PROPOSTA DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE - Istituzione del Reddito Sociale Minimo

Art. 1) Requisiti soggettivi di accesso

1. E’ prevista la corresponsione di un reddito sociale minimo in favore dei soggetti in possesso dei seguenti requisiti:

a) residenza nel nostro paese da almeno due anni;

b) iscrizione alle liste di collocamento da almeno un anno.

2. Il reddito sociale minimo verrà corrisposto dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, per il tramite degli Uffici Provinciali del Lavoro e della Massima Occupazione.

3. Presso il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale viene istituito l’Ufficio Centrale per il rilevamento dello stato di disoccupazione e per l’erogazione del reddito sociale minimo, con specifici compiti di coordinamento dell’attività degli Uffici Provinciali del Lavoro e della Massima Occupazione, come da regolamento ministeriale da adottarsi entro il termine di giorni novanta dall’approvazione della presente legge.

Art. 2) Entità del reddito sociale minimo

1. L’entità del reddito sociale minimo da corrispondere annualmente a ciascun soggetto in possesso dei requisiti di cui all’art. 1 è di dodici milioni di lire.

2. La somma indicata non è sottoposta ad alcuna forma di tassazione.

Art. 3) Calcolo ai fini pensionistici del reddito sociale minimo

1. Il periodo di fruizione del reddito sociale minimo va calcolato ai fini pensionistici, con i criteri e le modalità che saranno indicate nel Decreto legislativo che il Governo è delegato ad adottare nel termine di giorni novanta dall’approvazione della presente legge.

Art.4) Rivalutazione del reddito sociale minimo

1. L’importo sopra indicato va rivalutato annualmente sulla base degli indici I.S.T.A.T. del costo della vita.

Art.5) Riduzione del reddito sociale minimo

1. L’importo indicato all’art.2 sarà ridotto della metà per i soggetti che svolgono attività lavorative da cui si consegue un reddito inferiore all’ammontare del reddito sociale minimo.

Art.6) Sanzioni amministrative

1. E’ prevista per il datore di lavoro in caso di mancata attestazione della esistenza del rapporto di lavoro intercorrente con il soggetto che fruisce del reddito sociale minimo una sanzione amministrativa, da comminarsi a seguito del procedimento di cui agli articoli 14 e seguenti della legge 24 novembre 1981 n. 689, e pari all’ammontare delle somme che il soggetto avrebbe dovuto percepire quale corrispettivo del lavoro svolto, con riferimento ai minimi previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro della categoria.

Art.7) Decadenza

1. Si prevede in ogni caso la decadenza dal diritto di percepire il reddito sociale minimo nell’ipotesi in cui il lavoratore ottenga un lavoro a tempo pieno o nell’ipotesi in cui immotivatamente lo rifiuti.

Art. 8) Tariffe sociali nei servizi essenziali

1. Si prevede in favore dei soggetti titolari del diritto al reddito sociale minimo, anche nell’ipotesi di riduzione di cui 5, la gratuità dell’accesso ai trasporti urbani ed al servizio sanitario, nonché l’esclusione di ogni onere per l’iscrizione e la partecipazione a corsi ed esami di formazione professionale e di istruzione, anche di grado universitario.

2. E’ previsto altresì per gli stessi soggetti il dimezzamento dei costi delle utenze relative alle forniture di gas e acqua, e la determinazione di una tariffa sociale con riferimento al servizio di elettricità e di telefonia fissa attraverso il versamento delle relative quote ai soggetti erogatori del servizio, da determinarsi da parte dal Governo con decreto legislativo che sarà adottato nel termine di giorni novanta dall’approvazione della presente legge.

3. Per gli stessi soggetti è previsto un canone sociale per l’utilizzo degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, da prevedersi a mezzo di legge regionale.

4. Accedono ai benefici previsti dal presente articolo anche i soggetti titolari di pensioni sociali e minime nonché i componenti di nuclei familiari con reddito imponibile annuo non superiore a trentacinque milioni di lire.

Art. 9) Copertura finanziaria

1. Per la copertura finanziaria nel primo anno di applicazione della legge si prevede una imposta straordinaria, denominata labor tax, consistente in una addizionale una tantum del 2.5% sulla tassazione dei redditi di impresa.

2. Per la copertura in via definitiva degli oneri derivanti dall’erogazione del reddito sociale minimo si prevede:

a) l’incremento dell’aliquota di imposizione sugli interessi derivanti da titoli pubblici ed equiparati dal 12.5 al 30 per cento, prevedendo comunque per i possessori di titoli pubblici ed equiparati la possibilità di optare per l’indicazione nella dichiarazione annuale dei relativi interessi ed altri proventi percepiti e dell’ammontare dei titoli pubblici ed equiparati posseduti, ai fini dell’applicazione di un’aliquota di imposta del 12.5 per cento sui redditi riferiti ad un valore complessivo di titoli posseduti non superiore a duecentocinquanta milioni di lire, e del 25 per cento sui redditi riferiti alla parte del valore dei titoli che eccede i duecentocinquanta milioni di lire. In tali casi l’imposta viene applicata a titolo non definitivo e la tassazione è soggetta a conguaglio in sede di dichiarazione dei redditi ;

b) la tassazione dell’incremento di valore di titoli azionari (IN.VA.T.A.), ovvero del guadagno in conto capitale, con previsione di una aliquota di imposta del trenta per cento ;

c) l’inserimento nella dichiarazione annuale dei redditi di ogni reddito da capitale, ai fini dell’applicazione delle imposte dirette; a tal fine anche le aliquote e le ritenute sui redditi da capitale saranno accorpate su un unico livello corrispondente al trenta per cento;

d) la tassazione dei trasferimenti di valuta all’estero, con previsione di una aliquota dell’1,8 per cento;

e) l’introduzione di una tassa sull’innovazione tecnologica che produce decremento occupazionale, consistente in una addizionale del tre per cento sull’ I.V.A..

 

 

INTERVENTO di LUCIANO VASAPOLLO

 

 

Docente di Statistica Aziendale (DIP) e di

Economia Aziendale della facoltà di Scienze Statistiche,

Università “La Sapienza”, Roma;

Direttore Scientifico Centro Studi Trasformazioni

Economico-Sociali (CESTES-PROTEO)

I processi di ristrutturazione capitalistica

e le nuove soggettualità sociali

I risultati macroeconomici evidenziati in questi ultimi anni hanno cominciato a mettere in discussione in maniera chiara e definitiva quello che continua a configurarsi come un vero e proprio dogma socio-economico; una modalità dello sviluppo fondato su nuovi modelli decisori liberisti che puntano su investimenti finanziari scollegati dall’evoluzione dei processi produttivi reali e che seguono esclusivamente una logica speculativa attuando percorsi contrapposti agli interessi collettivi. Infatti i processi e le scelte di finanziarizzazione dell’economia perseguono semplicemente la loro logica interna tendente alla massimizzazione dei profitti complessivi, attraverso incrementi di dividendi, interessi e capital gain.

In tal modo si sono determinate le condizioni di contrazione degli investimenti produttivi, percorsi negativi dell’economia reale, provocando così alta disoccupazione strutturale e incremento dei costi sociali in genere. Questo è il vero significato della globalizzazione; una globalizzazione dei mercati finanziari in cui ha buon gioco solo la libertà assoluta dei movimenti di capitale a danno del lavoro, con invece i movimenti delle persone sempre più sottoposti a controlli e limitazioni che portano ad intensi fenomeni spesso a connotati razziali.

Tutto ciò è dovuto da una particolare fase di ristrutturazione e ridefinizione del modello capitalistico internazionale che vede anche in Italia il diffondersi di mutamenti nelle dinamiche evolutive dello sviluppo sociale, politico ed economico. Infatti nel nostro Paese l’attuale assetto politico e i progetti di riforma del Welfare State, del sistema elettorale, della forma di Stato, della Costituzione, trovano il loro punto di riferimento sul piano della ristrutturazione produttiva legata alle prospettive del modello di sviluppo neo-liberista. E’ in tale contesto che lo Stato Sociale si trasforma in Stato-Impresa, che assume come centrale la logica di mercato, la salvaguardia e l’incremento del profitto, trasforma i diritti sociali in elargizioni di beneficenza, effettua comunicazione sociale che fa assumere il profitto, la flessibilità, la produttività come nuove forme di “divinità sociale”, come la filosofia ispiratrice dell’unico modello di sviluppo possibile. Si realizza così il passaggio definitivo dallo Stato sociale della cittadinanza al Profit State del consociativismo neo-liberista! Modello, questo, basato come sempre sull’intensificazione dei processi di accumulazione, poi sulle riforme istituzionali in modo da piegare i nuovi bisogni sociali alle esigenze di conservazione politica e di compatibilità con i processi di ristrutturazione d’impresa, e più in generale del capitale.

Continua, infatti, la tendenza del nostro assetto produttivo ad un evidente diminuito peso dell’agricoltura, a più o meno evidenti processi di deindustrializzazione, accompagnati da una forzata terziarizzazione, spesso favorita da processi di esternalizzazione di fasi del processo produttivo che trovano sviluppo e redditività a partire dall’espulsione di manodopera, da un mercato del lavoro deregolamentato che produce lavoro nero, precarizzazione, sottoccupazione, lavoro sottopagato, atipico, disoccupazione ufficiale ed occulta, fino a provocare nuove povertà, forme sempre più evidenti di emarginazione economica e sociale.

L’aspetto territoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro. Il superamento dell’era fordista pone il nostro Paese in una fase di ridefinizione del capitalismo con caratteri post-industriali superando nei fatti le logiche interpretative di tipo industrialista ed “operaista”, per passare ad una gerarchizzazione dei modelli dello sviluppo basata principalmente sulle modalità di trasformazione sociale ed economica che vedono emergere sempre più nuove soggettualità non garantite.

E’ infatti in atto un intenso processo di territorializzazione dell’economia spiegabile non soltanto da fenomeni di ristrutturazione e riconversione che interessano l’industria ma che sta mutando lo stesso modo di presentarsi del modello di sviluppo capitalistico. Si afferma una diversa logica economico-produttiva, quella di una “nuova fabbrica sociale nel territorio”, sempre più diversificata rispetto ai precedenti processi produttivi, in particolare quelli di tipo industriale.

E’ in tale chiave che va letta la grande importanza che viene attribuita al nuovo concetto di distretto industriale, il quale ha una forte specificità, una propria dimensione socio-economico e territoriale, definita in funzione delle relazioni di coercizione comportamentale complessiva che si instaurano tra imprese e comunità locale e una specifica forzata capacità autocontenitiva in relazione a domanda e offerta di lavoro realizzata tramite marginalizzazione, precarizzazione ed espulsione dei soggetti economici e produttivi non compatibili.

Il risultato più immediato è l’aumento della disoccupazione che si va trasformando in strutturale, incrementando la schiera dei precari, dei marginali, degli emarginati, dei disoccupati “invisibili”, non ufficiali, precarizzando la qualità della vita di chi con tale sistema non riesce ad emergere ed arricchirsi, rendendo così marginali ed emarginati non solo le soggettualità del lavoro negato ma anche schiere sempre più folte di soggetti economici del lavoro; si pensi ai lavoratori del pubblico impiego, agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai lavoratori precari, ai sottoccupati, alle sempre più folte masse di disoccupati palesi, o più o meno invisibili, fino a giungere alle aree sempre più fitte di espulsione e completa emarginazione produttiva, reddituale e sociale.

E’ in quest’ottica che vanno interpretate le linee di riqualificazione dell’attuale modello di sviluppo che continuamente propone nuove attività economiche quasi sempre a carattere terziario, ufficiale e atipico non regolamentato. Un terziario che sempre più identifica e si identifica in nuovi soggetti sociali, che tende a caratterizzarsi anche con forme di lavoro a sempre più alto contenuto di precarizzazione e di flessibilità del lavoro e del salario; con falsi processi di crescita imprenditoriale che spesso nascondono gli incrementi di disoccupazione, la esternalizzazione di commesse, soprattutto di servizi, appaltate ad ex dipendenti licenziati e costretti, per realizzare un reddito, a “mettersi in proprio”, con false promesse di ottenere lavori dall’impresa madre, per poi chiudere presto l’avventura di “nuovi imprenditori”.

Questi sono gli incrementi di imprenditorialità di cui parlano le statistiche ufficiali, causati soprattutto dallo spropositato aumento di “partite IVA”, che ormai superano ampiamente i sette milioni di iscrizioni, e che altro non sono che “ditte individuali”, le quali rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione. Si tratta nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro , espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro dipendente. Si tratta di una nuova forma di lavoro subordinato, privo di normativa, un supersfruttamento a cottimo, con la mancanza assoluta di garanzie retributive, normative, sociali e assicurative.

In tale contesto le varie nuove forme di collaborazione a connotato cooperativo e concertativo, che hanno solo portato alla compressione dei diritti sindacali acquisiti con lunghe stagioni di lotte operaie, acutizzando peraltro gli svantaggi sociali dello sviluppo, realizzano un blocco sociale fondato su un nuovo modello consociativo incentrato su relazioni industriali esclusivamente finalizzate alla performance d’impresa e alla rottura della solidarietà ed unità dei lavoratori che trova la sua realizzazione attraverso modelli comunicazionali che attraversano e condizionano i comportamenti dell’intero corpo sociale.

Si è in una fase, dunque, di passaggio epocale nella trasformazione delle modalità di sviluppo nel nostro Paese; una fase in cui, si stanno velocemente affacciando sulla scena economico-sociale nuove soggettualità, nuove povertà e quindi nuove figure da riaggregare in un progetto di ricomposizione e organizzazione del dissenso sociale. Un profondo processo di trasformazione di questo tipo deve necessariamente portare a riconsiderare le vecchie categorie economiche e sociali, le politiche economiche ormai di stampo antico perché superate dall’evoluzione dei tempi, e le stesse ipotesi di intervento per un progetto di antagonismo, di alternativa, di fuoriuscita dal capitalismo.

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I vari modelli di analisi economica e sociale adottati a tutt’oggi da studiosi di varia formazione e collocazione politica risultano ancorati a forme di misurazione basati su parametri elaborati e desunti da una logica interpretativa di “stampo industrialista”, logica che è assunta come centrale da gran parte delle forze sindacali confederali e da forze politiche della sinistra, anche di una parte di quella radicale e alternativa.

Sindacalizzare il territorio per la ricomposizione

dell’unità dei lavoratori

L’autoimprenditorialità, la precarizzazione del lavoro, la flessibilità del salario, l’occupazione interinale, cioè il nuovo caporalato, il telelavoro, la multifunzionalità del lavoro, la fabbrica diffusa e integrata, rappresentano la vera partecipazione dei lavoratori all’incremento di produttività, alla determinazione delle nuove modalità di accumulazione del capitale derivanti da sempre maggiori quantità di lavoro sociale complessivo erogato con modalità tecnologiche e retributive diverse, spesso attraverso processi illusori di democrazia economica.

Ma dietro gli incentivi, gli straordinari, i premi di produzione, l’azionariato dei lavoratori, il lavoro autonomo di seconda generazione, il tanto decantato sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del “popolo degli imprenditori”, altro non c’è che un capitalismo selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni che provocano incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto del lavoro.

E’ allora il territorio il centro verso il quale far convergere una parte rilevante degli interessi della collettività, della classe, delle nuove soggettualità che operano in una fabbrica sociale diffusa nel sistema territoriale, nuovi soggetti che si ricompongono ad unità su un corpo organizzato, come una totalità di parti interagenti, che si danno una certa caratterizzazione sociale perché derivano da una certa caratterizzazione produttiva della riconversione neoliberista, del modo di produrre e di proporre socialmente la centralità dell’impresa, del profitto, del mercato.

E’ quindi a partire dalle nuove soggettualità del conflitto sociale che si può riorganizzare l’unità di interessi del mondo del lavoro , la solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data a partire dall’organizzazione in fabbrica. Per far ciò bisogna saper coniugare un forte, rinnovato e antagonista sindacalismo del lavoro ad un nuovo, e altrettanto antagonista, sindacalismo del territorio. Al centro dell’iniziativa politica e sociale devono ritornare le associazioni di base, i comitati di quartiere, le forme organizzate del dissenso nel territorio, il sindacalismo di classe, cioè l’insieme di quelle organizzazioni del lavoro e del lavoro negato che non scelgono il consociativismo, ma che anzi sappiano porre come immediato il problema del potere attraverso la distribuzione sociale del valore e della ricchezza complessivamente prodotta, riassumendo nel contempo i nuovi soggetti della trasformazione sociale, le nuove povertà, le fasce deboli della popolazione, come definizione di una ricca risorsa dell’antagonismo sociale.

E’ ormai irrinunciabile porre l’analisi scientifica su un progetto che riparta dalla ricomposizione dell’unità dei lavoratori, occupati e disoccupati, garantiti e non garantiti, proponendo un progetto e una pratica capace da subito di percorrere nuove strade di politica economica che sappiano effettuare una completa inversione di rotta nelle scelte, nelle decisioni.

La capacità di analisi scientifica e di iniziativa politica deve partire dal fissare regole di controtendenza rispetto alla società dell’impresa e delle privatizzazioni in cui lo Stato ridiventi non solo garante degli equilibri, controllore, ma uno Stato interventista e occupatore, che crei nuovo e diverso lavoro non mercantile, capace di attuare e regolare l’efficienza del sistema orientato al rafforzamento di un nuovo Welfare State che soddisfi nuovi bisogni, a partire da un nuovo e più moderno sistema della qualità della vita.

Un progetto complessivo per un’Europa del lavoro

e delle socio-compatibilità solidali

La società del terziario avanzato crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni; diventa allora strategico porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un diverso modello di sviluppo, solidale socio-ecocompatibile, in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.

Oggi con la disoccupazione strutturale di massa si ha una conseguente contrazione del monte salari ( che in Italia tra il 1980 e il 1995 è passato dal 48% del PIL al 41%), che accompagnata da una evasione fiscale e contributiva istituzionalizzata, determina una condizione complessiva macroeconomica in funzione della quale vengono a mancare le modalità principali di finanziamento dello Stato sociale.

E’ per questo che oggi va riproposta una battaglia europea dell’intera classe dei lavoratori, occupati e non occupati, garantiti e non, come momento centrale della iniziativa legata alla riproposizione verticale dei conflitti sociali a partire dalla distribuzione sociale dell’accumulazione del capitale determinata da forme sempre più sofisticate di sfruttamento del lavoro, da quegli incrementi di produttività, che in ultima analisi altro non sono che ricchezza sociale generale complessivamente prodotta. Si propone così una iniziativa politica a livello europeo sulla salvaguardia e rivendicazione di distribuzione a tutti i lavoratori, occupati e non, dell’intero spettante salario sociale prodotto come classe, tralasciando le richieste corporative basate sul salario individuale e sulle forme di elargizione caritatevole di “soccorso agli esclusi”.

La costruzione di un’Europa del lavoro e delle socio-compatibilità solidali ha bisogno di ridistribuire reddito e ricchezza attraverso un fisco che aumenti la massa dei contribuenti, contraendo l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, colpendo i capitali speculativi, i movimenti di capitale all’estero, tassando l’innovazione tecnologica. E’ in ambito di un programma per un’Europa del lavoro che vanno recuperati in termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare in questi due ultimi decenni, rivendicando da subito una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario reale, ponendo le basi per creare nuova occupazione a partire da lavori a compatibilità sociale e ambientale e di pubblica utilità con pieni diritti e piena retribuzione, rafforzando nel contempo il Welfare State tramite incrementi delle entrate del bilancio pubblico determinate dalla tassazione dei capitali, in modo da poter inserire nella spesa sociale anche un Reddito Sociale Minimo europeo da distribuire ai disoccupati, ai precari, ai marginali.

Socializzare la ricchezza prodotta: dalla riduzione

dell’orario di lavoro, alla tassazione dei capitali,

al Reddito Sociale Minimo

Riverticalizzare il conflitto sociale significa porsi immediatamente il problema della socializzazione dell’accumulazione, quindi il problema della ridefinizione dei meccanismi del potere economico-sociale.

Bisogna imporre un passaggio definitivo dal Profit State del consociativismo neo-liberista ad una riqualificazione non solo dello Stato sociale della cittadinanza, ma ad un nuovo Welfare State capace di redistribuire e socializzare la ricchezza complessiva.

Oggi è possibile voltare pagina definitivamente nelle scelte di politica economica e di politica industriale, perché le innovazioni tecnologiche permettono una più alta produttività di impresa che deriva esclusivamente dall’incremento di produttività del lavoro. Incrementi di produttività che sono quindi ricchezza sociale nel suo complesso, e perciò tali incrementi di produttività devono essere finalizzati al miglioramento della qualità del lavoro, della qualità della vita, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore, a parità di salario, di ritmi e controllando i turni e il lavoro straordinario, adeguando il tempo di lavoro a favore del tempo liberato e di una migliore socialità dell’intera collettività.

Date le attuali condizioni internazionali di sviluppo dell’innovazione tecnologica risulta dall’elaborazione di dati provenienti da fonti ufficiali che la quota di lavoro socialmente necessario alla sussistenza media dell’intera classe dei lavoratori (occupati e disoccupati) sia pari a circa il 20% dell’attuale giornata lavorativa sociale a livello internazionale; ed è questa la parte di lavoro retribuita, mentre il resto è pluslavoro destinato ad accumulazione di capitale.

Allora la battaglia per la riduzione dell’orario deve da subito porsi su un terreno offensivo per superare le ostilità e il tentativo palese, da parte della Confindustria, di opporsi al connotato conflittuale di tale proposta. Bisogna altresì combattere le ipotesi di riportare la riduzione dell’orario di lavoro su una media annuale, ipotesi legata la tentativo di mediare in tal modo i periodi ad alta intensità con quelli a bassa intensità di lavoro, ponendo sul piatto dello scambio l’imposizione sociale della flessibilità salariale e del lavoro, l’accettazione delle compatibilità d’impresa e del profitto come al più un “male necessario”.

L’attenzione va posta anche sulle difficoltà interpretative e sulla divisione fra i lavoratori che la proposta sulla riduzione dell’orario di lavoro può provocare, sia in funzione di una difesa del lavoro straordinario sia relativamente alla rincorsa verso il “secondo lavoro”, spesso sommerso e atipico, aumentando così la divaricazione tra l’economia ufficiale e l’economia del lavoro nero e “grigio”, soprattutto legata al modello delle piccole e medie imprese.

Se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è accompagnata da una battaglia offensiva dell’intera classe dei lavoratori, dei garantiti e dei non garantiti; se tale proposta non è legata alla più ampia battaglia relativa alla socializzazione dell’accumulazione di ricchezza riconoscendo a tutti i non garantiti un Reddito Sociale Minimo; se le organizzazioni dei lavoratori non impongono la parità del salario reale, il controllo dei ritmi, della condensazione del lavoro, il mantenimento degli stessi turni, specialmente nelle attività produttive a ciclo continuo; se non si ha il controllo sul lavoro straordinario e sull’aumento dell’utilizzo degli impianti che può più che compensare l’incremento del salario-orario derivante dalla riduzione dell’orario; se la proposta della riduzione dell’orario di lavoro non è effettuata considerando l’intero arco di vita del lavoratore; allora si può cadere in un contesto contraddittorio, difensivistico, compatibile con le esigenze di ristrutturazione del modello capitalistico, creando anche forti conflitti orizzontali all’interno della stessa classe dei lavoratori.

Si deve allora riportare la battaglia sulla riduzione dell’orario di lavoro in funzione di una forte richiesta di diversificazione della qualità della vita, di socializzazione del tempo liberato dal lavoro, con la consapevolezza che l’obiettivo delle 35 ore, o meglio delle 32 ore come viene proposto in altri Paesi europei e in Italia dal sindacalismo di base (come ad esempio le Rappresentanze Sindacali di Base), deve avere carattere e natura intermedia.

Allora non si tratta di riconoscere ulteriori incentivi fiscali, sgravi e agevolazioni contributive alle imprese che accettano la riduzione dell’orario di lavoro, ma va immediatamente capito che l’incremento di produttività è ricchezza sociale che può garantire il soddisfacimento di nuovi bisogni, redistribuendo socialmente l’accumulazione di capitale, e ponendo un programma di iniziativa che entro pochi anni possa portare alla giornata lavorativa, a parità di condizioni, di 15 ore e non di 35! Solo in tale contesto di riduzione d’orario continua nel tempo, con obiettivi di medio-lungo respiro che a fronte degli incrementi di produttività impongano sempre più intense riduzioni della giornata lavorativa a parità di salario, allora solo così si può creare nuova occupazione.

Si può intanto da subito proporre una battaglia politico-sociale, ma soprattutto culturale, che attraversi l’intera Europa e nella quale:

- si deve parlare di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario come battaglia contro la disoccupazione strutturale e per un diverso modello di sviluppo solidale e fuorimercato basato sul miglioramento complessivo della qualità della vita e del lavoro;

- l’ipotesi deve essere funzionale alla possibilità di creazione di occupazione legata al tempo liberato, quindi finalizzata a produzioni non mercantili, incentrando lo sviluppo sulle risorse immateriali e stimolando la crescita sociale del valore del capitale umano e del capitale intangibile;

- la riduzione oraria deve essere necessariamente legata alla redistribuzione sociale della ricchezza complessiva determinata dal lavoro e dal supersfruttamento del lavoratore, poiché la quantità di lavoro complessivamente necessario per la produzione diminuisce in continuazione grazie agli incrementi di produttività del lavoro ( in ambito europeo negli ultimi tre anni si sono avuti incrementi medi annui di produttività del 2% a fronte di incrementi medi annui di salari reali dell’0,5%) e grazie alle politiche di concertazione ciò non si è neppure tradotto in incrementi di occupazione, nè in miglioramenti della qualità del lavoro (ritmi, condensazione), nè in incrementi di salario sociale generale attraverso il miglioramento del Welfare (anzi si sono avuti in tutti i paesi europei tagli continui alla spesa sociale), nè in riduzione di orario a parità di salario. I dati statistici ci segnalano invece in tutta Europa riduzione di reddito complessivo e compressione del potere d’acquisto salariale anche attraverso il massiccio ricorso alla flessibilità, alla precarizzazione, alla sottoccupazione, al lavoro nero o sottopagato e all’annullamento totale o parziale dei diritti sindacali acquisiti;

- il salario sociale reale complessivamente distribuito (retribuzioni+ stato sociale) a livello internazionale oggi remunera soltanto il 20% della giornata di lavoro complessiva; come dire che per il lavoro socialmente necessario alla sussistenza media di tutti i lavoratori (occupati e disoccupati) servirebbe il 20% della giornata lavorativa complessiva e conseguentemente, in termini generali, mediamente l’80% della giornata di lavoro va a plusvalore, ad accumulazione di capitale. Ecco perché la proposta europea di riduzione dell’orario può benissimo partire da subito dalla richiesta delle 32 ore e non delle 35 ore, proprio per porre da subito una linea di tendenza a maggiori riduzioni di orario e per seguire altre impostazioni di lotta già proprie di alcuni sindacati europei e del sindacalismo di base del nostro Paese (vedi RdB). Anche questo comunque è un piccolo risultato intermedio derivato semplicemente dagli attuali rapporti di forza tra lavoro e capitale favorevoli a quest’ultimo, ma è utile per aprire una battaglia di prospettiva e offensiva che in pochi anni può porsi l’obiettivo di riduzione più massiccia e generalizzata dell’orario di lavoro, innescando processi rivendicativi continui di riduzione di orario, questi si di alto contenuto conflittuale e in gradi di aggredire la disoccupazione, fino a giungere ad imporre in 15-20 anni ad esempio la settimana lavorativa di 15 ore a parità di salario.

Come ipotesi di lavoro minima immediata per la legge sulla riduzione dell’orario di lavoro, bisogna continuare la battaglia, che oggi assume anche valenza di proposta di una inversione radicale nelle modalità future dello sviluppo, e quindi far si che la legge contenga assolutamente disposizioni in merito:

a) alla parità di salario e senza differenziazioni territoriali Nord-Sud e di settori produttivi;

b) la riduzione d’orario va contabilizzata su base settimanale e non annua poiché altrimenti non può creare nuova occupazione. L’ipotesi di riduzione su base annua (o anche la più sofisticata formula della riduzione di orario su media settimanale) porterebbe a forte flessibilizzazione del lavoro concentrando le ore sui picchi della domanda di prodotto; la riduzione va imposta sull’intero arco di vita del lavoratore (riprendendo così il tema della difesa delle pensioni di anzianità);

c) la legge non deve derogare dalla data già lontana del 2001, altrimenti non si crea occupazione, poiché la riduzione sarebbe compensata dagli incrementi di produttività, dei ritmi agendo anche sulla condensazione dei tempi;

d) la legge deve contenere precise disposizioni sulla drastica riduzione degli straordinari (non più del 5% dell’orario) e forte maggiorazione del costo o degli oneri sulle ore straordinarie; deve inoltre prevedere l’ipotesi di demonetizzazione dei residui straordinari o altre forme di disincentivazione;

e) la riduzione di orario deve riguardare da subito anche le imprese con meno di 15 dipendenti, e oltre all’industria anche il terziario (pubblico e privato);

f) la legge deve contenere precise disposizioni sul controllo dei ritmi, dei turni, della condensazione, sull’aumento dei carichi da lavoro e sull’assoluta salvaguarda di tutti i diritti già acquisiti;

g) non servono gli incentivi alle imprese, altrimenti si snaturano i contenuti di redistribuzione della produttività che è ricchezza sociale. Laddove le imprese spontaneamente accettano da subito la riduzione di orario, e non nel 2001, si può pensare ad un fondo di incentivazione da attivare attraverso il recupero dell’evasione ed elusione fiscale e tassazione dei capitali. Tali incentivi statali non devono andare alle imprese come sgravi fiscali, ma l’incentivo pubblico (assegno sociale dello Stato) deve essere dato al lavoratore per integrare quella parte di salari che l’azienda non dà a causa dell’immediata riduzione di orario (es. l’impresa paga le 32 ore di lavoro, lo Stato dà un reddito sociale per le altre 8 ore); in tal modo si pone il legame con il Reddito Sociale Minimo, anche perché la riduzione di orario non tiene immediatamente conto dei disoccupati, dei sottoccupati, dei lavoratori non garantiti, degli atipici, degli autonomi di seconda generazione; con il Reddito Sociale Minimo si lega la riduzione di orario alla distribuzione sociale della ricchezza e degli incrementi di produttività e alla tassazione dei capitali.

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Bisogna allora considerare la riduzione dell’orario sull’intero arco di vita del lavoratore, collegando tale riduzione ad una prospettiva di iniziativa complessiva, una campagna di opinione, di lotta, un appello all’Europa sociale del lavoro per rivendicare il diritto al Reddito Sociale Minimo per i disoccupati, gli inoccupati, i lavoratori precari, sottoccupati e sottopagati (si pensi che a fronte dei 18 milioni di disoccupati presenti in Europa dichiarati dalle statistiche ufficiali si contano, considerando le varie forme di disoccupazione invisibile, oltre 30 milioni di disoccupati e sottoccupati effettivi; un bel dato da considerare per l’Europa del neoliberismo!).

Non si tratta quindi di richiedere quel minimo vitale a carattere etico e filantropico che può assumere la forma di salario minimo o reddito garantito, ma si vuole imporre semplicemente il pieno riconoscimento della forma sociale del salario riferito all’intera classe lavoratrice e storicamente determinato e derivato dai rapporti tra lavoro e capitale.

E’ per questo che tale diritto preferiamo individuarlo con i nome di Reddito Sociale Minimo, e su tale proposta il Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES-PROTEO) in collaborazione all’Associazione Progetto Diritti e all’Unione Popolare ha lanciato una battaglia culturale, politica e sociale, che vuole avere dimensioni europee, a partire da una proposta di legge di iniziativa popolare.

La previsione di un Reddito Sociale Minimo vuole contrapporsi alla dissoluzione dello Stato sociale proponendo già da subito la riqualificazione di tutti gli strumenti di protezione sociale e l’aumento dei livelli delle pensioni sociali e minime.

L’articolato legislativo proposto dal CESTES prevede un importo del Reddito Sociale Minimo di lire dodici milioni annui (non soggetti a tassazione); i requisiti per l’accesso prevedono la regolare residenza nel nostro Paese da almeno due anni e l’iscrizione alle liste di collocamento da almeno un anno. L’importo sopra indicato va rivalutato annualmente in base agli indici ISTAT; è prevista inoltre la riduzione del cinquanta per cento dell’importo nell’ipotesi di svolgimento di attività lavorative che comunque producono un reddito inferiore all’ammontare del reddito minimo e la decadenza dal percepimento dello stesso nell’ipotesi in cui si ottenga un lavoro a tempo pieno o nell’ipotesi che lo si rifiuti immotivatamente; ciò permette di rivolgere tale istituto non solo ai disoccupati ma anche a coloro che svolgono lavoro precario, sottopagato o che hanno forme di sottoccupazione. Il periodo di fruizione del Reddito Sociale Minimo deve essere calcolato ai fini pensionistici e prevede inoltre in favore dei soggetti titolari del diritto al Reddito Sociale Minimo forme di reddito indiretto e differito attraverso l’accesso gratuito ai servizi fondamentali (trasporti urbani, servizio sanitario, studi, ecc.) e il dimezzamento dei costi delle utenze relative alle forniture di gas, luce, acqua, telefono, rifiuti, oltre ad un canone sociale per l’utilizzo degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Abbiamo calcolato che le risorse necessarie per le spese conseguenti all’introduzione della nuova normativa ammonteranno a circa cinquantamila miliardi di lire annui che andranno reperite esclusivamente attraverso varie forme di tassazione sui capitali.

Pertanto per poter realizzare tale obiettivo si tratta di scegliere un terreno offensivo anche in ordine alle politiche fiscali, recuperando per i lavoratori almeno parte del tempo reso disponibile dagli incrementi di produttività, del lavoro che il capitale trasforma in disoccupazione strutturale, in quanto si tratta di forza-lavoro che non è più compatibile far tornare all’impiego, perché i bisogni derivanti dalla domanda di produzione mercantile non sostengono più lo sviluppo capitalistico. Visto quindi l’enorme incremento di accumulazione media del capitale derivante da incrementi di produttività non destinata in alcun modo al fattore lavoro (si pensi che negli ultimi 15 anni oltre 20 punti di incrementi di produttività non sono stati distribuiti al lavoro e vanno quindi immediatamente e assolutamente recuperati), è giunto allora il momento di tassare di meno i lavoratori e invece di aumentare fortemente la tassazione sulle macchine, sui robot, sulle innovazioni tecnologiche, sui grandi patrimoni.

Un terreno immediatamente praticabile è invece quello di applicare una efficace imposta patrimoniale, di colpire le rendite finanziarie e i grandi patrimoni, di tassare i guadagni in conto capitale (capital gain), di ridurre le agevolazioni verso le imprese, per poter così aumentare la spesa pubblica in modo che questo possa rappresentare un investimento ad alta redditività sociale basato su principi di giustizia fiscale e tributaria, e quindi di giustizia sociale.

Invertire la tendenza abbassando il carico fiscale sul lavoro dipendente e sul lavoro autonomo più marginale, colpendo maggiormente le società di capitale, le rendite finanziarie, i profitti, i capital gain, i grandi patrimoni significa semplicemente assolvere ai dettami costituzionali secondo i quali il carico fiscale deve servire per redistribuire i redditi dall’alto verso il basso. Significa, inoltre, recuperare quasi 300.000 miliardi annui di evasione di imposte dirette, di imposte immobiliari, di imposte indirette e di evasione contributiva.

Si consideri inoltre che le plusvalenze, realizzate dalla differenza fra quanto ricavato al momento della vendita di un titolo azionario e quanto pagato per il suo acquisto (capital gain), non è attualmente gravato da alcuna imposta. D’altro canto non esiste in generale una seria tassazione dei redditi da capitale, vanno quindi riviste e incrementate le aliquote delle ritenute almeno a partire da una determinata soglia minima di possesso dei titoli (si dovrebbe per lo meno giungere, sia per i titoli privati sia per i titoli pubblici, ad un passaggio dall’attuale aliquota del 12,5% ad una del 30%) facendo si che gli interessi maturati sui titoli debbano essere indicati nella dichiarazione dei redditi. E’ inoltre assente una qualsiasi forma di tassazione sulle transazioni riguardanti prodotti finanziari denominati in valuta estera, senza che siano colpiti in alcun modo i trasferimenti internazionali di capitale, neppure quelli a finalità speculativa.

Tassare finalmente nei modi diversi suddetti il capitale, fino a giungere anche alla tassazione dell’innovazione tecnologica, effettuare degli appropriati controlli attraverso un’anagrafe patrimoniale ed una efficiente anagrafe tributaria, significa far riappropriare i ceti meno abbienti della popolazione, i lavoratori, composti da occupati e non occupati, di quella ricchezza sociale da loro stessi prodotta e realizzata e che si è sostanziata nel tempo in quegli incrementi di produttività che sono andati fino ad oggi ad esclusivo vantaggio del capitale.

Si tratta di recuperare all’occupazione, al rafforzamento dello Stato sociale, al riconoscimento di un Reddito Sociale Minimo, qualcosa come diverse centinaia di migliaia di miliardi l’anno. Ci sembra quindi un obiettivo minimo, praticabile quello di aprire una battaglia, una iniziativa di dibattito e di lotta, che realizzi la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro sull’intero arco di vita del lavoratore a parità di salario e con controllo dei ritmi e della condensazione del lavoro realizzando così un milione di posti di lavoro ripartendo anche da produzioni non mercantili e dalla ridefinizione di uno Stato occupatore; recuperare almeno 50 mila miliardi annui dalla tassazione dei capitali da destinare al Reddito Sociale Minimo.

 

proposta di legge di iniziAtiva dei deputati,

cento, gardioL, malavenda

Presentata il 12 febbraio 1998 alla Camera dei Deputati N% 4553

 

Onorevoli colleghi! - Con la presente proposta di legge s’intende introdurre l’istituto del reddito sociale minimo. Questa proposta di legge nasce dall’elaborazione del Centro Studi trasformazioni economico sociali (CESTES-Proteo), diretto dal professor Luciano Vasapollo, e da una proposta di legge di iniziativa popolare, depositata presso la Corte di Cassazione il 10 marzo 1998, promossa da numerose realtà sociali e sindacali (Unione Popolare, Rappresentanze Sindacali di Base, Centri sociali, disoccupati e precari organizzati in comitati d’azione), che stanno costruendo una rete nazionale di mobilitazione.

La proposta di legge nasce dalle constatazione di un livello di disoccupazione strutturale che è fonte di notevoli preoccupazioni sulla tenuta dell’intero tessuto sociale.Si tratta di garantire, nell’ambito di una concezione che vede il lavoro come una questione centrale, sul piano nazionale e continentale, una ripartizione degli incrementi di produttività del lavori che si sono avuti in particolare in questi ultimi venti anni, e conseguentemente della ricchezza sociale complessiva.Ciò porta alla necessità di distribuire socialmente tale ricchezza per fronteggiare le nuove povertà prodotte dallo sviluppo industriale.A tal fine, si può intanto imporre immediatamente l’allargamento della base occupazionale a partire da politiche reali di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, senza intaccare la certezza dei diritti acquisiti e le conquiste dei lavoratori in termini di organizzazione dei turni, dei ritmi e della qualità del lavoro.Bisogna allora considerare la riduzione dell’orario sull’intero arco di vita del lavoratore, collegando tale riduzione ad una prospettiva di iniziativa complessiva, ad una campagna di opinione, di lotta, ad un appello all’Europa sociale del lavoro per rivendicare il diritto al reddito sociale minimo per i lavoratori disoccupati, precari ed atipici.

La proposta deve essere accompagnata da un aumento dei livelli e dalla piena indicizzazione delle pensioni sociali e minime, nell’ambito della riqualificazione di tutti gli strumenti della protezione sociale e da una riforma delle strutture del collocamento con la reintroduzione dell’istituto della chiamata numerica. Le risorse finanziarie per coprire le spese conseguenti all’introduzione del reddito sociale minimo non mirano a colpire i redditi da lavoro ma, nell’ambito di una lotta generalizzata all’evasione ed all’elusione fiscale e contributiva, si indirizzano verso le rendite di carattere finanziario, i trasferimenti di valuta all’estero, le innovazioni tecnologiche che producono diminuzione del numero degli addetti alle lavorazione ed in genere verso le forme di tassazione dei capitali.

Nella prima fase di applicazione si prevede l’istituzione di una labour tax, per fronteggiare una grave emergenza nazionale, prendendo esempio dal grande sforzo compiuto per permettere l’ingresso del nostro paese nel sistema monetario europeo.

 

Proposta di legge

Art. 1)

Requisiti soggettivi

1. È istituito il reddito sociale minimo dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale per i quali ricorrano le seguenti condizioni:

a) siano iscritti alle liste del collocamento da almeno un anno;

b) siano residenti regolarmente in Italia da almeno due anni.

Art. 2)

Entità del reddito sociale minimo

1. Il reddito sociale minimo ammonta a lire 12 milioni annue, e non è soggetto ad alcuna forma di tassazione.

Art. 3)

Periodo di fruizione

1. Il periodo di fruizione del reddito sociale minimo deve essere calcolato ai fini pensionistici.

Art. 4)

Indicizzazione del reddito sociale minimo

1. L’importo di cui all’art.2 è rivalutato annualmente sulla base degli indici ISTAT del costo della vita.

Art. 5)

Ipotesi di riduzione del reddito sociale minimo

1. L’importo di cui all’art.2 è ridotto alla metà nell’ipotesi di svolgimento di attività lavorative che comunque producono un reddito inferiore all’ammontare del reddito sociale minimo.

Art. 6)

Sanzioni amministrative per i datori di lavoro

1. Il datore di lavoro che non denuncia l’esistenza di un rapporto di lavoro intercorrente con un soggetto che fruisce del reddito sociale minimo è punito con una sanzione amministrativa, da combinare ai sensi degli articoli 14 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689, pari all’ammontare delle somme versate al soggetto quale corrispettivo del lavoro svolto.

Art. 7)

Decadenza dal reddito sociale minimo

1. Il soggetto decade dalla possibilità di percepire il reddito sociale minimo nell’ipotesi in cui ottiene un lavoro a tempo pieno o nell’ipotesi in cui immotivatamente lo rifiuti.

Art. 8)

Introduzione di tariffe sociali sui servizi

1. I soggetti che fruiscono del reddito sociale minimo hanno diritti di usufruire gratuitamente dei trasporti urbani e delle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale, e alla riduzione, fino alla metà, dei costi delle utenze relative alle forniture di gas, luce, acqua e del servizio di telefonia fissa, previo versamento di un bonus ai soggetti erogatori del servizio.

2. Per l’utilizzo degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ai soggetti di cui al comma 1 si applica il canone sociale.

Art. 9)

Copertura finanziaria

1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge, stimato in lire 50.000 miliardi di lire per ciascuno degli anni 1998,199 e 2000, si fa fronte, per il 1998, mediante l’introduzione di una imposta straordinaria, consistente in una addizionale una tantum del 2,5% sulla tassazione dei redditi di impresa.

2. Per la copertura in via ordinaria degli oneri derivanti dall’erogazione del reddito sociale minimo si provvede mediante:

a) l’incremento dell’aliquota di imposizione sugli interessi derivanti da titoli pubblici ed equiparati dal 12,5 al 27 per cento. I possessori di titoli pubblici ed equiparati possono optare per l’indicazione nella dichiarazione annuale dell’ammontare dei titoli pubblici posseduti, dei relativi interessi ed altri proventi percepiti, ai fini dell’applicazione di un’aliquota di imposta del 12,5 per cento sui redditi derivanti da un valore complessivo di titoli posseduti non superiore a centocinquanta milioni di lire, e del 23 per cento sui redditi riferiti alla parte del valore dei titoli che eccede i centocinquanta milioni di lire. In tali casi l’aliquota del 27% viene applicata a titolo non definitivo e la tassazione è soggetta a conguaglio in sede di dichiarazione dei redditi;

b) la tassazione delle somme derivanti da realizzi su titoli azionari con un’aliquota d’imposta del 30 per cento;

c) l’inserimento nella dichiarazione annuale dei redditi di ogni reddito da capitale, ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi delle persone fisiche e giuridiche. Le aliquote e le ritenute sui redditi da capitale dovranno anch’esse essere accorpate nell’unica aliquota del 27 per cento in modo da garantire l’uniformità del trattamento fiscale dei diversi tipi di reddito;

d) la tassazione dei trasferimenti di valuta all’estero, con un’aliquota dell’1,5 per cento;

e) l’introduzione di una tassa sull’innovazione tecnologica dalla quale deriva decremento occupazionale, da concepire come una addizionale dell’imposta sul valore aggiunto nella misura dell’1 per cento.