Analisi-inchiesta: lavoro che cambia, lavoro che non c’è. Lavoro precario o lavoro vero?

Luciano Vasapollo

Rita Martufi

Riprendiamo con questo numero un’inchiesta cara a CESTES-PROTEO per analizzare più in profondità e meglio e far conoscere ai lettori il nuovo mercato del lavoro e come esso ruota intorno al reale mondo del lavoro.

È nostra intenzione analizzare i vari aspetti legati alla disoccupazione e il suo rapporto con l’occupazione “flessibile e alternativa” che a detta della Confindustria, del Governo e dei sindacati concertativi dovrebbe essere “la panacea di tutti i mali”.

È possibile risolvere il problema della disoccupazione con l’introduzione di nuove forme di lavoro cosiddetto atipico, ossia flessibile e precario? È possibile risolvere i problemi di sussistenza e di qualità della vita a tutti coloro che vivono quasi al di sotto della soglia di povertà per mancanza di reddito attraverso lavori temporanei, precari, atipici in genere e con poche o senza garanzie salariali e normative?

Il concetto di flessibilità del lavoro, l’idea che occorre abbandonare il modello del “posto fisso”, sono ormai entrati nel nostro quotidiano e molti economisti e studiosi si affannano a dichiarare che solo con un veloce interscambio dei posti e luoghi di lavoro sarà possibile adattarsi alle nuove regole che la “globalizzazione” e il nuovo paradigma socio-economico-produttivo impongono.

Ma sarà proprio così?

L’esigenza di una diversa approfondita analisi-inchiesta di classe incentrata sulla composizione della soggettualità del lavoro e del non lavoro a caratterizzazione territoriale, nasce dalla constatazione che lo sviluppo socio-economico è stato caratterizzato da una specifica dinamica delle forme di accumulazione del capitale determinate dai processi di ristrutturazione e di collocazione internazionale del capitalismo nell’era della competizione globale. L’aspetto territoriale-settoriale assume un ruolo sempre più determinante con il passaggio da una produzione di massa, concentrata, ad una di tipo flessibile e diffusa basata nel contempo sulla mobilità, flessibilità e precarizzazione della forza lavoro. È solo così che si può dare una corretta interpretazione dello sviluppo delle forze produttive, dei mutamenti dei rapporti di forza capitale-lavoro e delle continue evoluzioni nella composizione di classe relativamente ad un dato livello di sviluppo.

1. La ristrutturazione di impresa e di modello produttivo nella cosiddetta Era Postfordista

Per comprendere l’attuale fase della competizione globale è necessario connetterla con l’analisi dell’organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale, del ruolo dello Stato, dei rapporti tra le aree internazionali e della loro struttura economica, degli interessi complessivi di dominio ed espansione che determinano il conflitto globale fra imprese e poli geoeconomici. Tutte problematiche fortemente connesse, spesso anzi dipendenti dall’epocale passaggio dall’era fordista a quella cosiddetta postfordista. Ci troviamo in una fase di transizione dal fordismo al postfordismo, dalla produzione-consumo di massa di sistemi di produzione alla distribuzione flessibile. L’entrata della comunicazione, del linguaggio, nella sfera della produzione è l’origine vera e propria della svolta economica e produttiva che stiamo vivendo. Vi sono stati negli ultimi anni ristrutturazioni di impresa, innovazioni tecnologiche che invece di creare nuova occupazione hanno realizzato meno posti di lavoro dei licenziamenti effettuati. Una realtà senza analogie con il passato, che ha portato la disoccupazione a divenire uno dei fenomeni più drammatici del nostro tempo con caratteristiche sempre meno congiunturali assumendo forti connotati strutturali.

Questo anche perché, molte imprese, per ridurre il peso degli oneri sociali e ridurre il costo del lavoro utilizzano sempre più il cosiddetto “outsourcing”, ossia l’esternalizzazione di fasi e di interi processi produttivi per accrescere l’efficienza e la produttività dell’impresa e diminuire i costi. Domina la “produzione snella” che permette di realizzare subito alti profitti. Per far essere questo sistema sempre più efficace le imprese si organizzano con tecniche e tecnologie nuove che incrementano la parte del ciclo produttivo che viene decentrato all’esterno dando così risposta in tempi sempre più brevi alle oscillazioni della domanda, delle richieste dei clienti-consumatori.

Si tenta sempre più di limitare costi superflui e di accumulare scorte eccessive, si diffonde il just in time, ossia il lavoro, la produzione in tempo reale flessibile al massimo. Questa è sicuramente la diversità maggiore con la produzione fordista, nella quale tempi e modi di produzione erano programmati.

La comunicazione, il linguaggio sono entrati ormai nella sfera della produzione. L’entrata della comunicazione nei processi di produzione è definita dal fatto che l’impresa deve aumentare il rendimento senza aumentare la quantità. I guadagni di produttività non si realizzano più attraverso le economie di scala ma attraverso la produzione di piccole quantità di molti modelli di prodotto con la possibilità di avere una risposta rapida alle continue variazioni del mercato. È il comando sui processi di globalizzazione delle reti informatico-comunicative che deciderà della nuova divisione internazionale del potere e della ricchezza. L’informazione permette di assicurare una migliore e tempestiva trasmissione dei segnali: è il fondamento delle nuove tecnologie produttive. L’economia postfordista ha come fondamenti della produzione la connessione, l’integrazione e la simultaneità, al posto della separazione, segmentazione e fasi sequenziali. In questo modo nel modello postfordista la produzione non ha né inizio né fine in fabbrica, ma inizia e termina fuori.

La delocalizzazione, poi, implica un minor costo del lavoro nel paese destinatario; prezzi delle materie prime più vantaggiose, migliori trattamenti fiscali, leggi ambientali meno restrittive, sindacati più accondiscendenti, ecc.

Il sistema di produzione postfordista rimanda al massimo all’apertura dei mercati, con la conseguente globalizzazione delle imprese, o meglio di una mondializzazione economico-produttiva alla continua ricerca di costi di lavoro più bassi e di posizioni di efficienza strategica sui mercati esteri. Un mercato saturo oltre a creare una concorrenza feroce all’interno del singolo paese, la crea anche in campo internazionale.

La “globalizzazione” delle imprese consente di soddisfare il cambiamento della domanda interna di ogni paese con un’offerta mondiale, e quindi la capacità nazionale di produzione non ha più il precedente significato operativo. Anche la definizione di produttività in termini di output per ore di lavoro non è più adatta all’attuale fase economico-produttiva. La stessa crisi degli indicatori economici è sintomatica della mondializzazione non solo dei processi produttivi dell’offerta ma anche della domanda di beni e servizi.

La diffusione del postfordismo impone oltre che nuove regole economiche anche una nuova ridefinizione dello Stato e del suo rapporto con il mercato. Lo Stato sociale diventa per il capitalista postfordista un fattore di impedimento da eliminare. La mondializzazione dell’economia aggiunge un ulteriore elemento alla delegittimazione del ruolo economico dello Stato.

Fonti confindustriali, governative e di gran parte dell’opposizione sostengono che lo Stato sociale è il maggiore responsabile della disoccupazione; uno sguardo alle statistiche però, segnala che non c’è relazione tra disoccupazione e spesa per lo Stato sociale in quanto non è vero che più alta è la spesa sociale e maggiore è il tasso di disoccupazione.

La disoccupazione non è causata dalla maggiore presenza di macchine nel modo di produzione ma dalla scelta neoliberista di non trasformare la grande quantità di lavoro necessaria in occupazione stabile e protetta; si vedano ad esempio le privatizzazioni sempre accompagnate da rilevanti tagli di personale e da forte abbattimento del costo del lavoro.

La fabbrica diventa minimalista perché tutto ciò che supera la capacità di assorbimento del mercato deve essere soppresso. È per questo che un’altra fondamentale differenza tra il modo di produrre fordista-taylorista e postfordista è che mentre nel primo la forza-lavoro deve essere specializzata, alienata al lavoro sempre uguale, nel postfordismo, invece vi è necessità di un lavoratore con alto grado di adattabilità ai mutamenti di ritmo, di mansione, di ruolo. Questo porta anche ad un’altro importante cambiamento; nel sistema fordista, i diritti sociali dei lavoratori avevano una validità universale e venivano protetti da leggi, mentre in quello postfordista, questi diritti sembrano scomparire. Questo perché quando sono le leggi del mercato a ordinare, ad imporre qualità e quantità in tempo reale, il lavoro diviene sempre più costrittivo, destinato all’obbedienza e alla fedeltà.

Ad esempio negli Stati Uniti l’assenza di norme regolatrici nei rapporti di lavoro e di sistemi di rappresentanza dei lavoratori ha favorito la creazione di una quantità di posti di lavoro precari che in Europa, “a causa” della rete di protezione sociale ereditata dal fordismo, non si riesce ancora a portare a quei livelli. Va sottolineato però che negli USA, a fronte di una minore disoccupazione, vi sono altissimi tassi di lavori e salari precari, quindi di maggiore povertà rispetto ai paesi europei e al Giappone. Anche in Europa ci si sta muovendo verso il modello americano, cioè verso gli assetti del modello anglosassone di capitalismo selvaggio.

La nuova organizzazione capitalistica del lavoro si caratterizza sempre più con l’esplosione della precarietà, della flessibilità, della deregolamentazione, sotto forme senza precedenti per i salariati in attività. È il disagio del lavoro, con la paura di perdere il proprio impiego, di non avere più una vita sociale, anzi di impiegarla tutta al e per il lavoro, con l’angoscia legata alla consapevolezza di un’evoluzione tecnologica che non risolve i bisogni sociali. È la precarizzazione dell’intero vivere sociale.

La flessibilità è vista come una delle alternative per combattere la disoccupazione. Ma cosa si intende per flessibilità? Le definizioni sono molte.

Va effettuata una distinzione tra flessibilità salariale,flessibilità di orario e flessibilità numerica (o esterna); vi è poi la flessibilità funzionale (od organizzativa).

Flessibilità ad esempio è:

• Libertà per un’impresa di licenziare una parte di dipendenti, senza penalità, quando produzione e vendite diminuiscono.

• Libertà per l’impresa, quando l’andamento della produzione ne abbia bisogno, di ridurre l’orario di lavoro o di ricorrere allo straordinario, ripetutamente e con poco o breve preavviso.

• Facoltà per un’impresa di pagare salari reali più bassi, a parità di lavoro, sia per rimediare a cadute temporanee degli affari sia per allinearsi alla competizione internazionale.

• Opportunità per l’impresa di suddividere il lavoro nel giorno e nella settimana a proprio piacimento, cambiando gli orari e le tipologie (lavoro a turni, a scaglioni, a tempo parziale, orario flessibile, ecc.)

• Libertà per un’impresa di trasferire i dipendenti in diverse unità produttive, reparti, ecc., senza nessuna possibilità di opposizione da parte dei lavoratori.

• Capacità di un’impresa, di affidare parti della propria attività a ditte esterne.

• Possibilità per un’impresa di utilizzare lavoratori in affitto (lavoro interinale), lavoratori a tempo parziale, tecnici assunti a tempo determinato, tirocinanti, apprendisti, parasubordinati e altre figure emergenti del lavoro “atipico”, diminuendo il personale assunto con contratto a orario pieno e tempo indeterminato, anche al di sotto del 20%.

La flessibilizzazione non è una soluzione per aumentare l’occupazione ma una imposizione alla forza-lavoro per l’accettazione di salari reali più bassi e di peggiori condizioni di lavoro.

Ed in questo quadro si è rafforzato un nuovo segmento dell’offerta di lavoro attraverso il cosiddetto mercato sommerso nel quale si diffonde il lavoro irregolare, precario e privo di garanzie. Con il postfordismo e la mondializzazione economico-produttiva, il lavoro “sommerso” ha assunto delle dimensioni molto più grandi, anche perché i paesi industrializzati hanno spostato le proprie produzioni più in là dei confini nazionali e soprattutto hanno investito in paesi dove minime sono le garanzie, alta è la specializzazione del lavoro, producendo così a costi fondamentalmente meno elevati, aumentando la competitività. -----

2. La legislazione attuale

In questo contesto è necessario analizzare le recenti leggi in Italia in materia di lavoro. Per quanto riguarda il cosiddetto Pacchetto Treu (Legge 24 giugno 1997, n.196 -“Norme in materia di promozione dell’occupazione”) si ricorda che con questa legge sono introdotti nuovi istituti come il contratto di lavoro temporaneo, comunemente chiamato interinale, le borse di lavoro, i tirocini in azienda e sono cambiati altri già esistenti; il part-time, il contratto di formazione lavoro, il contratto di apprendistato, i Lavori Socialmente Utili, la formazione professionale.

Infatti: “Il pacchetto Treu ha sviluppato delle misure a favore dell’occupazione sulla base di una flessibilità maggiore. La legge del 18 giugno ‘97 introduce alcuni istituti nuovi; il contratto di lavoro temporaneo, comunemente chiamato interinale, le borse di lavoro, i tirocini in azienda. Ne modifica altri già esistenti; il part-time, il contratto di formazione lavoro, il contratto di apprendistato, i lavori socialmente utili, la formazione professionale.

Il lavoro interinale

Si tratta di una forma di lavoro temporaneo gestito da agenzie autorizzate.

Il caso più classico in cui un’azienda può aver bisogno di personale temporaneo è per la sostituzione di lavoratori in malattia, o comunque assenti. Un’industria può però aver bisogno di fornitura di personale anche per far fronte a picchi produttivi.

Le agenzie

Le agenzie di lavoro interinale hanno la funzione di reperire, selezionare, formare ed assumere personale per le aziende-clienti.

Il contratto di formazione lavoro

Il contratto di formazione lavoro viene introdotto dalla legge n. 863/84, e successivamente modificato dalla legge n. 451/1994.

L’obiettivo è di agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro attraverso la concessione di particolari benefici alle aziende che assumono.

La legge 451 ha introdotto diversi tipi di contratto:

- contratti di formazione mirati all’acquisizione di professionalità intermedie ed elevate.

- contratti di formazione lavoro che agevolino l’inserimento professionale attraverso un’esperienza lavorativa che consenta di adeguare le capacità professionali al contesto produttivo.

Riduzione degli orari di lavoro e lavoro a tempo parziale

Incentivare la riduzione degli orari di lavoro è uno degli obiettivi del ‘pacchetto Treu’, per consentire un allargamento dell’occupazione e dare maggiore flessibilità al mercato.

I lavori socialmente utili

I lavori socialmente utili (LSU), attivati dal legislatore come formula di impiego per i lavoratori in cassa integrazione straordinaria e in mobilità, hanno incontrato un largo successo come strumento di reinserimento o inserimento nel mercato del lavoro. Lo scopo:

- fornire un sostegno, anche se parziale, al reddito di alcune fasce di disoccupati;

- contribuire alla creazione di nuova occupazione rivolta a chi è uscito dal mondo del lavoro, attraverso la realizzazione di progetti validi;

- dare un contributo per il miglioramento o la creazione di servizi per la comunità.

Le borse di lavoro

Uno strumento a favore dei giovani inoccupati del mezzogiorno, garantito da un piano straordinario di investimento rivolto in particolare alle piccole e medie imprese.

Il piano finanzia due strumenti: oltre alle borse lavoro, anche i lavori di pubblica utilità, che hanno come scopo la nascita di società miste a maggioranza privata a partire dalle pubbliche amministrazioni.

Aree di intervento:

Territori delle regioni Sardegna, Sicilia, Calabria, Campania, Basilicata, puglia, Abruzzo e Molise.

L’apprendistato

Il contratto di apprendistato è una delle più antiche formule di avviamento al lavoro. Il suo obiettivo è fare in modo che i giovani possano imparare un mestiere attraverso la pratica.

I contratti a termine

In passato, in caso di prosecuzione di un rapporto a termine oltre il limite stabilito, il contratto si trasformava automaticamente in contratto a tempo indeterminato.

La nuova disciplina è più elastica, ma le sanzioni economiche sono più pesanti. Non c’è più la trasformazione automatica in contratto a tempo indeterminato, ma è previsto un periodo di tolleranza, durante il quale vengono applicati aggravi retributivi a carico del datore di lavoro [1].

Vi è poi la legge 848, approvata definitivamente nel febbraio 2003 i cui contenuti principali si possono così riassumere:

“Collocamento

Il disegno di legge 848 sul mercato dà delega al Governo per il riordino del collocamento. È previsto in particolare che soggetti privati, comprese le agenzie di lavoro interinale, possano svolgere servizi di collocamento e orientamento al mercato del lavoro.

Outsourcing

È modificata la disciplina del trasferimento del ramo d’azienda. Si elimina il requisito dell’autonomia funzionale per autorizzare l’outsourcing. Quando la norma sarà esecutiva, singoli uffici o reparti, persino singoli macchinari, naturalmente con i lavoratori annessi, potranno essere esternalizzati. Potranno nascere, all’interno dello stesso perimetro aziendale, tante singole imprese sotto i quindici dipendenti, i cui lavoratori non saranno coperti dallo Statuto e, in generale, avranno meno tutele.

Staff leasing

La legge 1369/60, che vietava la somministrazione di manodopera, è abolita e si introduce il cosiddetto “staff leasing”. Un istituto che prevede che agenzie specializzate possano fornire manodopera a carattere continuativo e a tempo indeterminato, e dunque non solo a termine come nel caso del lavoro in affitto.In futuro tutti i lavoratori di un’azienda potrebbero essere dipendenti di un’agenzia di lavoro interinale.

Tipologie di lavoro

Si introducono:

a) Il lavoro a chiamata. Il lavoratore, in cambio di un’indennità di disponibilità, deve dichiararsi pronto ad effettuare una prestazione lavorativa in qualsiasi momento l’azienda lo chiami.

b) Il lavoro accessorio. Il lavoratore svolge prestazioni per lo più assistenziali a vantaggio di famiglie o enti senza fini di lucro.

c) Il lavoro a prestazioni ripartite o job-sharing. Una prestazione lavorativa può essere svolta da due lavoratori.

Part time

Le modifiche introdotte nella delega rendono più facile il ricorso al lavoro supplementare (straordinario) e spostano l’equilibrio a vantaggio del datore di lavoro.

Contratti di formazione

È previsto il mantenimento dei due contratti, apprendistato e contratto di formazione lavoro, pur in presenza della bocciatura di quest’ultimo da parte dell’Unione Europea.

Certificazione dei rapporti di lavoro

La certificazione dei rapporti di lavoro viene affidata agli Enti bilaterali.

Più in generale, il governo dichiara esplicitamente di voler assegnare agli Enti bilaterali una serie di competenze in materia di collocamento, di ammortizzatori sociali, di formazione, attraverso anche forme di incentivazione economica” [2].

Vi è poi “La legge di delega sul mercato del lavoro (n. 30/2003)”

Va in primo luogo segnalato che, in connessione col “Patto per l’Italia” siglato nel luglio del 2002, il progetto di legge inizialmente presentato dal Governo, è stato sdoppiato con lo stralcio degli articoli riguardanti la riforma degli incentivi all’occupazione, quella degli ammortizzatori sociali, la sperimentazione sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che sono divenuti parte di un nuovo progetto di legge delega (AS 848 bis).

“La legge definitivamente approvata contiene all’articolo 1 una delega per una nuova disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego, nonché in materia di intermediazione e interposizione privata nella somministrazione di lavoro... Si prefigura, in primo luogo, una convergenza tra i mercati (finora separati) della fornitura di lavoro temporaneo e dell’intermediazione privata ed un raccordo di quest’ultima con quella pubblica (che a sua volta può essere esercitata da operatori pubblici o, su convenzione, da operatori privati)... L’articolo 2 contiene una delega per il riordino dei contratti a contenuto formativo e di tirocinio, che prende atto da un lato dell’incompleta transizione del contratto di apprendistato verso modelli mitteleuropei di integrazione con il sistema di istruzione e formazione, dall’altra delle difficoltà insorte a seguito della dichiarazione di contrarietà di gran parte degli sgravi legati ai contratti di formazione e lavoro in relazione alle norme comunitarie sugli aiuti di Stato. Il percorso tracciato dal legislatore prevede quindi la necessità di declinare diversamente i due strumenti, con l’apprendistato connesso col sistema di istruzione/formazione e destinato ai più giovani, ed il contratto di formazione e lavoro destinato ad evolversi in un contratto di inserimento e reinserimento mirato del lavoratore in azienda, nel rispetto della normativa comunitaria. ...Una ulteriore delega è prevista, dall’art. 3, in relazione al lavoro a tempo parziale, la cui diffusione nel nostro Paese è ancora caratterizzata da alcune difficoltà strutturali, ma la cui espansione assume una rilevanza notevole (come afferma la medesima legge) per l’innalzamento del tasso di partecipazione delle donne e dei lavoratori anziani al mercato del lavoro. La delega contiene fra i criteri alcuni elementi volti da una parte ad aumentare i margini di flessibilità nei tempi e modi di prestazione dell’attività lavorativa a tempo parziale, dall’altra ad incentivarne l’utilizzo... La delega contenuta nell’art. 4 è volta a prevedere una nuova disciplina in relazione a contratti ancora non regolati (o non adeguatamente regolati) dalla nostra normativa. È il caso in primo luogo dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, in relazione ai quali permane il problema di trovare un discrimine più netto nei confronti da una parte del lavoro subordinato e dall’altro dell’attività di lavoro autonomo in senso proprio... La legge definitivamente approvata contiene all’articolo 1 una delega per una nuova disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego, nonché in materia di intermediazione e interposizione privata nella somministrazione di lavoro. ...Sempre in tema di lavoro temporaneo va inoltre citata la prevista piena estensione dell’istituto al settore agricolo” [3].

3. La situazione attuale del mercato del lavoro

Per comprendere il fenomeno è necessario dapprima stabilire le principali caratteristiche del lavoro standard, cioè:

• l’orario previsto è a tempo pieno;

• l’assunzione per i lavoratori dipendenti, e l’inizio dell’attività autonoma per gli indipendenti, hanno tempo e luogo determinati;

• vi è una marcata diversità di posizione e di ruolo tra chi lavora come dipendente e chi invece lavora come indipendente.

Nel lavoro atipico spariscono l’una, l’altra o tutte e tre questi aspetti.

Facendo ricorso alla letteratura sul lavoro atipico si possono trovare diverse definizioni, come ad esempio, il lavoro atipico si caratterizza:

1. per diversità dal lavoro standard, come un rapporto d’impiego in cui manca una o più caratteristiche del rapporto subordinato a tempo pieno, l’integrazione organizzativa nell’azienda, l’obbligazione al tempo indeterminato, il regime costante della prestazione, l’esclusività del rapporto e l’offerta della disponibilità temporale;

2. come una prestazione di lavoro, la cui caratteristica fondamentale è la mancanza o la insufficienza di tutela normativa e contrattuale. Nell’area del lavoro atipico rientrerebbero, cioè, tutte quelle forme di lavoro con modalità di prestazione del lavoro diverse da un modello standard, cioè alle dipendenze, con garanzie normative e contrattuali, a tempo indeterminato e full-time.

Quasi il 25% dell’occupazione italiana è a carattere indipendente, contro una media europea del 15%; ciò a conferma di un modello mediterraneo, rappresentato da Spagna ed Italia, nel quale la percentuale del lavoro indipendente sull’occupazione complessiva è maggiore del 20%.

Forme di lavoro autonomo sono presenti soprattutto nei settori del terziario, da quello povero a quello medio-basso e nelle attività precario stagionali in agricoltura e turismo, nei trasporti e telecomunicazioni.

È poi presente una forma tutta italiana di esternalizzazione dei servizi: il subappalto a cooperative.

La diminuzione dei posti fissi e stabili si collega non solo ad una maggiore precarizzazione, ma anche all’affermarsi di attività che non dipendono più dell’organizzazione aziendale.

Negli ultimi due o tre anni è emersa la crescita dei lavoratori coordinati e continuativi. Ad esempio a gennaio ‘97 risultavano iscritti al fondo 822,892 collaboratori mentre già a febbraio 1998 si è registrato un incremento del 35,5%. Il numero di maschi iscritti è superiore a quello di femmine (attualmente circa il 63% contro il 37%) e la percentuale cresce più si va verso il centro-sud.

È difficile quantificare il lavoro sommerso proprio per la particolarità di questo fenomeno.

Le indagini dell’Istat quantificano il lavoro ‘sommerso’, ossia il lavoro impiegato in violazione della legge, con valori pari al 15,1 per cento del totale nazionale, con una punta del 22,6 per cento nel Mezzogiorno.

Nelle regioni centrali la percentuale di ‘sommerso’ corrisponde al 15,2 per cento, nel Nordovest è dell’11,1 per cento e nel Nordest del 10,9 per cento. La regione con il maggiore tasso di irregolarità è la Calabria (27,8 per cento) e quella con il livello più basso l’ Emilia-Romagna (10,4) [4].

I dati presentati di seguito mostrano il mercato del lavoro nel nostro Paese, dati che ci permetteranno di esaminare se le nuove norme siano realmente “efficaci”.

Segue uno schema che indica gli occupati suddivisi per settori di attività economica negli anni tra il 1997 e il 2002.

È interessante ora mostrare i dati rilevati dall’ISTAT sulla situazione occupazionale in Italia con riferimento a gennaio 2003 suddivisi per tipo di occupazione (dipendenti e indipendenti).

L’indagine trimestrale delle forze di lavoro di gennaio 2003 ha evidenziato un rallentamento dell’aumento dell’occupazione rispetto alla rilevazione precedente. L’aumento, infatti, è risultato, rispetto ai dodici mesi precedenti, pari a un +0,8%.

Sul piano settoriale e su base annua, si registra una riduzione nell’agricoltura (-2,3%) così come una diminuzione dello sviluppo dell’industria in senso stretto (+0,2%). Anche il settore dei servizi hanno un leggero rallentamento (+0,9%) effetto della riduzione avuta nel commercio (-0,2%).

Tra le componenti dell’occupazione, va è una minima crescita dell’occupazione indipendente (0,3%), rispetto ai dodici mesi prima, e di pari passo vi è una diminuzione dell’occupazione dipendente, che aumenta solo dell’1%. Va evidenziato poi che vi è un aumento dell’occupazione atipica (a termine e/o a tempo parziale) (+2,4%), anche se molto rallentata rispetto all’ottobre 2002, a fronte di un aumento dell’occupazione standard dello +0,8%

Sul piano territoriale nel sud d’Italia diminuisce l’occupazione (-0,6% rispetto a gennaio 2002) ed anche l’offerta di lavoro (0,9%) [5].

In ultima analisi continua la tendenza dell’assetto produttivo alla terziarizzazione, accompagnata oltre che da un evidente diminuito peso dell’agricoltura anche da più o meno evidenti processi di deindustrializzazione.

La trasformazione della geografia dello sviluppo, in Italia, avvenuta in particolare negli ultimi due decenni, è dovuta, oltre che ad un intenso processo di terziarizzazione, anche ad una diversa connotazione sia quantitativa sia, soprattutto, qualitativa delle attività produttive di una fabbrica sociale generalizzata che attraverso la flessibilità aziendale determina forti processi di ridefinizione, specializzazione e diversificazione, attuando così un’imposizione ad un adattamento attivo dei nuovi soggetti del lavoro e del non lavoro alla sua tipologia e cultura organizzativa.

Gli stessi incrementi di imprenditorialità che emergono dai dati ufficiali sono causati soprattutto dallo spropositato aumento, ad esempio in Italia, di “partite IVA”. Queste nuove figure del mondo del lavoro ormai superano ampiamente i sette milioni di iscrizioni, e altro non sono che “ditte individuali”, le quali rappresentano il cosiddetto lavoro autonomo di ultima generazione. Si tratta nella maggior parte dei casi di ex lavoratori dipendenti di fatto precarizzati, non più garantiti nella continuità del lavoro, espulsi dall’impresa madre e assoggettati a una nuova forma di lavoro a cottimo, fuori dalle garanzie normative e retribuite del lavoro dipendente. Dietro l’illusione del “fai da te”, dell’”autoimprenditorialità”, della libertà economico-sociale derivante dell’autocelebrazione del farsi “imprenditori di se stessi”, troviamo sempre una nuova forma di lavoro subordinato, privo di normativa, un supersfruttamento a cottimo, con la mancanza assoluta di garanzie sociali a causa della mancanza di coperture assicurative (sanità, pensione, infortunistica, assistenza varia).

Ma dietro il tanto decantato sviluppo dell’imprenditorialità locale, l’esplosione del “popolo degli imprenditori”, che è semplicemente lavoro parasubordinato, cioè lavoro autonomo di seconda generazione, altro non c’è che un capitalismo selvaggio che crea falsi miti al fine di nascondere le proprie contraddizioni. Si provocano, così, incrementi notevoli di disoccupazione palese e invisibile, precarizzazione del lavoro, negazione delle garanzie sociali e delle regole elementari del diritto del lavoro, in un territorio che si fa fabbrica sociale, in quanto luogo di sperimentazione e affermazione delle compatibilità d’impresa.

La tabella 1 evidenzia per il 1998 l’incidenza del lavoro atipico sull’occupazione; è interessante sottolineare come i valori percentuali siano sempre molto alti per le donne rispetto agli uomini; in particolare si veda ad esempio il lavoro part-time (a fronte di un 3,4% per gli uomini vi è un 14% per le donne).

Nel corso degli ultimi anni, la composizione occupazionale ha visto una diminuzione del lavoro standard; infatti tra il 1994 e il 1999 i lavoratori a tempo indeterminato sono diminuiti dell’1,5%, costituendo, nel 1999, quasi i due terzi (61,1%) dei lavoratori; vi è stata poi una forte crescita del lavoro dipendente atipico (tra il 1994 e 1999 è cresciuto del 43,9%, anche per l’aumento del part time (+42,6%) e del lavoro temporaneo (+44,6%). (cfr. Tab. 2)

Nel 1999 si è avuta una crescita del numero dei lavoratori regolari dell’1,3%, del 9,4% per il part time, del 12,9% per il lavoro temporaneo e del 13,9% del lavoro parasubordinato (cfr. Tab. 3)

La tendenza avuta nel 1998 si conferma anche per il 1999: il lavoro part time femminile raggiunge il 15,6%; il parasubordinato il 10,5%, mentre quello a tempo determinato sempre femminile l’8,9%.

Nel 2000 gli occupati flessibili hanno rappresentato il 13.7% delle forze lavoro. Il tasso di crescita annuale dei lavoratori part-time è stato del 13,5%, con un aumento dell’occupazione complessiva dell’1,5% e dello 0,5% per il lavoro a tempo pieno. I lavoratori a termine nell’aprile 2000 erano più di un milione e mezzo, ossia circa il 10% degli occupati.

Nel 2001 il peso del lavoro a tempo parziale per le donne è stato del 16,6 per cento, con una crescita di 5,4 punti rispetto al ‘93. Per gli uomini, invece, il lavoro part-time è stato del 3,5 per cento con una incidenza doppia al Sud.

Negli anni che vanno dal 1997 al 2002 gli occupati part-time alle dipendenze aumentano in percentuale del 36%. Tale forma ha interessato in maggioranza le donne, infatti su 1.870.000 unità di lavoratori part -time nel 2002, il 75% è rappresentato da donne.

Sempre negli anni tra 1997 e il 2002, il lavoro standard, è diminuito dall’87,7% al 83,9%. (cfr. Tab.)




Negli anni tra il 1997 ed il 2000 fronte di una crescita dell’occupazione del 4,3% complessiva si è avuto un aumento dell’occupazione standard dell’1%. Il 2002 indica un modesto aumento dell’occupazione complessiva (1,5%) con una crescita dell’ occupazione standard dell’1,7% e un aumento dell’occupazione temporanea del +3,2%. Questa tendenza è confermata per il 2003 dall’ultima rilevazione Istat sulle forze di lavoro riferita al gennaio 2003.

Il lavoro indipendente, invece tra il 2000 ed il 2001 è aumentato solo dello 0,8% e nel 2002 è diminuito dello 0,3%.

I lavoratori autonomi qualificati come collaboratori coordinati e continuativi (Co.Co.Co), continuano a crescere arrivando ormai a quasi 2.400.000 [6].

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Questa forma contrattuale ha ormai occupato una parte considerevole del mercato del lavoro anche se si tratta di un tipo di contratto che non ha ancora una chiara normativa di riferimento (come ad esempio nelle collaborazioni occasionali) o alla insufficiente chiarezza e incertezza di quella presente (come nei contratti di collaborazione coordinata e continuativa).

I lavoratori coordinati e continuativi hanno elementi distintivi molto diversi tra di loro soprattutto con riguardo all’area territoriale in cui vivono, al genere, alla loro età. I Co.Co. Co non hanno in comune neppure il tipo di professione svolta, anzi al contrario svolgono lavori molto diversi. La diversità di professioni svolte fa sì che vi siano anche diversità di reddito. Basti pensare alla differenza di reddito esistente tra il pony express e l’operatrice di call center rispetto al consulente aziendale o all’amministratore di società.

Infatti dai dati risulta che i giovani rappresentano la fascia di Co.Co.Co con redditi minori (il 41% dei giovani fino a 24 anni non va oltre i 3 mila euro di reddito annui), mentre gli anziani hanno maggiori possibilità economiche in quanto spesso usano questo tipo di contratto come aggiustamento di un altro impiego o della pensione.

Dalla Tab. 10 emerge chiaramente che i lavoratori atipici al 2002 sono circa 6 milioni e rappresentano oltre il 27% degli occupati.

È interessante la tabella 11 che evidenzia i lavoratori Co.Co.Co. (nel 2002 rappresentano circa il 40% degli atipici), distinti per sesso, classi di età, titolo di studio, ripartizione geografica e settore di attività; i valori si riferiscono a gennaio 1999.

Gli occupati part-time crescono dal 1997 al 2000 del 36% anche se l’incidenza del lavoro part time sull’occupazione è inferiore alla media europea (cfr. Tab.14 per l’anno 1999).

Per quanto riguarda la composizione del lavoro part-time risulta essere l’agricoltura il settore con la più alta percentuale di lavoratori (16,3%); vi è poi il commercio (14%) e i servizi di mercato (12,2%).

Nel 2002 i lavoratori part-time a tempo indeterminato sono circa il 16% degli atipici, mentre quelli a tempo determinato sono circa il 7,5% di tutti i lavoratori atipici. È interessante rilevare che nel settore pubblico la forma di part-time più estesa è quella “fino al 50%” dell’orario standard (61%).

Nel 2002 i lavoratori part-time sono stati 1.870.000 unità, (il 75% è rappresentato da donne).

Il lavoro interinale, è stato introdotto con il Pacchetto Treu; nel 1998 erano autorizzate 34 società, nel 2000 sono arrivate a 52 unità, attualmente sono 69, con un totale di 2.114 filiali distribuite nel territorio nazionale [7].

Le imprese che si servono del lavoro interinale si trovano soprattutto nel Nord del Paese, (più del 40% nel Nord Ovest).

Va ricordato che l’utilizzo del lavoro interinale non è appannaggio delle imprese maggiori ma anzi è molto diffuso tra le imprese di piccola e media dimensione (cfr. Tab.17).

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I lavoratori interinali (nel 2002 rappresentano circa il 5% dei lavoratori atipici) sono di solito giovani, in quanto risulta da dati del Ministero del Lavoro che il 30,7% è al di sotto dei 25 anni e il 30,8% ha un’età compresa tra i 25 e i 29 anni. (Cfr. Tav. 1) [8]. Sempre fra i lavoratori atipici vanno considerati gli LSU (al 2002 sono l’1,7% degli atipici), i contratti a tempo determinato (il 18,7% degli atipici) e i PIP (Piani di Inserimento Professionale, che sono circa lo 0,3% degli atipici).

La presenza di tutte queste nuove forme di lavoro non si è accompagnata alla determinazione di nuove risorse economiche e nuovi investimenti produttivi tendenti a diminuire la disoccupazione né tanto meno a una nuova politica di welfare, in grado di assicurare adeguate coperture a tutti i lavoratori caratterizzati da lavoro discontinuo, precario e che si trovano quindi in una situazione di estremo disagio e di incertezza.

L’ISTAT nel rapporto per l’anno 2002 registra una crescita dell’occupazione (1996-2002 crescita media annua +1,2%) con un aumento maggiore del lavoro standard (+2,4%, a fronte del 2,1% del quinquennio precedente) ed una sostanziale stabilità dell’occupazione atipica (+2,1%). Per quanto riguarda invece la disoccupazione, a fronte di un tasso medio nell’UE del 7,4%, nel nostro Paese si è registrato un valore pari al 9,6% con valori molto più alti per le donne (13,1%). Sempre nel rapporto ISTAT si legge che i lavoratori “atipici”, arrivano a circa 5 milioni.

Sorprendenti i dati sugli interinali: a parte la crescita esponenziale delle missioni (+230% dal ‘99 al 2001), risulta che il 50% di loro lavora meno di 26 giorni all’anno, mentre il 7% un solo giorno. È cresciuto anche il ricorso al lavoro irregolare: dell’8,9% dal 1995 al 2000, attestandosi a un tasso del 15%. La regione dove il lavoro è più “pulito” risulta l’Emilia Romagna, quella con la percentuale più alta di irregolari la Calabria.

L’ultima rilevazione trimestrale Istat, riferita al periodo gennaio 2003, evidenzia un marcato rallentamento della crescita dell’occupazione nella seconda parte del 2002, e persino una riduzione per il Mezzogiorno.

Va rilevato, inoltre, che in aggiunta all’aumento del lavoro atipico si è avuto un mutamento nella combinazione demografica della disoccupazione in quanto negli anni tra il 1993 ed il 2002 i lavoratori adulti, ossia quelli con oltre 30 anni, in cerca di occupazione sono aumentati dal 34,7% al 49, 5%, mentre i lavoratori tra i 30 ed i 39 anni in cerca di occupazione sono aumentati dal 19,5% al 27,4%. Le maggiori difficoltà sono oggi incontrate da persone adulte che spesso si trovano in fasi di discontinuità lavorativa.

In sostanza, se si analizza l’evoluzione del lavoro atipico si può sostenere che dopo l’introduzione del Pacchetto Treu vi sia stato un periodo di utilizzo “entusiastico” di tali forme di occupazione da parte delle imprese che però hanno poi restaurato un cosiddetto equilibrio fisiologico tra forme di lavoro tipiche ed atipiche.

Comunque il nostro Paese si attesta su valori alti rispetto a quelli degli altri paesi europei per quanto riguarda l’occupazione temporanea (Italia 10,1%, Danimarca 10,2%, il Regno Unito 6,7%, l’Irlanda 4,7%, l’Austria 7,9% e Belgio 9,0%). Il lavoro part-time risulta invece essere più basso rispetto alla media europea (Italia 8,8% e 18% media europea) [9]. Va inoltre evidenziato che in Italia ci sono quasi 2 milioni di lavoratori “parasubordinati” e quasi cinque milioni di irregolari.

Si pensi inoltre che i circa 6 milioni di lavoratori atipici, che rappresentano al 2002 circa il 27% del totale occupati, sono destinati ad aumentare; infatti le previsioni parlano per fine 2003 di oltre il 30% degli occupati (nel 2002 non erano neppure il 20%). Inoltre il lavoro atipico comporta i più alti rischi di incidenti e di malattie professionali e il tasso di mortalità e di infortuni sul lavoro dei lavoratori temporanei è almeno tre volte più alto di quello dei lavoratori stabili e permanenti.

Alcune considerazioni: lavoro atipico, vita precaria!

Oggi la disoccupazione è accompagnata da una precarizzazione con sfruttamento crescente dei salariati che restano in attività. Il padronato fa del tempo di lavoro un elemento essenziale del supersfruttamento dei salari e della ridefinizione della società a partire dall’impresa, con la sua centralità anche nel vivere sociale.

I giovani, le donne, i dipendenti con mansioni meno specialistiche sono i più duramente colpiti. La riduzione dei posti di lavoro comincia a pari passo con lo sviluppo tecnologico il quale apporta plusvalore, sempre maggiore, che viene accaparrato dalle rendite finanziarie e comunque con incrementi di produttività che vanno solo a profitto e che non vengono redistribuiti in alcun modo al fattore lavoro.

Anche se si analizza il settore del lavoro regolamentato (quindi con una significativa presenza sindacale) ci si accorge che poi in realtà la differenza tra orario contrattuale e orario di fatto è molto aumentata, grande è la differenza fra diritti disciplinati per legge e diritti applicati realmente . La precarietà del diritto è una norma, così come la precarietà del salario e delle condizioni di lavoro.

Molti studi attuati sia in Europa sia negli Stati Uniti hanno evidenziato come negli ultimi decenni il problema delle “Nuove povertà” sia da imputarsi non tanto e non solo a coloro che non dispongono di un reddito o di un lavoro regolare e regolamentato ma anche e soprattutto a coloro che pur lavorando non riescono ad avere certezze dei diritti e a raggiungere una soglia minima di reddito in grado di garantire loro un adeguato livello di vita.

Anche per quanto riguarda la disoccupazione giovanile sono molti i “Rapporti di studio” che evidenziano la grave carenza di lavoro per i giovani e cosa ancora peggiore il prolungamento del periodo di precarietà fino ad oltre i 30 anni.

Da queste analisi emerge che ci troviamo in una fase di transizione ancora in via di definizione ma che presenta comunque dei connotati ben chiari all’interno della competizione globale. Si ha un aumento della produzione dei servizi su quella dei beni materiali, ma ciò avviene soprattutto con processi di esternalizzazione dei servizi e di fasi del processo produttivo a basso valore aggiunto basati su un supersfruttamento del lavoro. Un lavoro spesso attinto attraverso processi di delocalizzazione internazionali alla ricerca di forme di lavoro a scarso contenuto di diritti e a bassissimo salario; a ciò si accompagnata una forte presenza di lavori intellettuali e tecnico professionali spesso precarizzati come quelli manuali e ripetitivi.

Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono anche, e forse soprattutto, trasformazioni nell’essere e nell’interagire dei nuovi soggetti produttivi e sociali in genere, e ciò non è possibile leggerlo e interpretarlo solo attraverso analisi ancora basate sulla centralità operaia e di fabbrica e su un ruolo dello Stato ormai superato. Tali processi di trasformazione sono molto spesso ignorati, i nuovi soggetti economici non sono protetti, molto frequentemente neppure considerati, perché è predominante la cultura delle compatibilità industriale.

Un nuovo ciclo del capitalismo, un nuovo modello che a fianco all’espulsione di manodopera, alla disoccupazione che si fa strutturale, alla disoccupazione invisibile, al lavoro sommerso, nero e sottopagato, alla precarizzazione e flessibilità, crea nel contempo gli ammortizzatori del conflitto sociale attraverso le alte retribuzioni agli operai specializzati, sviluppa una aristocrazia salariata che si fa compartecipe e soggetto cogestionale. Si vengono così a realizzare false forme di democrazia economica e industriale attraverso meccanismi controllati e funzionali di cogestione, creando in modo funzionale al nuovo assetto produttivo il mito del “fai da te”, dell’autoimprenditorialità che altro non è che nuova forma del lavoro salariato.

Si giunge così a meglio comprendere perché gli assetti attuali dell’economia capitalista determinano il riposizionamento sociale di impresa in una fase di profonda ristrutturazione per effetto del quale si riduce e non aumenta, come da una lettura superficiale potrebbe sembrare, la misura del tessuto reale imprenditoriale, anzi aumentano le diverse forme del lavoro salariato, palesi o occulte, si selezionano i soggetti più deboli, meno funzionali e compatibili, e meno consolidati, si ridisegnano i modelli relazionali sociali tra le aziende e il territorio con un tendenziale rafforzamento delle logiche di darwinismo sociale. In tale contesto si osserva una prevalenza delle scelte tipiche del capitalismo selvaggio dove chi non si integra è espulso, è schiacciato dalle leggi ferree di un mercato sempre più selettivo.

Non si tratta quindi di un semplice processo di deindustrializzazione ma di una trasformazione della società che crea nuovi bisogni, di una diversa concezione della qualità dello sviluppo, della nascita di nuove attività, la maggior parte delle quali a carattere terziario e precario. Nuove attività produttive che generano, e forzano nello stesso tempo, nuovi meccanismi di crescita, di organizzazione della società e di accumulazione del capitale.

L’attuale questione economico-sociale del lavoro non è solamente connessa alla disoccupazione sempre più a carattere strutturale, bensì riguarda una serie di problemi di carattere quanti/qualitativo e quindi delle nuove figure del lavoro, del lavoro negato e del non lavoro, figure comunque tutte interne a sempre lo stesso modo di produzione capitalistico. Il problema lavoro esiste ormai anche per coloro che ne possiedono uno, dato che si lavora sempre di più ed in condizioni sempre più precarie, non tutelate, con salario sociale assoluto, e anche relativo al singolo lavoratore, sempre minore e con alti livelli di mobilità e intermittenza.

Siamo oggi davanti a una molteplicità di prestazioni lavorative tra loro diverse che però si caratterizzano per un comune livello di sfruttamento molto più penetrante di quello di venti o trenta anni fa; la nuova divisione del lavoro fa sì che vi sia una nuova composizione dei lavoratori stessi distinti tra specializzati e con maggiore conoscenza (che occupano lavori con elevata attività cognitiva), lavoratori specializzati in attività tecniche (che occupano posti flessibili di tipo esecutivo) e infine lavoratori con poche specializzazioni che occupano i posti più degradanti e servili.

Tuttavia, le tendenze attuali, con l’aumento del numero dei lavoratori salariati impegnati al di fuori della produzione materiale propriamente detta, l’aumento del numero degli impiegati, dei flessibili, dei precari, dei temporanei, degli atipici in genere, l’incremento del tasso del lavoro intellettuale, o del finto lavoratore autonomo, nella composizione dell’ “operaio collettivo”, sono ben lungi da testimoniare la “deproletarizzazione” della classe operaia, o della classe lavoratrice in genere.

L’analisi va, quindi, riportata sul piano delle nuove relazioni industriali. Si individuano così i caratteri strutturali dei sistemi produttivi locali basati sul lavoro specializzato; sull’intensificazione dei ritmi, sull’elevata divisione del lavoro, sulla spinta alla specializzazione produttiva; sulla molteplicità dei soggetti economici, di nuovi soggetti del mondo del lavoro; sulla diffusa professionalità dei lavoratori accompagnata, per i lavori più miseri, da commesse esterne con forte componente di lavoro nero e sottopagato; sulla diffusione dei rapporti faccia a faccia senza intermediazioni sindacali.

Le trasformazioni strutturali che stanno caratterizzando il sistema socio-economico sono soprattutto trasformazioni che nascono dalla continua interazione del nuovo terziario postfordista con il resto del sistema produttivo, con tutto il territorio proprio perché si tratta di trasformazioni nate dall’esigenza di ridefinizione produttiva e sociale del capitale. Per poter essere lette sono pertanto necessarie analisi fortemente disaggregate della distribuzione localizzativa delle attività da confrontare con una lettura territoriale, più squisitamente sociale e politico-economica. Le nuove figure del mercato del lavoro, i nuovi fenomeni imprenditoriali sempre più spesso si configurano in forme occulte comunque di lavoro salariato, lavoro subordinato, precarizzato, non garantito, di lavoro autonomo di ultima generazione che maschera la cruda realtà dell’espulsione dal ciclo produttivo; si tratta di nuova emarginazione sociale altro che autoimprenditorialità!

Nonostante vi siano state trasformazioni nei metodi di produzione, la crescita del lavoro autonomo, precario, sottopagato, e una sempre più vasta diffusione della fabbrica nel territorio, il lavoro continua ad essere al centro del sistema produttivo ed è quindi ancora e sempre alla classe lavoratrice che bisogna rivolgere l’attenzione per poter cercare di attuare “un altro mondo possibile!”.


[1] Cfr. http://www.myline.it/cgilkr/testi/pacchettotreu.htm

[2] Cfr. http://www.rassegna.it/2002/lavoro/articoli/848/scheda.htm

[3] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Rapporto 2003, Monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro, aprile 2003.

[4] Cfr.www.istat.it; Istat, “Lavoro flessibile e meno tutelato”, 24 maggio 2002.

[5] Cfr. Ministero del Lavoro 26 marzo 2003.

[6] Cfr., G.Altieri, C.Oteri, “Terzo Rapporto sul lavoro atipico in Italia. Verso la stabilizzazione del precariato?”, IRES-CGIL, Aprile 2003. “Il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa era già presente nel sistema giuridico italiano e fu evidenziato agli effetti fiscali già nel 1986. Nel 1993 il governo aveva fatto un primo tentativo di estendere la previdenza obbligatoria ai lavoratori parasubordinati facendoli confluire nell’Inps e assoggettandoli a una aliquota contributiva del 27%, ma fu costretto a tornare sui suoi passi.Dopo due anni la legge di riforma del sistema pensionistico (la 335 del 1995) istituì un fondo previdenziale speciale riservato ai parasubordinati, alimentato da un prelievo contributivo con un’aliquota del 10% Suddivisa tra lavoratore e committente. La situazione è stata successivamente modificata dalla legge 449 del 1997, che ha provveduto a elevare il prelievo contributivo al 13% per portarlo successivamente al 19% entro l’anno 2018. Sempre nel 1997 per i parasubordinati e i consulenti privi di altra copertura previdenziale obbligatoria è stata poi aggiunta un’ulteriore aliquota contributiva dello 0,5% destinata al finanziamento di una indennità di maternità. Nel 2000 una circolare INAIL ha obbligato alcune categorie di parasubordinati a versare un’aliquota contributiva a copertura di infortuni e malattie. Il collegato alla finanziaria del 2000 prevedeva l’assimilazione dei redditi di collaborazione dei collaboratori coordinati e continuativi a quelli dei lavoratori dipendenti e ciò sostanzialmente obbligava i datori di lavoro a compilare una busta paga. Dava inoltre, la possibilità di estendere il lavoro di collaborazione coordinata e continuativa anche a mansioni non professionali o artistiche. Di conseguenza anche attività puramente manuali o, comunque, non caratterizzate da particolari professionalità possono ora essere svolte in via di collaborazione. Da quest’anno (cfr. Circolare Inps 21 del 30 gennaio 2003) il contributo alla gestione separata si articola nelle seguenti aliquote: 10%, per i soggetti già iscritti a una gestione previdenziale obbligatoria e per i titolari di pensioni ai superstiti; 12,5% per i soggetti titolari di pensione diretta (vecchiaia e anzianità); 14% per i soggetti privi di altra copertura previdenziale obbligatoria e non pensionati”.

[7] Il Ministero del lavoro (cfr. www.minwelfare.it) a febbraio 2003 segnala che gli sportelli attivi in totale sono 2.208.

[8] Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche... op. cit.

[9] Eurostat, Labour Force Survey, 2000