiti come la firma di convenzioni internazionali sui diritti umani. Un paragone tra Cuba, la UE e gli USA per quanto riguarda strumenti di questo tipo firmati nell’ambito della Organizzazione Internazionale del Lavoro (15), UNESCO (2), Croce Rossa Internazionale (7) e Nazioni Unite (30) mostra un chiaro predominio di Cuba.

A iniziare da questo, è la UE quella che stabilisce i parametri di ciò che deve essere ottenuto dai paesi riceventi, anche se “giudicare se un paese soddisfa i criteri è cosa assolutamente soggettiva. Quali sono i diritti umani e i principi democratici che devono essere considerati più importanti? ( ... ) Quale è il livello minimo di democraticità richiesto per soddisfare le condizioni stabilite? Quali diritti umani devono essere rispettati come priorità?” [13]

Le stesse istituzioni europee hanno riconosciuto che la UE manca di democrazia. In termini reali, la condizionalità permette semplicemente alla Comunità di obbligare i riceventi a soddisfare i propri desideri.  [14]


[1] Per condizionalità (o condizionamenti) positive si intendono quelle secondo le quali il donatore promette qualcosa in cambio del soddisfacimento di determinate condizioni da parte del ricevente. A sua volta, le condizionalità negative consistono nell’applicazione di mezzi punitivi (sospensione degli aiuti, ritiro della cooperazione e simili) come conseguenza del non rispetto da parte del ricevente delle condizioni a cui si era impegnato.

[2] Smith, Karen Elizabeth. The use of Political Conditionality in the EU’s Relations with Third Countries: How Effective? EUI Working Papers, 1997.

[3] Trattato della Unione Europea e Trattato Costitutivo delle Comunità Europee. Ed. Tecnos, Madrid, 1994, 3ª Ed.., p. 264

[4] Betz, Joachim. “Democrazia e sviluppo. La democratizzazione porta alla crescita economica?”. D+C, n. 4, Francoforte, luglio/agosto, 1995.

[5] Brown, Stephen. “Donors’Dilemmas in Democratization: Foreign Aid and Political Reform in Africa”. Dissertation Abstract.

[6] The Carnegie Endowment for International Peace. 2001. “Democratic Conditionality for Development Assistance?”. Roundtable on democracy promotion at the Carnegie Endowment. June 27.

[7] Smith: Op. Cit., p.8.

[8] Vedi Smith: Op. Cit.., pp. 27-36

[9] Europe Bulletin, Agence Europe, n. 6723, Brussels, Wednesday 8 May 1996, p. 8

[10] Smith: Op. Cit., p. 34

[11] Ibid., p. 31

[12] Ibid., p. 7

[13] Citato Ibid. , p. 8

[14] Finlay, Roisin: The Development of EU Humanitarian Aid Plocies Since the Maastricht Treaty”. Political and Economic Review. University of Limerick, 1999