Sul lavoro atipico in America Latina

Jacob Carlos Lima

La “nova informalidade” e i lavoratori: più guadagno (?), meno diritti

Considerazioni generali [1]

Nei dibattiti degli anni ’60 e ’70 il lavoro atipico era stato sinonimo del problema della disoccupazione, del lavoro dequalificato e della disoccupazione nascosta, caratteristico dei paesi periferici al sistema capitalista, o delle comunità d’emigranti nei paesi al centro del sistema. Negli anni ’80, l’aumento di questo problema, sia nella periferia sia al centro del sistema capitalista, aveva posto il dibattito in termini nuovi: il risanamento economico, la disoccupazione strutturale, il funzionamento dello Stato e la flessibilità del lavoro. Un nuovo contesto, un nuovo “regime d’accumulazione” nel quale l’informalidade sarebbe stata la risposta ai cambiamenti imposti al sistema.

Il concetto è molto ampio e forte di carica polemica, e pur avendo come obiettivo iniziale quello di spiegare le dinamiche della piccola impresa e del lavoro in proprio in paesi in via di sviluppo, include anche il lavoro nell’ambito familiare in piccoli laboratori, il lavoro nero, il lavoro sottopagato, quello in cooperative e associazioni autonome ed infine un’enormità di situazioni caratterizzate dall’assenza di contratti formali o non standardizzati. Per autori come De Soto (1986), che analizzano il caso peruviano, la presenza e il continuo crescere di questo fenomeno si rifletterebbe in una dinamica economica positiva per i paesi cosiddetti periferici: coloro che lavorano per proprio conto sarebbero considerati piccoli imprenditori in contrapposizione ad uno Stato regolatore in mani oligarchiche. Sarebbe come approssimarsi ad una condizione di distretti industriali di piccoli imprenditori, inseriti in un’economia competitiva nella quale il lavoratore avrebbe più possibilità [2].

Sotto diversi aspetti, la crescita del lavoro atipico rappresenterebbe, per eccellenza, la flessibilità nella produzione e nei rapporti di lavoro, riflettendo il risanamento economico in termini più globali: l’incorporazione dei nuovi territori allo sviluppo capitalista, la deindustrializzazione di aree tradizionali e l’industrializzazione di altre, le nuove tecnologie per la produzione e quelle per l’organizzazione, la disoccupazione strutturale e la necessità di trovare nuove opzioni per l’occupazione al di fuori dei parametri dei rapporti salariali. Informalidade significa anche lavoratori meno organizzati, con minor potere contrattuale, ma maggior “guadagno” (?), ossia la possibilità, in questo modo, di un minor controllo del capitale sulla fornitura del lavoro e di una maggiore quantità di nuovi investimenti in una regione o nell’intero paese. Tendenzialmente ciò risponderebbe sia alle necessità dettate dalla competizione mondiale e dai rapidi mutamenti, frutto dell’impiego di nuove tecnologie per la produzione, sia alla ricerca incessante da parte delle imprese della riduzione dei costi [3].

In una distinta prospettiva ideologica, sindacati, ong e movimenti sociali propongono il recupero di varianti di lavoro atipico, tra cui le cooperative, come soluzione all’aumento dello sfruttamento del lavoro e dell’impiego, dove il lavoratore è proprietario dei mezzi della produzione e l’inserimento nel mercato del lavoro è facilitato in maniera non defraudante. Nel frattempo, in un quadro caratterizzato dalle cosiddette imprese rete con produzione affidata a terzi, rimane discutibile sia l’autonomia delle attività delle cooperative, la cui dipendenza è provocata dalla sottocontrattazione, sia il carattere di non sfruttamento di questo rapporto di lavoro.

Lontano dall’essere qualcosa di nuovo, l’informalidade nella produzione e la sottocontrattazione, sono sempre stati presenti nel capitalismo industriale. Sono mutati però il modello produttivo e il rapporto salariale formale che, nel secolo XX attraverso la regolamentazione statale dei mercati e dei rapporti di lavoro, avevano fatto proprio il risultato delle rivendicazioni e le lotte del movimento operaio e sindacale. La nozione di “impiego” vincolata ai diritti sociali di base è indebolita e sostituita dal corollario neoliberale della libertà di mercato. L’informalidade recupera i rapporti d’assunzione pre-regolamentazione, poiché la formalizzazione e i diritti del lavoro diventano progressivamente un’eccezione che riguarda gruppi di lavoratori organizzati e con potere contrattuale, vincolati a grandi imprese e allo Stato, ma non coinvolge la maggior parte dei lavoratori.

L’affidamento della produzione a terzi è uno degli elementi di questo processo, in cui le imprese “primarie”, per eliminare il costo della forza lavoro, trasferiscono ad altre imprese i settori produttivi a lavoro intensivo. Così si moltiplicano le aziende che lavorano in condizione di sottocontratto o che si specializzano nel fornire lavoratori ad altre imprese. In questa nuova dimensione sono inclusi non soltanto coloro che lavorano a casa nella rifinitura di prodotti industrializzati (come per esempio le sarte), ma anche lavoratori, altamente qualificati, che svolgono la loro attività nei servizi lavorando come “consulenti” sui propri terminali di casa ed utilizzando internet per mettersi in contatto con le imprese. In questa maniera, l’informalidade cresce non solo tra i lavoratori poco istruiti e poco qualificati, ma anche tra i lavoratori altamente qualificati integrati a livelli medi d’impiego.

Neanche l’impiego pubblico è rimasto immune dal periodo della flessibilità. Se prima era una garanzia d’impiego formale [4], stabile e d’osservanza dei diritti, ora si passa sempre di più ad utilizzare la logica di mercato come garanzia d’efficienza delle politiche pubbliche, attraverso contratti temporanei o addirittura senza alcun contratto, eliminando la figura del funzionario e limitando le possibilità di carriera.

Informalidade e flessibilità [5] si confondono pur essendo concetti distinti. Flessibilità nel lavoro significa riduzione della regolamentazione statale sul mercato del lavoro e liberalizzazione di questo. I contratti sono realizzati tra impiegati e datori di lavoro ed i giorni lavorativi, i benefici e gli orari, sono negoziati direttamente tra le parti. Si riducono i contratti a tempo indeterminato e si sostituiscono con contratti temporanei, part-time e a paga ridotta, oppure, attraverso contratti ridotti, si trasferisce ad altre imprese la gestione della forza lavoro. Questo significa tendenzialmente una maggiore richiesta di qualifiche e d’istruzione e un’intensificazione del lavoro non specializzato e multifunzionale. Questo riguarda indifferentemente lavoratori qualificati e non, dove i primi riescono a beneficiare della flessibilità, mentre per i secondi la precarietà è la conseguenza più evidente. L’informalidade, a sua volta, va oltre la regolamentazione del mercato del lavoro o la sfiora soltanto.

Una delle tesi favorevoli alla flessibilità nel rapporto di lavoro afferma che il lavoratore ne otterrebbe maggior guadagno. Questo perché il lavoratore, eliminando le tasse e i contributi relativi agli oneri sociali, li percepirebbe come parte dei propri guadagni. In alcuni casi questo avviene veramente, così che il lavoratore è obbligato ad essere responsabile del pagamento degli oneri sociali per assicurarsi l’accesso ai servizi base sulla salute, sulla previdenza sociale e su altri benefici. Ma spesso, poiché questo non ha un salario fisso e dipende dalla propria capacità produttiva, si preoccupa raramente degli oneri sociali. Così un maggior guadagno può significare un minore accesso a benefici legati ad un rapporto salariale formale, come la certezza di un salario in caso di malattia, il pensionamento, e le ferie remunerate.

La questione salariale sta al centro del dibattito sulla flessibilità e l’informalidade è una delle sue tendenze. Nel frattempo la questione rimane complessa e si evolve in una miriade di situazioni in cui la particolarità del lavoro o del servizio prestato comporta una percezione diversa, da parte dei lavoratori, dei diritti sociali e del loro vincolo al lavoro.

Il nostro obiettivo in questo testo è di analizzare alcune situazioni di lavoro nelle quali flessibilità e informalidade vanno di pari passo, nonostante le differenze storiche, nella loro forma e nei loro obiettivi. Presenteremo tre situazioni tipicamente rappresentative del nuovo, ma neanche troppo, contesto lavorativo atipico, qui inteso come lavoro non standardizzato, non regolare, e flessibile, all’interno di un insieme di possibilità considerate come opzioni all’impiego formale, regolare, e salariato: a) un’area tradizionale di produzione d’indumenti all’interno della zona di Parnambuco; b) cooperative di produzione industriale organizzate dallo Stato nel Ceará; e c) il lavoro temporaneo per lo Stato, di assistenti sociali della salute nel Ceará e nel Paraíba. Queste tre situazioni, non necessariamente nuove, riflettono il cambiamento nel mondo del lavoro all’interno del modello della flessibilità, permettendo, in gran misura, di comprenderne la complessità e le conseguenze sui protagonisti sociali coinvolti, evidenziando le varie sfumature della loro percezione dell’assunzione e dei loro diritti [6]. Non si tratta di verificare da dove è venuto l’impiego, dato che si tratta di una regione nella quale è stato sempre scarso, quanto invece di svelare le forme utilizzate per dribblare la sua scarsezza o le soluzioni implementate per sopperire alla sua assenza.

1. L’informalidade nell’area tradizionale - Caruaru, Santa Cruz do Capibaribe e Toritama nel Pernambuco

Lo studio sull’informalidade nell’America Latina e nel Terzo mondo in generale è stato vincolata al processo di urbanizzazione accelerata di città, capitali nazionali, statali e provinciali e all’emarginazione scaturita dal processo di urbanizzazione senza industrializzazione. Quest’emarginazione, è stata in seguito considerata come inerente al sistema e come parte necessaria di quell’esercito di riserva che garantiva il basso costo del lavoro e il riciclo della forza lavoro.

Nel caso analizzato abbiamo una situazione, se non opposta quantomeno differente alla tendenza dell’urbanizzazione delle grandi città. Si tratta di tre città situate nella regione del Brasile dell’Agreste del Pernambuco a una distanza di circa 136-160 Km da Recife, una delle maggiori capitali del nordest: Caruaru con approssimativamente 230.000 abitanti, la seconda città dello Stato fuori della regione metropolitana, Santa Cruz do Capibaribe con 59.000 e Toritama con 18.931.

Attualmente nelle tre città sono concentrate il 53% delle aziende produttrici di abbigliamento dello Stato, sebbene formalmente il 45% delle imprese sono situate a Recife e circa il 28% nella regione dell’Agreste (Donhert, 1998).

La regione è conosciuta per il mercato della sulanca nel quale si vendono i prodotti fabbricati localmente dalle imprese situate nell’area. Il termine sulanca, composto dall’unione delle parole sul e helanca, ha origine dai negozianti locali che vendevano a Recife, negli anni ’40 e ’50, carne essiccata, pollame, formaggio e carbone e portavano nella città di Santa Cruz do Capibaribe ritagli di tessuto cuciti dalle donne come biancheria intima, abiti per bambini, shorts e patchwork. Recife e i suoi dintorni era, in quell’epoca, il principale polo tessile del nordest.

A partire dagli anni ’60, alcuni camionisti avevano iniziato a recarsi a S. Paulo con l’helanca, un tessuto di maglia sintetica, introdotto nelle fabbriche pauliste. L’helanca, che era di moda in questo periodo, era comperata direttamente dalle punte di stocco, portata a Santa Cruz, trasformata in indumenti a buon mercato e venduta in città. Nel 1969, era stato creato un mercato settimanale nel quale questo prodotto era messo in commercio. La buona richiesta incoraggiò gli altri produttori e la città si specializzò nella produzione di maglieria.

Negli anni ’70, con l’apertura di banche nella città e la possibilità di ottenere prestiti per l’acquisto di macchinari elettrici per la tessitura, si era moltiplicato il numero di piccoli produttori ed era aumentata la domanda da parte di tutta la regione, attratta dai prezzi bassi. Nel 1979 con l’asfaltatura della strada Caruaru-Santa Cruz, il mercato comincia ad attirare un numero crescente di compratori.

Toritama, città vicina a Santa Cruz, negli anni ’70 contava approssimativamente 100 piccole industrie calzaturiere che davano lavoro a circa il 50% della popolazione (Bezerra Soares, 2000). I terreni pietrosi della regione non favorivano l’agricoltura, limitata a prodotti di sussistenza. Con l’aumento del prezzo del cuoio negli anni ’80 la sua produzione era entrata in crisi ed era stata sostituita dalla produzione di jeans, traendo vantaggio dalle già presenti macchine per la tessitura. Prodotto in numerosi fabricos e gruppi di produzione, il jeans cominciava ad essere venduto sul mercato di Santa Cruz e nella fiera che si svolgeva in città.

La produzione di Santa Cruz e Toritama era venduta nella cosiddetta “Fiera da Sulanca” di Caruaru (il lunedì sera e il martedì mattina) durante il giorno di festa della città, di Santa Cruz (lunedì mattina e mercoledì) e in quella di Toritama il martedì, sul bordo della strada rotabile che collegava Caruaru a Santa Cruz. Il termine sulanca era divenuto sinonimo d’abbigliamento a basso prezzo e di bassa qualità.

La produzione è praticamente tutta legata al lavoro atipico, infatti quasi il 90% di questo è fornito senza contratto da piccole fabbriche ricavate in fondo ai cortili: i fabricos, generalmente un prolungamento della residenza del proprietario. Con la crescita della domanda e della produzione ne erano state aperte in numero sempre più grande. A Santa Cruz si stimava la presenza di 3.000/3.500 piccole imprese a lavoro atipico che impiegavano 25.000 persone (Dohnert: 1998) e 100 di dimensioni più grandi. Il mercato contava 20.000 venditori ambulanti e 6.000 bancarelle, poiché aveva attratto i grandi grossisti di tessuti che avevano finito con lo stabilirsi in città. La produzione della città forniva abbigliamento confezionato alla regione e allo stesso tempo alle catene nazionali di negozi che avevano cominciato a comperare la produzione locale di biancheria intima. Oltre a questo, raccoglieva le eventuali richieste fuori periodo per la produzione di costumi per il carnevale, per le campagne elettorali, ecc.

A Toritama, circa 3.000 fabricos e 60 lavanderie producevano 300.000 capi di jeans a settimana. Circa il 90% della popolazione viveva di cucito. Oltre alle sarte, ai venditori, e ai proprietari di muli per il trasporto delle mercanzie, componevano il contingente di lavoratori locali, gli abitanti, non solo della città, ma anche delle città vicine, che con l’autobus andavano giornalmente a Santa Cruz e a Toritama. Insieme, consumavano l’8% della produzione nazionale di jeans (Exame 07.02.2001).

Le due città avevano raggiunto la “piena” occupazione e i guadagni dei lavoratori, nella maggior parte, superavano il salario minimo. Rispetto al periodo, le sarte riuscivano a guadagnare approssimativamente fino a tre salari [7].

Nonostante questa crescita, tuttavia le città non possedevano sistemi di depurazione, di raccolta dei rifiuti, e di fornitura regolare d’acqua. L’acqua usata nelle lavanderie era riversata direttamente nell’ambiente insieme alla spazzatura e all’acqua dei canali di scolo domestici. Questa mancanza di infrastrutture insieme al ristretto accesso al finanziamento pubblico è stato considerato tra i principali ostacoli all’espansione del raggio d’affari della regione.

Nel 1995, Santa Cruz e Toritama sono entrate in crisi a causa della concorrenza dei prodotti asiatici e della fama del sulanca come merce di bassa qualità. Da questo momento in poi viene fatto uno sforzo per rendere il lavoro più formale, allo scopo di amministrare meglio i mercati e la loro espansione.

Per i lavoratori, in maggioranza donne, la tendenza, finora limitata, al contratto formale e all’iscrizione al collocamento, è vista con timore. Come prima cosa si teme una riduzione del guadagno. Guadagnando in base alla quantità prodotta, si ha paura che, con l’iscrizione al collocamento, si riceva solo quanto stabilito dal contratto, escludendo il carattere stagionale di certi guadagni. L’esitazione delle lavoratrici, che sono nella condizione di impiantare un loro fabrico o di dare inizio ad un loro proprio gruppo di lavoro, considerato il relativo basso costo d’entrata nel settore e l’opportunità di diventare proprietarie o di quelle che diventando indipendenti lavorano a casa su commessa per i fabricos e gli atêlies della città o di quelle che da operaie irregolari o regolari lavorano nei fabricos o nelle fabbriche, è legata alla paura di tornare ad una situazione salariale poco attraente. Il rapporto salariale e i diritti sociali sono visti positivamente, ma non costituiscono un motivo di rivendicazione. Poiché si tratta in maggioranza di donne, queste considerano i loro guadagni come complementari a quelli del marito, anche nel caso in cui questi siano più elevati o addirittura gli unici certi in casa. Nel caso in cui sono senza marito il gruppo famigliare ne garantisce la sussistenza. Predomina una cultura locale di piccoli produttori indipendenti che vendono la loro produzione direttamente nei mercati a compratori di vari luoghi, potendo raggiungere guadagni relativamente elevati, in qualunque periodo dell’anno [8].-----

Questa situazione fa in modo che non esista alcuna attività sindacale in queste città. Sia che si tratti di salariati con contratto o senza, produttori-venditori, gruppi organizzati o semplici venditori, questi lavoratori non possiedono un’identità professionale ben definita. Si pongono fin dall’inizio come lavoratori flessibili. Possono essere allo stesso tempo sarte, proprietari, commercianti, trasportatori con guadagni e orari di lavoro variabili. Possono dormire nel posto di lavoro, lavorare nel fine settimana o rimanere senza guadagnare niente per lunghi periodi. Non hanno diritto a periodi di ferie, riposo remunerato, tredicesima o pensione. Ogni contratto è negoziato direttamente con il padrone che a volte è un membro stesso della famiglia.

Il paradosso della situazione nell’area è la tendenza alla formalizzazione e all’assunzione, mentre l’informalidade continua ancora a compromettere l’espansione degli affari. La maggiore competizione arrivata con le importazioni e con altre forme di riduzione dei costi, aveva richiesto nuove tecnologie e nuove forme d’organizzazione della produzione e nuove competenze dei lavoratori. Nel frattempo la maggior parte dei lavoratori aveva continuato nell’informalidade, passando non tanto dalla condizione formale a quella informale, quanto da quella di sarta autonoma o stipendiata con basso ingaggio a quella di proprietaria e venditrice o anche entrambe in una circolarità continua, frutto della crisi che a volte minacciava, a volte sosteneva e a volte espandeva la produzione locale.

2. Le cooperative della produzione locale

La “nuova” informalidade sembra avere una forma diversa attraverso la flessibilità. In questo modo abbiamo sia un ritorno al lavoro domestico, il cosiddetto lavoro girato a terzi per contingenza (Abreu), nel quale le lavoratrici utilizzano le proprie attrezzature sostenendone le spese, come l’acqua e la luce, sia un recupero d’altre forme di rapporto di lavoro, prodotto di contesti storici differenti, come le cooperative di lavoro.

Le cooperative di lavoro, in una prospettiva più recente, sono state fortemente incentivate tanto dalle organizzazioni sindacali, dalle ong e dagli organismi internazionali, quanto dalle imprese e dagli organi statali. Sono le cosiddette cooperative pragmatiche o strumentali, in gran parte senza compromesso con ideali di cooperazione e per lo più rivolte ad obiettivi specifici, sia nell’affrontare la disoccupazione strutturale e la generazione del reddito, sia nella riduzione dei costi della gestione della forza lavoro per le imprese (Comforth and Thomas, 1990; Comforth, 1995).

Questi problemi, non sono proprio nuovi, essendo stati evidenziati, sin dalla fine del secolo passato, con o senza successo, dal movimento operaio e dalla letteratura specializzata sull’esperienza delle cooperative:

2.1. La questione dell’autonomia. Quando organizzata dai sindacati o dalle organizzazioni dei lavoratori, l’autonomia è vincolata al successo dell’impresa. Tradizionalmente questo successo ha significato, con qualche eccezione, l’assunzione di lavoratori stipendiati e, progressivamente, la trasformazione della cooperativa in impresa comune, con un numero ristretto di soci-proprietari. La questione è presente nella genesi del movimento delle cooperative, conosciuta come “teoria della degenerazione delle cooperative”  [9], nella quale il successo della loro attività le trasformava in imprese comuni poco coinvolte negli ideali tipici delle cooperative e distanti dagli obiettivi di cooperativismo autonomo dei lavoratori o di democrazia nel luogo di lavoro. Quando lo Stato è l’organizzatore le cooperative finiscono per diventare dipendenti dai condizionamenti della politica e con l’essere acquistate dallo Stato stesso o da altre imprese ad esse legate.

2.2. Continuità e cultura operaia. Le cooperative crescono di numero nei periodi di crisi, e tendono a diminuire quando la situazione economica migliora e aumenta il numero dei posti di lavoro. Il lavoratore finisce per preferire la “sicurezza” rappresentata dal lavoro stipendiato, per quanto virtuale che sia, e abbandona la cooperativa. Minori guadagni, “meno” diritti e maggior responsabilità sulla produttività finiscono per demotivare il lavoratore.

2.3. Il lavoro collettivo associato nel capitalismo. Come alternativa all’interno di un sistema capitalista, la creazione di lavoro e di guadagni collettivi hanno un basso richiamo ideologico, soprattutto se vincolati a proposte politiche più ampie.

2.4. La creazione di cooperative d’imprese per la riduzione dei costi di produzione. L’impresa “incentiva” o ugualmente organizza le cooperative al fine di renderle estranee alla produzione. In questo caso l’impresa mantiene il controllo assoluto sulla “cooperativa”, che finisce con il diventare come un ramo d’azienda, ed il lavoro associato a questa rimane solo una forma d’impiego nascosto che permette all’impresa di evitare di pagare gli oneri sociali.

2.5. La creazione di cooperative per le Organizzazioni Internazionali rivolte allo sviluppo autonomo della comunità in una prospettiva d’associazionismo. Gran parte dei progetti, vincolati alla generazione del reddito, non danno credito sia al mercato sia alla cultura locale.

2.6. Esternazione dei soggetti organizzatori. Raramente l’organizzazione è degli stessi lavoratori e si adatta alla situazione congiunturale.

A partire dagli anni ’70, con la ripresa dell’economia mondiale, la rivoluzione tecnologica e la crescita della disoccupazione strutturale, in America Latina, non solo quindi in Brasile, le cooperative sono state nuovamente indicate come mezzo per uscire dalla crisi dell’impiego e dall’abuso stesso dello sfruttamento del lavoro, rappresentato dalla riduzione degli impieghi con contratto formale e dal diffondersi di forme di contratti di lavoro precari o addirittura inesistenti.

Sono state create diverse cooperative da più soggetti affinché funzionassero come centri di produzione esterni per imprese operanti nei più disparati settori. Ciò che si vuole mettere in evidenza in questo contesto è l’esperienza delle cooperative per la produzione industriale del settore dell’abbigliamento (abiti e scarpe), organizzate nel Ceará e in diversi stati del nordest, che hanno operato come imprese subappaltatrici per aziende locali e del sud-sud-est del paese, nel periodo che va dal 1994 al 2000.

Questa esperienza è iniziata con un programma implementato dal governo del Ceará per attrarre investimenti industriali e per la produzione interna. Il programma prevedeva l’organizzazione, da parte dello Stato, di cooperative dislocate in diverse città dell’interno che avrebbero lavorato con imprese associate selezionate dal governo. Edifici e infrastrutture dovevano essere forniti dallo Stato con il finanziamento del PROGER e di altri programmi federali e statali. Inoltre erano stati creati centri di formazione per i lavoratori. La possibilità di guadagnare un salario minimo legato alla produttività era allettante o per lo meno sufficiente ad attrarre quei migliaia di lavoratori che avevano già iniziato ad iscriversi alle cooperative [10].

Il funzionamento stabile delle cooperative dipendeva dalla continuità dei contratti imprese-cooperative. Dove ciò avveniva, i guadagni erano stabili e le città sede ne beneficiavano per l’aumento delle entrate risultanti dall’incremento dei consumi. I lavoratori prima occupati in attività di sussistenza o le donne che non avevano mai avuto un “lavoro” esterno, si andavano specializzando nella sartoria industriale.

Il programma è stato però interrotto a cominciare dal suo principale progetto. Un immenso progetto che comprendeva un’impresa, per la produzione d’abbigliamento, costituita da investitori di Taiwan e da 15 cooperative in subappalto, gestite da questa stessa. Per problemi di gestione, le commesse hanno iniziato a scarseggiare compromettendo il funzionamento delle cooperative e i salari delle lavoratrici. Queste hanno cominciato ad uscire dalle cooperative ed a rivolgersi alla giustizia denunciando assunzioni mascherate. Sindacato e Chiesa appoggiavano le lavoratrici che per alcuni mesi non avevano guadagnato nulla. Progressivamente le cooperative sono state chiuse. L’impresa manteneva supervisori nelle cooperative che gestivano, di fatto, il loro funzionamento. Le direzioni delle cooperative funzionavano invece come mediatrici tra l’impresa e i lavoratori.

Oltre a questo progetto ve ne sono stati altri, nel settore delle calzature, organizzati in grandi unità, che hanno funzionato con maggior continuità fino alla svalutazione della moneta nel 1999. Con la crisi, alcune imprese hanno sospeso le commesse e le cooperative in pratica sono state costrette a chiudere. Altre, sono state nuovamente attivate con l’intervento dalla giustizia e obbligate ad assumere i lavoratori.

Queste cooperative avevano in comune il controllo del lavoro effettuato dalle imprese, sebbene l’onere di gestione - allontanamento dei soci, misure disciplinari e altro - fosse di competenza della direzione della cooperativa, eletta tra i lavoratori considerati più capaci oppure assunti a questo scopo.

L’identificazione con l’impresa era completa, raramente il lavoratore capiva il significato della cooperativa. Fino a quando i salari erano pagati regolarmente, nonostante problemi di rapporto e di condizioni di lavoro, e per paura di perdere il posto, le rivendicazioni erano contenute. Nel frattempo, le denuncie contro le cooperative andavano crescendo e obbligavano il governo dello Stato a ritirare il sostegno al progetto e gli incentivi alle nuove cooperative. Ascoltati sulla loro opinione riguardo alle cooperative, i lavoratori rispondevano che tutto andava bene, sia quando avevano un salario mensile (in condizioni di stabilità) sia quando erano consapevoli dell’inganno (in mancanza di condizioni di stabilità). Ma tutti sostenevano che l’unica differenza tra le cooperative e le imprese era che nelle prime non avevano alcun diritto. Erano, quindi, lontano dall’ideale di lavoro collettivo e autonomo. Vedevano il lavoro nelle cooperative come una possibilità per non dover emigrare nella capitale o nel sud del paese, poiché avevano un’occupazione remunerata, o come un trampolino per un impiego in una fabbrica.

Qui abbiamo una situazione che, in alcuni casi è simile in altri diversa da quella delle sarte di Santa Cruz do Capibariba e Toritama em Pernambuco. Per loro infatti la questione dell’autonomia si contrappose alla prospettiva dell’assunzione, mentre per i lavoratori della cooperativa del Ceará l’assunzione è vista come un obiettivo da dover raggiungere. Il cluster pernambucano funziona da più di 30 anni nell’informalidade e predomina la cultura della “autonomia” dei piccoli produttori.

Le cooperative sono imposte dalla politica statale per la generazione del reddito e per la riduzione dei costi necessari ad attrarre le imprese. Le cooperative funzionano come una specie d’accumulo primitivo del capitale, per creare lavoro collettivo ma non solidale o autonomo. I lavoratori senza alcun’esperienza di lavoro salariato sono trasformati in associati, non avendo però coscienza del fatto che ciò significa soltanto una forma differente di rapporto salariale, in completa assenza di contratto e di diritti. Assunzioni mascherate o rese flessibili dalla completa perdita di diritti.

3. Lavoro temporaneo per lo Stato: gli Assistenti Sociali della Salute

Il risanamento economico degli anni ’80 è stato accompagnato dall’ideale neo-liberale che ha lasciato la sua impronta nelle riforme, o per lo meno nei tentativi di riforma, dello Stato brasiliano come: abbattimento delle spese sociali, pareggiamento dei conti pubblici, riduzione del funzionalismo (la classe degli statali), privatizzazione e decentramento. Le riforme riguardano in maniera differente il capitale e il lavoro. Per quanto riguarda il capitale, nel momento in cui questo si allontana direttamente dal sistema produttivo, lo Stato continua a garantire la sua rigenerazione attraverso un apparato di leggi, infrastrutture e politiche d’incentivo, che mutano il criterio d’impiego ma ne mantengono il contenuto; nel caso del lavoro, invece, il suo costo è visto come oneroso e responsabile, in gran misura, del deficit dei conti pubblici. A ciò si aggiunge il discorso imprenditoriale sulla riduzione dei costi, sulla produttività e sulla gestione nel nome della qualità e dell’efficacia del servizio pubblico.

Non pretendiamo d’entrare in merito all’azione dello Stato e alle sue contraddizioni nella fase attuale che sta vivendo il capitalismo, in particolare in America Latina, ed evidenziare l’adozione di politiche flessibili nel concludere contratti con i lavoratori per l’implementazione delle politiche pubbliche. Differentemente da quanto accade nel caso delle cooperative presentato precedentemente, nel quale lo Stato prima si poneva come intermediatore nel rapporto tra imprese e lavoratori attraverso l’organizzazione di cooperative e in seguito se n’estraniava, presentiamo una situazione di permanente esitazione della politica sociale, evidenziando nuove variabili presenti nell’organizzazione del lavoro. Pertanto faremo una breve descrizione della sua introduzione nel Ceará e dell’analisi che designava il lavoro flessibile come uno degli elementi di successo del Programma.

Nel 1987, un nuovo gruppo politico era salito al governo dello Stato del Ceará. Conosciuto come “giovani imprenditori”, pretendeva di cambiare la facciata oligarchica del potere dello Stato con una politica riformista in accordo con le mutazioni socio-economiche in corso in quel periodo. Con una politica aggressiva nell’attirare investimenti nell’industria e con la riforma dell’apparato sociale, oltre a politiche settoriali nell’area della sanità pubblica, in quella del turismo ed in altre, aveva ottenuto un forte appoggio dalla popolazione che gli garantiva una continuità amministrativa, messa in evidenza da quattro amministrazioni consecutive, di cui tre con lo stesso governatore.

Il nuovo governo cearense, aveva attuato la riforma dell’apparato statale eliminando alcune cariche e funzionari fantasma, tagliando incarichi, proibendo nuove assunzioni e cominciando ad utilizzare il contratto temporaneo di lavoro sin dai primi successi di quella politica nata dalla situazione d’emergenza causata dalla siccità che colpiva lo Stato.

Prima di continuare, è necessario aprire una parentesi: così come attività informale, il lavoro associato in cooperative di produzione ed il lavoro temporaneo per lo Stato, non sono una novità dei tempi della flessibilità. In Brasile, lo Stato aveva utilizzato sempre contratti temporanei in settori come la sanità e l’educazione, per risanare la carenza di concorsi pubblici che non erano mai indetti. Negli anni ’70 e ’80, per citare appena un esempio, il governo dello Stato di San Paolo in Brasile utilizzava migliaia di professori con contratto temporaneo per coprire le sostituzioni per permessi, o semplicemente per mancanza di professori vincitori di concorsi. L’innovazione è a carico del contesto. Ma il contratto temporaneo non è accompagnato dalla prospettiva di un futuro concorso pubblico o da quella di una certa stabilità.

Pensando inizialmente di attenuare gli allarmanti indici di mortalità infantile che gravavano sullo Stato, oltre all’abituale miseria per la continua siccità, il Programma si caratterizzava per un forte decentramento delle attività e al contempo per il mantenimento del controllo centrale da parte della Secretaria Estadual de Saúde. Era stato preceduto da una campagna pubblicitaria che evidenziava il carattere opzionale dell’adesione dei municipi, ma che funzionava, allo stesso tempo, come pressione verso l’adesione dei sindaci. Questo perché la sua organizzazione non interessava politicamente i sindaci considerando che: la segreteria selezionava gli assistenti per i municipi; persone della comunità che avrebbero ricevuto un addestramento per l’insegnamento di nozioni base sull’igiene e sulla salute della popolazione. Ogni assistente sociale sarebbe stato responsabile da 100 a 150 famiglie le quali, a seconda del luogo, avrebbe potuto rappresentare un numero elevato d’impieghi diretti. Nel frattempo, questa selezione sfuggiva ai sindaci, così come il pagamento di questi assistenti che avrebbero dovuto ricevere un salario minimo direttamente dalla segreteria della Sanità. La contropartita dei municipi stava nell’assunzione di un’infermiera che doveva essere pagata dal comune e che sarebbe stata responsabile del controllo del lavoro degli assistenti. Anche l’infermiera era preparata dalla segreteria di Stato e godeva d’autonomia nell’implementazione d’attività considerate necessarie al municipio.

La selezione e l’addestramento degli assistenti avveniva nel comune nel quale il lavoratore viveva, e per questo giovava della conoscenza della vita locale nel fornire il servizio d’informazione sulle cure basilari per l’igiene dei neonati. Questi assistenti avrebbero ricevuto un salario minimo ed erano obbligati a visitare mensilmente un determinato numero di persone nella loro area. L’ampia propaganda sul servizio forniva un elemento di maggior controllo: la famiglia che non avesse ricevuto la visita avrebbe potuto sporgere un reclamo all’infermiera coordinatrice. Dall’altro lato, il lavoro dell’assistente assumeva un carattere fortemente comune: in aree estremamente carenti rappresentava, attraverso le uniformi degli assistenti e l’esecuzione di un servizio pubblico, la visione della presenza dello Stato.-----

Alla fine dell’emergenza il programma non era stato disattivato ma al contrario incrementato. Nel 1993 il governo dello Stato, grazie a tale programma, aveva ricevuto un premio dall’UNICEF per la riduzione dell’indice della mortalità. Nello stesso anno era stato assimilato dal Ministero della Salute e aveva iniziato, attraverso il PAS (Programma de Saúde da Família do Ministério da Saúde), ad essere utilizzato in altri Stati della federazione [11].

Tra gli elementi considerati responsabili del successo del programma Tendler (1997) evidenzia la flessibilità del contratto di lavoro. Questa flessibilità avrebbe eliminato la pesante ed inefficiente burocrazia creata per i funzionari pubblici con poca dedizione, demotivati, non soddisfatti ed insicuri. Gli assistenti, in loro maggioranza donne senza altra principale occupazione remunerata, amministravano la loro attività in modo da poter conciliare quella domestica con il lavoro di assistente, con l’obbligo però di visitare un determinato numero di famiglie al mese. La selezione universale, così come l’addestramento ricevuto, è l’altro elemento considerato positivo per evitare il patrocinio politico. Secondo Tendler (1997), avrebbe ottenuto risultati positivi dagli assistenti che, perseguito un mutamento di status nella città, avrebbero assunto la leadership nella prestazione di soccorso ad una popolazione con molte carenze e avrebbero rappresentato, in una certa maniera, lo Stato stesso. Nella sua analisi, Tendler introduce indirettamente l’importanza della rete sociale, del capital social, nello svolgimento di mansioni attraverso la conoscenza e il controllo della comunità.

L’effetto positivo di questa politica, nel frattempo era, e lo è tuttora vincolato alla saldezza della proposta governativa che è ciò che ha permesso la sua implementazione in tutto il paese con risultati soddisfacenti. Questo non significa che nel frattempo il suo funzionamento non abbia avuto problemi.

Il modello adottato a livello nazionale, recupera il programma cearense ampliandone la sua attuazione. Gli assistenti sociali ricevono un salario minimo come anticipo o “borsa” fino a quando pochi comuni sostengono contratti di lavoro. Le loro attività includono informazioni sulle cure base per l’igiene e la salute, la vaccinazione e i controlli per la tubercolosi e per la lebbra, la salute delle donne, la salute orale e il diabete. Sono aggiornati periodicamente e non possono fare attività politica. L’allontanamento dall’attività per non aver svolto le proprie mansioni o per altri motivi può essere decisa soltanto dal Conselhos Municipais de Saúde, al fine di eliminare in gran misura ogni interferenza da parte dei politici locali. Una situazione simile accade nelle assunzioni: la mancanza dell’interferenza della segreteria municipale della salute diminuiva l’influenza del potere locale. Il processo di selezione avviene territorialmente. Il municipio sollecita la segreteria dello Stato che organizza la selezione. Gli assistenti devono risiedere nell’area immediatamente circostante a quella in cui operano. Il supporto finanziario passa attraverso il municipio ma è direttamente vincolato al programma. La non realizzazione degli obiettivi implica la sospensione dei finanziamenti. Quando questo succede gli assistenti rimangono senza paga.

Il governo federale ha proposto ai municipi le seguenti opzioni per l’assunzione degli assistenti che, in casi come quello di Ceará, si trovavano da più di 10 anni con contratti temporanei, senza alcun contratto o con appena un termine d’adesione al programma:

a) assunzione con CLT (Contratto di lavoro temporaneo)

b) assunzione attraverso le ONG o gli OCIPS (Organizações da Sociedade Civil de Interesse Público )

c) cooperative di lavoro

d) contratto temporaneo

e) concorso pubblico

Nonostante l’esistenza di queste possibilità, il concorso pubblico s’imbatte nella questione delle buste paga dei municipi, creando nuove riduzioni proprio ai finanziamenti federali. Poiché ogni agente si prende cura di 100/150 famiglie, dipendendo dal municipio, questo numero rimane troppo alto. João Pessoa, nel Paraiba, possiede 280 assistenti e sono approssimativamente 5000 in tutto lo Stato. Ciò comporterebbe l’assunzione di 5000 nuovi funzionari pubblici. Il contratto tipo CLT rappresenterebbe un problema simile.

Il concorso pubblico, inoltre, non incontra soltanto l’opposizione delle giunte municipali. Le organizzazioni di rappresentanza degl’infermieri sono decisamente contrarie, sostenendo che l’assistente non ha formazione specifica in materia, nonostante i corsi di formazione, e che sarebbe una minaccia per gli infermieri professionisti.

Senza entrare in merito alle politiche adottate, l’inesistenza, nella maggior parte dei casi, di un contratto di lavoro non compensa il coinvolgimento nella comunità degli assistenti. Questo coinvolgimento si è mostrato funzionale nell’esecuzione delle mansioni programmate e come mezzo di controllo sociale, mentre non ha eliminato la rivendicazione dei diritti da parte dei lavoratori. Associazione d’assistenti si sono formate in tutto il paese rivendicando un contratto di lavoro dopo aver lavorato per anni senza. In vari Stati esistono già proposte, ma non includono nessun contratto a tempo indeterminato e certo. La maggior parte sono contemplati nell’ambito della flessibilità, attraverso forme diverse d’assunzione, come già elencato: cooperative, ONG, OCIPs. Per esempio, Camaragibe nella Região Metropolitana de Recife, ha optato per le cooperative di lavoro mentre a João Pessoa, la giunta comunale ha presentato un progetto di contratto temporaneo. Il progetto è stato ritirato su pressione dell’Associação dos Agentes Comunitários della città, che ha chiesto s’indicesse un concorso pubblico.

Conclusione

Le tre situazioni brevemente presentate riflettono vari tipi di rapporti di lavoro flessibile differenti tra loro ma indicativi di forme alternative di rapporti salariali. Allo stesso tempo evidenziano la mancanza di linearità di un processo che convive simultaneamente con tendenze apparentemente contraddittorie.

Il caso dell’area del Pernanbuco si presenta con le classiche caratteristiche di produzione e lavoro atipico. Prerogativa di piccole unità di produzione familiare diventata, in maniera relativamente facile, un modo di svolgere attività produttiva permanente. Questo avviene per diverse ragioni: lavoro intensivo e tecnologia rimediata, produzione in piccola scala, sottocontratto di lavoro domestico, assunzione di lavoratori stagionali e senza vincolo, evasione fiscale e attività illegali e criminali [12]. I lavoratori, principalmente sarte, imparano il mestiere in casa, nelle officine e negli atêlies, con un passaggio generazionale di competenze. Nonostante il guadagno è superiore al salario minimo il carattere stagionale della produzione ne abbassa la media. Senza alcun contratto, la mancanza di lavori di “cucitura” comporta l’assenza di qualunque guadagno. La famiglia è il sostegno di queste lavoratrici e conta diversi membri coinvolti, in un modo o nell’altro, nell’attività del cluster.

Come abbiamo visto, la crescita della produzione e il basso costo hanno attratto grandi catene di negozi con grandi commesse. Questo ha comportato una formalizzazione della produzione e conseguentemente ha significato, sebbene in piccola scala, l’assunzione di lavoratori. Per questo, nonostante i lavoratori riconoscano l’importanza dell’assunzione e la mancanza d’accesso ai diritti sociali associati a questo tipo di rapporto, temono una riduzione delle entrate, in considerazione anche del predominio culturale dell’informalidade e del dinamismo del cluster, la cui possibilità di maggiori guadagni è più virtuale che reale. È interessante osservare che le imprese che operano nella formalità non hanno perso la loro competitività, ma al contrario hanno aumentato la produzione con l’istituzione di contratti con imprese nazionali.

Le cooperative, nonostante si sia discusso sul fatto che possano essere effettivamente considerate generatrici di “lavoro informale”, poiché relativamente istituzionalizzate, presentano alcune caratteristiche nel rapporto di lavoro che permettono di considerarle come tali. Per prima cosa i lavoratori associati sono “autonomi”, ossia il pagamento degli oneri sociali e l’accesso a diritti come il riposo remunerato, le ferie, le assenze per malattia, dipendono da negoziazioni interne alla cooperativa o, nel caso in cui si riferisca al pagamento d’assicurazioni sulla salute e alla previdenza sociale, da decisioni personali. L’adesione o anche l’abbandono della cooperativa avviene con procedure interne in mancanza di leggi regolatrici in materia. Inoltre, lo stesso CLT nel paragrafo unico dell’articolo 442, stabilisce che non esistono vincoli impiegatizi tra i lavoratori delle cooperative e chi compra servizi da queste. Per un’impresa il subappalto alle cooperative della produzione o del lavoro è un rapporto commerciale come qualunque altro, e quindi “flessibile” anche nel caso dell’acquisizione della forza lavoro necessaria.

Il caso analizzato, può essere considerato valido per le cooperative pragmatiche o strumentali o anche per le pseudo-cooperative conformi a questa realtà. Ossia cooperative create senza la possibilità d’interferenza da parte dei lavoratori, ma nel rigonfiamento di una politica pubblica d’attrazione di capitali industriali, di generazione di ricchezza e quindi, nel caso delle imprese interessate, di riduzione dei costi. Intanto l’incremento di queste cooperative, come anche delle cosiddette cooperative fênix (quelle risultanti dal tentativo di salvataggio d’alcune industrie e dei loro dipendenti dopo la chiusura, e legate al risanamento industriale) organizzate, non soltanto in Brasile, dai sindacati o dall’ONG, ha portato ad affrontare problemi comuni ad un tipo d’impresa “collettivista” nel segno di un mercato capitalista. Con l’eccezione di quelle organizzate da movimenti sociali specifici, la maggior parte delle cooperative soffre della difficoltà da parte dei lavoratori di accettare il “collettivo” in una società segnata da valori individualisti.

Le cooperative cearensi sopra menzionate hanno coinvolto lavoratori provenienti da ogni settore ed in particolare da attività agricole di sussistenza, in impieghi informali in città all’interno dello Stato. Il tipo di lavoro in queste cooperative e il rapporto con le imprese, hanno avuto poco a che vedere tanto con l’autonomia o con la proprietà collettiva quanto con la forma di lavoro flessibile nell’impresa, senza quei diritti sociali che un lavoratore regolare dovrebbe avere. La somiglianza con il lavoro salariato, senza i suoi benefici, anche se virtuali, ha perso qualsiasi senso ai fini della proprietà e della gestione formalmente collettiva di queste cooperative, poiché non c’è alcun vantaggio tangibile.

Il Programma Agentes Comunitários de Saúde, ha introdotto un elemento nuovo nell’utilizzazione della forza lavoro che è il “capitale sociale” del lavoratore, ossia l’importanza della rete sociale, delle relazioni sociali nella comunità per la realizzazione d’attività specifiche. Nel frattempo l’esigenza di questi capitali sociali, per quanto abbia potuto significare un certo prestigio e status del lavoratore in una comunità, non ha sostituito mai un contratto di lavoro che garantisse un minimo di stabilità. Sebbene i risultati nel lavoro sono stati riconosciuti come positivi dalla popolazione coinvolta, i termini d’adesione al programma da parte dei lavoratori hanno significato per questi la permanenza in una condizione precaria e senza diritti.

Le tre situazioni sono caratteristiche per l’America Latina dei nuovi e dei vecchi tempi: dei nuovi - per la tendenza ad un maggior lavoro femminile, alla flessibilità e all’informalizzazione del lavoro svincolato dal contratto, dalla stabilità e dai diritti sociali. I lavoratori delle cooperative erano preparati all’interno del Programma e in generale erano istruiti, avendo frequentato i corsi o i cicli base dell’istruzione. La diffusione delle cooperative “programmatiche”, come subappaltatrici delle imprese, è ugualmente recente e riflette le trasformazioni provocate dal risanamento economico. Nel Programma ACS (Agentes Comunitários de Saúde), la novità sta nel lavoro decentralizzato d’equipe e nell’importanza attribuita al “capitale sociale” nella conoscenza della comunità nel quale va ad operare come condizione di selezione.

Dei tempi “vecchi”: la tendenza al lavoro femminile ha sempre caratterizzato il settore dell’abbigliamento che ha, nella naturale abilità delle donne per il cucito, la sua ragione. Lo stesso il lavoro informale a domicilio, nelle piccole officine e negli sweatshops, il lavoro sottocontratto, senza certezze o in gran misura senza contratto alcuno.

Altra caratteristica comune è l’origine dei lavoratori e il luogo di lavoro. Piccole e medie città del nordest. Nonostante non è mai stata considerata, la questione dei diritti sociali è sempre dipesa dalle assunzioni. Nel caso dell’area considerata, il continuo cambiare condizione ora da proprietario(a), ora da operaio(a), rappresentato dal lavoro nei fabricos e nelle organizzazioni non basta a trasformare l’assunzione in qualcosa d’attraente, nonostante continui ad essere sinonimo d’accesso ai diritti sul lavoro. Nelle cooperative il rapporto con l’assunzione è stato più diretto, data la caratteristica di queste “cooperative”, che poco differivano da un’impresa regolare, se non per la mancanza di diritti. Nel frattempo avevano mantenuto per un certo periodo un carattere positivo (in alcuni casi), poiché garantivano un guadagno e la possibilità della permanenza nella città. Situazione analoga al cluster, ma che era rapidamente scomparsa con la crisi e la successiva chiusura delle cooperative. In queste i lavoratori avevano cominciato a rivendicare un contratto in cambio della “autonomia” rappresentata dal lavoro associato. Alcuni erano stati assunti, con il passaggio da alcune cooperative ad imprese regolari, altri avevano perso l’impiego con la chiusura delle cooperative, ritornando così a precedenti attività di sussistenza o emigrando nella capitale dello Stato o nel sudest del paese.

Gli assistenti, così come i lavoratori delle cooperative, passando per l’addestramento comune, per il lavoro in equipe e per ciò che gli aveva permesso lo sviluppo di una lista di rivendicazioni, reclamavano un rapporto salariale stabile. Per questi lavoratori, la prospettiva di entrare nella classe degli statali appariva come l’opzione più interessante, sebbene a volte fosse la più remota in quel contesto. Intanto, il movimento degli assistenti continua in questa direzione e alcuni risultati sono stati ottenuti, come il già citato ritiro del progetto, della giunta comunale di João Pessoa, per l’assunzione con contratto temporaneo. Questo quindi significa che il concorso per funzionario statale sarà possibile.

Nelle tre situazioni l’assunzione si contrapporrebbe alla produzione a basso costo per le imprese o all’implementazione di politiche dello Stato all’interno del modello della competitività e della produzione specifica. Anche quando appare come una tendenza, come nel caso dell’area considerata, rimane il dubbio sulla sua efficacia. Opzioni come le cooperative, mettono in scacco l’effettivo coinvolgimento del lavoratore nel progetto collettivo o la sua adesione solamente per mancanza d’altre opzioni nell’impiego fisso. Lo stesso occorre con altre tipologie di lavoro, che incorporano elementi nuovi come il lavoro in equipe, mansioni differenziate e coinvolgimento nella comunità, ma mantengono la precarietà rappresentata dall’assenza di contratti.

In questo modo, la precarietà nei rapporti di lavoro, ha caratterizzato l’alternativa al rapporto salariale stabile, anche se questa ha significato, nell’immediato, maggiori guadagni o reso possibile un lavoro più diversificato. Nel bene o nel male, il rapporto salariale rappresenta comunque una prospettiva d’accesso ai diritti del cittadino, più di quanto lo sia la condizione di precarietà. Finora, nuove esperienze, seppure con proposte d’autonomia e di controllo dei lavoratori, non hanno eliminato la mancanza nell’offertadi prospettive.

 

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CUBACIDEVEFARDISCUTERE

(e mobilitare al suo fianco)

 

Nella prima settimana di ottobre, abbiamo avuto l’occasione di partecipare alla XI Conferenza del Centro Studi Europei di Cuba alla quale eravamo stati invitati e che si è svolta in una fase molto delicata per i rapporti tra Cuba e la politica europea.

Il CSE negli anni scorsi ha avuto la funzione di aprire al massimo le relazioni di Cuba con istituzioni, centri studi e ONG europee. Questa funzione aveva fatto sì che alla conferenza annuale fosse venuta crescendo anche la presenza di fondazioni, istituti, ONG vicine ai partiti socialdemocratici e cattolici europei.

Alla luce di quanto accaduto in questi mesi - con le dure misure adottate dalle autorità cubane e le prese di posizione ostili a Cuba prese sia dall’Unione Europea che dai partiti della sinistra europea - la conferenza ha assunto una grande rilevanza nell’agenda politica cubana e per i rapporti con la società civile europea.

La Conferenza si è articolata su tre giorni di lavori con quattro sessioni quotidiane e parallele di discussione sui vari temi (conseguenze politiche e militari dell’allargamento a est dell’Unione Europea, conseguenze dell’unilateralismo USA sull’Europa, la dinamica degli investimenti esteri nell’Europa dell’Est; i criteri della politica di cooperazione allo sviluppo dell’UE verso il terzo mondo; le relazioni tra Cuba ed Unione Europea).

Nella Conferenza, come delegazione italiana ci sono state assegnate le relazioni di una intera sessione di lavoro (dedicata alle conseguenze sociali, economiche e politiche del processo di unificazione europea) e la presidenza dell’ultima, significativa, sessione a cui ha partecipato anche il Ministro degli Esteri cubano Felipe Roque Perez.

Nei vari momenti di dibattito che sono seguiti alle varie relazioni nelle sessioni di lavoro, ci siamo trovati spesso a dover rintuzzare sistematicamente le posizioni degli altri invitati europei (soprattutto quelli legati alla SPD tedesca ed a Izquierda Unida spagnola, posizioni che non fanno certo rimpiangere quelle dei DS italiani). Su questioni come l’uso strumentale e asimmetrico delle sanzioni da parte della UE (applicate alla Jugoslavia ma non a Israele, applicate a Cuba ma non ad altri paesi), sulla rimozione/omissione delle responsabilità europee nell’aggressione NATO alla Jugoslavia, sulla “ritirata” politico-diplomatica nella questione palestinese, fino all’ultima sessione in cui abbiamo dovuto “mettere sulla graticola” l’ipocrisia della sinistra spagnola che pontifica sui diritti umani a Cuba ma tace e consente sulla “ferita” democratica in corso ormai da due anni in Spagna dove sono stati messi fuorilegge partiti politici, chiusi giornali, documentati numerosissimi casi di tortura, imprigionate con l’accusa di terrorismo centinaia di persone. È curioso dover registrare come in Europa i prigionieri politici siano tutti ritenuti “terroristi” mentre a Cuba i terroristi dovrebbero tutti avere la dignità di “prigionieri politici”.

Sul piano politico dobbiamo sottolineare il persistere di una diversa visione dell’Europa tra noi e i compagni e gli studiosi cubani. Mentre la nostra analisi la delinea come un polo imperialista nascente e competitivo con gli USA (una Europa dunque che diverge strategicamente dagli interessi USA ma ne assume i connotati liberisti, reazionari e aggressivi sul piano sociale ed internazionale), i cubani - che prima contavano sull’Europa come sponda alternativa agli USA - adesso la leggono come una struttura ancora subalterna sul piano politico agli Stati Uniti. Occorre però rilevare positivamente come il nostro punto di vista venga oggi esaminato con maggiore attenzione e minore superficialità che in passato.

Una situazione inquietante

In questa fase i cubani stanno dando priorità alla battaglia politica in Europa. Alla Conferenza del Centro Studi Europei sono intervenuti in tre giorni diversi dirigenti di rilievo come Angel Dalmau (viceministro degli Esteri), Riccardo Alarcòn (Presidente dell’Assemblea Nazionale, ex ministro degli esteri ed ex ambasciatore presso l’ONU), Felip Roque Perez (l’attuale e giovane ministro degli esteri).

È il segno dell’importanza affidata alla Conferenza, della preoccupazione per la piega che stanno prendendo le cose e per il rischio che un isolamento di Cuba possa spianare la strada a nuove operazioni aggressive da parte degli USA (vedi le recenti dichiarazioni dell’amministrazione Bush sulle armi di distruzioni di massa che ci sarebbero a Cuba come minaccia per la sicurezza nazionale degli USA e le nuove misure anticubane adottate dagli Stati Uniti con l’obiettivo palese del rovesciamento politico del governo cubano).

A Cuba si ha l’impressione di essere diventati una sorta di “pedina di scambio” tra Unione Europea e Stati Uniti. L’UE sarebbe disposta a dare mano libera agli USA nella loro area di influenza (America Centrale) rieditando una nuova dottrina Monroe in cambio di maggiori spazi in altre aree geopolitiche di maggiore interesse per l’Europa (Balcani, Medio Oriente). Cuba potrebbe dunque essere una “pedina sacrificabile” sul piatto delle relazioni tra Stati Uniti ed Unione Europea.

Preoccupazioni sul

Forum Sociale Europeo di Parigi

In un contesto come questo, i compagni cubani sono molto amareggiati e preoccupati dal clima che si respira alla vigilia del Forum Sociale Europeo di Parigi, dove c’è un aperto ostracismo contro le organizzazioni e gli studiosi cubani e dove gli organizzatori francesi vorrebbero far intervenire invece solo i “dissidenti cubani” nelle assemblee plenarie.

Il problema grave e preoccupante anche per la sinistra in Europa, è che in Francia a guidare le iniziative contro Cuba oltre alla ambigua sezione francese di “Reporters Sans Frontièr” (che tanto ricorda MSF/Francia e il ruolo aggressivo del suo leader Bernard Kouchner contro la Jugoslavia) ci sono ATTAC, gruppi trotskisti ma anche l’attuale maggioranza del “PCF rinnovato” quindi il settore dominante del FSE in Francia.

Nelle valutazioni fatte dagli studiosi cubani sono proprio Francia, Spagna e Italia i paesi europei dove si è maggiormente concentrata l’ostilità politica dei governi di destra (Chirac, Aznar, Berlusconi) contro Cuba. La complicità con questa politica da parte del PCF, IU e DS dovrebbe far riflettere seriamente i militanti, gli elettori e i simpatizzanti di questi partiti. Una riflessione analoga dovrebbe viaggiare anche dentro il composito movimento antiliberista che ha posto - giustamente - in agenda la necessità di un altro mondo possibile in aperta opposizione ai signori della guerra e ai padroni del mondo.

Nel contenzioso storico e politico tra l’esperienza cubana e l’aggressività degli Stati Uniti non solo non si può essere neutrali ma non si possono liquidare con un colpo di spugna l’originalità, le difficoltà e le conquiste sociali e politiche di un processo rivoluzionario come quello cubano. Mettere sullo stesso piano e decontestualizzando la norma e l’eccezione (nel caso dell’attuazione della pena capitale), repressione di massa e misure coercitive specifiche in un clima di guerra preventiva a largo raggio, un modello originale di partecipazione politica e pluralismo liberale, è un errore di valutazione tragico che imprigiona le coscienze e depotenzia l’alternativa politica e sociale nella nostra Europa sempre più reazionaria.

I compagni cubani chiedono quindi di concentrare tutte le forze disponibili nel FSE di Parigi per dare più forza alla battaglia politica di chiarezza e solidarietà con Cuba in quella sede e nelle altre iniziative in cantiere in Europa.

Il convegno nazionale su Cuba in preparazione in Italia ad Arcore per il 22 e 23 novembre prossimi, a nostro avviso, si deve inserire in questo dibattito a livello europeo per impedire ogni forma di complicità dell’Italia e dell’Unione Europea nel blocco economico e nell’aggressione statunitense contro Cuba. Questa consapevolezza deve diventare il minimo comune denominatore per procedere ad una discussione franca, leale ed aperta su Cuba, le sue conquiste, i suoi errori, le sue potenzialità e le sue difficoltà.

Interessanti incontri bilaterali

La partecipazione alla XI Conferenza del Centro Studi Europei all’Avana, è stata anche l’occasione per una serie di incontri bilaterali con istituti e centri di ricerca cubani. Dall’Associazione degli Economisti Cubani ai vari centri studi (Centro Josè Martì, Centro Studi Europei, Centro studi sull’Africa, l’Istituto Cubano per l’Amicizia tra i Popoli, le varie università, Radio Avana etc.) l’interscambio politico/culturale bilaterale è stato notevole e viene riconosciuto positivamente. All’università di Pinar del Rio abbiamo potuto tenere una conferenza sul “modello economico italiano” ai docenti di economia dell’università. Lo scambio di articoli tra riviste cubane con le riviste Proteo, Nuestra America, Contropiano e le possibilità di progetti di scambi culturali tra le varie università e centri studi è un terreno estremamente fertile, stimolante e importante. È un terreno che qui in Italia non possiamo e non dobbiamo trascurare, anche perchè questi sono i centri di formazione della nuova generazione politica cubana ed a questa formazione viene dedicata grande attenzione. Sulla scena politica si sta affacciando una nuova generazione politica che mostra - al momento - buone capacità e diventa decisiva nella transizione del “dopo-Fidel” di cui si comincia a parlare senza troppi tabù, senza le suggestioni che circolano qui in Italia ma anche senza eccessive preoccupazioni sulla tenuta del processo rivoluzionario. A Cuba l’intellettuale collettivo sembra funzionare molto meglio del leaderismo imperante in Italia. La vecchia generazione sta assumendo la funzione di “consigliera” trasmettendo esperienza ai più giovani e assicurando la continuità politica in una situazione piuttosto critica sul piano economico ed internazionale.

L’incontro con i dirigenti del Dipartimento Esteri del Partito Comunista Cubano è stato estremamente interessante. Vi hanno partecipato il vice responsabile esteri del partito (Oscar Cordovés), la compagna del CC addetta ai rapporti con l’Italia (Jamila Pita), il presidente del Centro Studi Europei (Dennis Guzman).

Nei giorni precedenti abbiamo avuto un incontro al Ministero degli Esteri con Angel Dalmau che è il Viceministro degli esteri addetto ai rapporti con l’Europa.

Inoltre abbiamo avuto un interessante incontro con Leonel Gonzales - responsabile esteri della CTC (il sindacato cubano) - spiegandogli l’esistenza in Italia del sindacalismo di base (di cui non erano a conoscenza) e aprendo la strada al possibile confronto tra il sindacalismo di base e la CTC anche in presenza di un raffreddamento totale da parte della direzione della CGIL, mentre sopravvivono contatti e progetti con singole federazioni locali o di categoria.

Non abbiamo incontrato Fidel Castro, ce ne rammarichiamo perchè gli avremmo detto chiaramente che, per quanto ci riguarda, “la storia lo ha già assolto”.

Abbiamo inteso socializzare la sintesi di questa nostra esperienza a Cuba, per fornire a chi avrà la voglia, l’interesse o la curiosità di leggere questo report, elementi di riflessione che ci sono parsi utili al dibattito su Cuba nel nostro paese e in Europa.

Saremo lieti di confrontarci con chi lo riterrà utile e vorrà farlo anche pubblicamente.


[1] Con questo termine è indicato il lavoro svolto senza un formale contratto e senza garanzie (ferie retribuite, permessi, assenze per malattia retribuite, accesso al sistema pensionistico, ecc.) a cui molti lavoratori in Brasile fanno ricorso pur di avere un posto di lavoro (Ndt).

[2] Per un profondimento sulla tematica de “l’informalità” si veda Pettie (1974), Portes e Castells (1989).

[3] Cacciamalli (2000, p. 64).

[4] In Brasile non sempre ai diversi gradi di dell’apparato Statale si osserva la legislazione. Inoltre, sarebbero ancora presenti una serie di contratti temporanei per professori, medici, e professionisti vari.

[5] Per un approfondimento sul concetto della flessibilità si veda Sabel e Piore (1984) e Harvey (1993).

[6] I dati presentati si riferiscono ad un insieme di ricerche realizzate in collaborazione al Programma de Pós-graduação em Sociologia dell’Universidade Federal da Paraíba con il supporto del CNPq, sulla tematica della Flessibilità e dell’Informalità.

[7] Ricerca di Soares tra le sarte in Toritama e Vertenses (2001)

[8] Ricerca di SABRAE del 1991, citata da Azais (1998), in Santa Cruz do Capibaribe, dimostrava che l’80% dei lavoratori guadagnavano in media meno di un salario minimo mensile.

[9] Webb.

[10] Per le cooperative di Cereá si veda Lima (1997, 1998, 2000)

[11] Oltre a Ceará, il Programma de Agentes Comunitários de Saúde fu implementato prima del 1993 a Niteroi nello Stato di Rio de Janeiro.

[12] Soares evidenzia nella sua indagine (2001) la scoperta da parte della polizia di una deviazione di camion rubati verso Santa Cruz, per conto di commercianti locali, carichi di prodotti tessili venduti ai produttori senza fatturazione.