Flessibilità, precarietà dell’impiego femminile nella “nuova” società salariale (un paragone tra Francia e Brasile negli anni ’90)

Vivian Aranha Saboia

Negli ultimi decenni abbiamo assistito al superamento del modello di crescita fordista e all’emergere di un “nuovo” modello di crescita di tipo americano. Questo nuovo modello d’accumulazione, chiamato anche nuovo capitalismo o new economy, si è concretizzato attraverso due fenomeni distinti: le innovazioni finanziarie (capitalismo patrimoniale) e quelle scientifiche e tecnologiche (capitalismo cognitivo). Il loro emergere ha implicato una serie di mutamenti nel rapporto salariale fordista, al punto tale da poter permettere di parlare di formazione di una “nuova” società salariale. In effetti, è soprattutto a partire dagli anni ’90 che si è assistito al passaggio da una società salariale di tipo fordista ad una post-fordista e globalizzata. Questo passaggio è stato contraddistinto dall’adozione di politiche pubbliche dai caratteri tanto neoliberali quanto social-liberali, che hanno, tra le altre cose, reso flessibile il lavoro e l’impiego. In questo saggio si mette in risalto come tale passaggio abbia assunto caratteristiche diverse in termini di razza, sesso, età, ecc.

1. Introduzione: la crisi del modello fordista

A partire dalla seconda metà degli anni ’70, si è assistito ad un movimento che ha determinato il passaggio da una società salariale fordista ed internazionale ad una salariale post-fordista e cosiddetta globale. Poiché questo passaggio non è avvenuto in maniera continua ed uniforme, lo si deve individuare nello spazio e nel tempo. In occasione di un’analisi sulle disparità tra sessi, le conseguenze di questo movimento, considerate all’interno del contesto più ampio dell’emergere di un nuovo modello di crescita, si differenziano per profondità e per intensità, sia in un paese capitalista centrale come la Francia, sia in uno più periferico come il Brasile.

Il regime d’accumulazione fordista si è rivelato instabile durante i “Trinta Gloriosos” (1945-1975). Secondo Boyer questo si baserebbe su certe forme d’istituzioni che costituiscono un insieme “coerente” (1986: 121). In tal senso questo modello è stato definito in termini di arrangiamenti istituzionali per quanto riguarda i seguenti settori: il rapporto capitale/lavoro; le forme di coerenza nel mercato dei prodotti; le istituzioni che governano i mercati finanziari e la gestione della moneta; le norme di consumo; le forme d’intervento statale nell’economia; l’organizzazione del sistema internazionale dei cambi (CORIAT & DOSI, 2002: 102).

Alcuni autori sostenitori delle regolamentazioni, mettono in evidenza come queste forme (o pilastri) istituzionali possiedono una relazione di complementarità e sono organizzate in maniera gerarchica (BOYER, 1999; AMABLE, 2000). In questo modo, “il coração del post-guerra”, analizzato sulla base del regime fordista, è il “[...] compromesso capitale/lavoro il cui impatto si fa sentire sull’insieme delle altre forme istituzionali” (BOYER, 1999: 21). A causa di questo compromesso, la domanda di beni di produzione segue, in funzione della ridistribuzione dei guadagni sulla produttività, il ritmo dell’estensione della capacità di produzione, permettendo l’aumento dei salari e quindi della domanda. La concorrenza si rivela ogni volta sempre più oligopolista, allo stesso modo in cui lo Stato capitalista diventa “anche” espressione degli interessi dei lavoratori (consumo di massa, costituzione dei sistemi di copertura sociale). La dinamica economica è regolata da una politica di stabilizzazione a breve termine; il regime monetario e finanziario è attenuato da un’inflazione permanente e dall’aggiustamento del tasso di cambio, reso possibile soltanto da una politica tesa a mantenere la stabilità [op. cit.:21].

La crisi del modello di crescita fordista, alla fine degli anni ’70, ha accelerato l’insorgere di un nuovo modello di crescita (non ancora stabile). Questo processo ha provocato importanti mutamenti nel rapporto tra capitale e lavoro e più in particolare, nel rapporto tra capitale e forza lavoro femminile. Di fatto, in un contesto di crescente apertura al commercio mondiale e di globalizzazione dei mercati finanziari, si sono avuti dei nuovi cambiamenti istituzionali come risposta alla maggiore interazione dei paesi nell’economia mondiale. La nuova gerarchia che ne risulta comporta conseguenze su altre forme istituzionali poiché i “nuovi meccanismi di determinazione del prezzo tengono conto degli aspetti strategici della concorrenza. Oltre a ciò, il crescente peso dei mercati finanziari sul modo di gestire le aziende, influisce direttamente sulla ridistribuzione dei redditi, che a sua volta si ripercuote sulla gestione del lavoro e sui rapporti salariali” [35]. In questo nuovo modello di crescita della gestione, sono i mercati finanziari internazionali che determinano il regime monetario e finanziario, così come le variazioni sul tasso di cambio. Così, mentre le politiche messe in pratica dalla Banca Centrale durante il periodo fordista favorivano la crescita, nel nuovo contesto queste si limitano a soddisfare soprattutto le esigenze dei mercati finanziari - l’eliminazione dell’inflazione, l’indebolimento della fiscalizzazione dei fattori della produzione mobile (capitale speculativo), ecc. Oltre a ciò tenendo conto dell’aumento dei tassi d’interesse, il problema del debito pubblico si è aggravato, influenzando direttamente la politica nazionale di bilancio. Questa, a sua volta, tende a diventare ciclica, a differenza della politica non ciclica adottata nel periodo fordista. Le politiche sul bilancio e quelle fiscali degli Stati-nazione sono state condizionate da questi mutamenti nel regime internazionale.

2. Flessibilità e lavoro femminile

Questo è un nuovo quadro che si differenzia dal periodo fordista, quando il rapporto salariale si manifestava in maniera gerarchicamente superiore, vis-a-vis con gli altri pilastri internazionali. Nel nuovo modello, il rapporto salariale sarà la variabile fondamentale in seno al nuovo aggiustamento delle forme istituzionali, o meglio, questa sarà dominata in maniera gerarchica. In questo contesto, assistiamo al consolidamento delle regolamentazioni concernenti il Diritto dei Lavoratori, così come all’avvento di politiche pubbliche d’impiego che indeboliscono i lavoratori di fronte ai datori di lavoro. Queste politiche pubbliche sono state adottate e rese generali dai governi neoliberali e social-liberali. Queste sono state propagandate come fondamentali per uscire dalla crisi, così come la ricerca della stabilità monetaria e la flessibilità del lavoro, all’interno di altre premesse considerate indispensabili per la crescita economica. La deregolamentazione e la liberalizzazione del mercato del lavoro, sempre più caratterizzato dalla flessibilità dell’impiego, sono quindi diventati un imperativo per l’accumulazione capitalista. I mutamenti avvenuti in seno al rapporto salariale ci permettono di parlare di sviluppo di una società salariale, o meglio di una società salariale post-fordista, nella quale s’inserisce il progresso dell’impiego femminile. Nel frattempo le conseguenze della flessibilità dell’impiego acquisiscono caratteristiche differenti a seconda dell’età, della razza, del sesso, ecc.

La complessità del tema e la storicità dei fatti ci portano a sviluppare un’analisi comparativa nel tempo e nello spazio, basata sull’esperienza di un paese capitalista centrale (la Francia) e di uno periferico (il Brasile), negli anni ’90.

3. Trinta Gloriosos (1945-1975) di pianificazione contro neoliberalismo

Partiremo dal concetto di “società salariale” [1] formulato da Aglietta e Brender [1984]. Questa è una società progressista e ordinata, i cui principali agenti sociali - capitalisti, uomini di scienza, lavoratori delle imprese private e pubbliche - agiscono in direzione dell’ottenimento di un progresso materiale (crescita) e di un progresso sociale (socialità), entrambi legati da una stessa dinamica: il progresso tecnico. Questo è il motore di un regime d’accumulazione che riunisce, da un lato il locale funzionamento nella produzione d’oggetti e dall’altro le pratiche di regolamentazione delle relazioni sociali.

Nella società salariale, i conflitti sono regolati da istituzioni statali (gestione interventista) e da istituzioni originarie della società civile (sistema di negoziazione collettiva). Esiste la costituzione di un patto sociale che ha escluso i comportamenti in termini di antagonismo di classe, affinché i lavoratori s’integrassero nel progetto di social-democratizzazione, le cui acquisizioni principali che favoriscono il consumo di massa, sono l’aumento del potere d’acquisto e il pieno impiego. Il piano aveva assunto un ruolo chiave nell’organizzazione della società durante i “Trinta Gloriosos” (1945-1975), sottoforma di pianificazione produttiva (taylorismo), pianificazione economica (keynesianismo) e pianificazione politica (fordismo). Secondo Liepietz, il modello di sviluppo della società salariale può essere espresso come modello basato su tre aspetti: l’organizzazione del lavoro, il regime d’accumulazione e il metodo di regolamentazione [in ALBRITTON et al., 2001: 18]

Esiste una relazione tra piano e mercato (nel quadro di uno Stato previdenziale) che è stata modificata nelle ultime due decadi e, soprattutto dall’inizio degli anni ’90, con l’adozione delle politiche neoliberali. Il rallentamento della crescita, causato dal tracollo dei guadagni di produzione ha diminuito, considerata la rigidità dei salari nei confronti di una loro riduzione, gli utili dei capitalisti. Si assiste all’aumento dell’inflazione e ad una disoccupazione strutturale, dovuta all’incapacità di dare una risposta alla crescente caduta dei consumi (crisi della domanda). Dopo la crisi della regolamentazione fordista, lo Stato ha diminuito la sua azione interventista attraverso la riduzione della spesa pubblica e le privatizzazioni.

Allo stesso tempo, si assiste alla sostituzione del sistema a cambi fissi, stabilito negli accordi di Bretton Woods (1944), con quello a cambi fluttuanti (1973) e ad un aumento della sfera finanziaria come risposta alla tendenza al ribasso dei guadagni nella sfera produttiva. Questo è stato l’inizio del processo di mondializzazione, nel quale si è osservata una separazione tra le forme istituzionali che permangono nazionali e la dinamica della produzione che è diventata internazionale [PLIHON, 2001: 61). Da ciò la deregolamentazione e la flessibilità sono diventati d’importanza centrale per combattere la rigidità dei salari e controllare il costo della produzione. Infatti,

questi fenomeni, così come l’intensificarsi della concorrenza internazionale, legati al rallentamento della crescita, sono decisivi per la flessibilità [...] Di fatto in regime di cambi fluttuanti, per evitare una svalutazione indesiderata, i costi di produzione e in particolare i salari devono poter variare verso il basso. Così, al contrario di un criterio salariale nazionale che determini la posizione internazionale dell’economia, ci ritroviamo nella situazione inversa: attualmente il criterio salariale è “pilotato” dal sistema monetario finanziario” [Nadel & Barbier, 2000: 64].

Si può costatare come le politiche economiche nazionali perdono il loro potere di fronte alla globalizzazione finanziaria. S’insediano politiche d’ispirazione neoliberale, a danno degli interessi dei lavoratori e in favore delle imprese e dei detentori del capitale finanziario. La nozione stessa di pieno impiego è modificata, giacché durante i “Trinta Gloriosos” il tasso di disoccupazione accettato (o tasso naturale) variava tra l’1% e il 2%. Questo nuovo dogma ideologico è stato praticato dagli Stati (inizialmente dai governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna) come mezzo per l’attuazione di una serie di riforme, come ad esempio la liberalizzazione del commercio e delle finanze attraverso il primato degli investimenti internazionali e dei mercati finanziari e a danno degli investimenti nazionali e produttivi. Viene anche messa in risalto la deregolamentazione del mercato del lavoro e la privazione delle imprese pubbliche. Secondo Plihon [2001: 31], queste riforme colpiscono soprattutto il mercato del lavoro e il sistema finanziario, comportando importanti mutamenti nel rapporto salariale. Ciò è accaduto in maniera tale che, già a partire dagli anni ’70, si è potuto assistere al “disgregarsi della condizione salariale”, in cui “la centralità del lavoro era brutalmente messa in questione” [CASTEL, 1995: 385].

In questa nuova situazione la teoria della società salariale ci servirà come riferimento per capire l’avvento della società salariale post-fordista (e della globalizzazione) nel quadro del nuovo regime d’accumulazione. Pertanto, saranno esaminati, in maniera sintetica, i due seguenti approcci: il “capitalismo patrimoniale”, segnato dall’innovazione finanziaria [ORLÉAN, 1999; BRUNHOFF et al., 2001; GADREY, 2000] e il “capitalismo cognitivo”, segnato dall’innovazione scientifica e tecnologica [VERCELLONE et al., 2001].

4. La new economy: i due approcci del nuovo capitalismo

Questi due approcci sono stati formulati nel periodo delle innovazioni più evidenti della “new economy” americana, come l’azionariato dei lavoratori e lo sviluppo di nuove tecnologie per l’informazione e la comunicazione (NTIC). Queste evidenziano l’arrivo di una nuova “grande trasformazione” [POLANYI, 1983] del capitalismo, o meglio, di una rivoluzione incoraggiata dall’evoluzione attuale del progresso tecnico. Nella teoria del capitalismo patrimoniale, l’elemento decisivo s’incontra nel primato dell’innovazione finanziaria nelle imprese [AGLIETTA, 1995;1998]. Questo primato significa che la creazione e l’accumulo di ricchezze sono soggette al capitale finanziario. In questa maniera, il capitalismo patrimoniale diventa un “regime d’accumulazione in prevalenza finanziario”, costruito in un contesto in cui il potenziale potere regolatore delle istituzioni (sia attraverso lo Stato, sia attraverso le negoziazioni collettive), in relazione ai conflitti di classe, diventa sempre più fragile. Il capitale infatti, attraverso misure di liberalizzazione dei mercati finanziari e di deregolamentazione del mercato del lavoro, ha consentito una completa libertà di manovra, [CHESNAIS, 2001a]. Cosi nel cuore di questo regime

[...] si collocano le nuove forme di concentrazione del capitale-denaro (in primo luogo, i fondi pensione e i fondi d’investimento finanziario), i meccanismi per la cattura e l’accentramento dei frammenti di valore e di plusvalore e infine le istituzioni che garantiscono la sicurezza politica, ma anche finanziaria, delle operazioni d’investimento finanziario” [CHESNAIS, 2001b: 46].

In questo contesto si assiste allo sviluppo di nuove forme di gestione delle imprese, particolarmente evidenti nei rapporti tra azionariato, dirigenti e salariati. Il corporate governance basato su un nuovo modello di finanziamento delle imprese (capitale-rischio) fa sorgere un nuovo metodo di remunerazione per i salariati (azionariato dei lavoratori) e per i dirigenti (stock options). Così da un lato le imprese ottengono finanziamenti attraverso il “capitale-rischio” che consiste in risorse raccolte attraverso fondi specializzati per le imprese e gli investitori istituzionali e particolari. Queste risorse sono trasformate in azioni quotate nei mercati finanziari, il che “permette ai fondi del capitale-rischio di essere ritirati, assicurando così la liquidità dei loro investimenti” [ARTUS, 2001: 17). Dall’altro lato i salariati, poiché investono il loro diritto alla pensione in fondi pensione, si trasformano in azionisti, determinando un nuovo compromesso tra capitale e lavoro. Così,

i salariati/azionisti si trovano in una situazione ’schizofrenica’: infatti mentre da salariati desiderano avere un aumento del salario e garantirsi il mantenimento del posto di lavoro, da azionisti desiderano un rendimento massimo per i loro risparmi, il che significa sovente una riduzione dei costi salariali per l’impresa [...]” [PLIHON, 2001: 83].

Questo tipo d’investimento non offre nessuna garanzia agli azionisti. Il rischio di una caduta delle borse rimane sempre presente e con il crollo delle quotazioni in borsa, può accadere anche che crollino le rendite future dei salariati. Da un lato il sistema pensionistico per ripartizione che prevale durante il periodo fordista, è poco a poco sostituito dal sistema di fondi pensione, ossia dal pensionamento capitalizzato. Dall’altro “[...] l’incremento del risparmio salariale investito in azioni contribuisce anche al nuovo dispositivo, che aumenta la dipendenza dei salariati al variare dei risultati dell’impresa e della congiuntura economica [...]” [BRUNHOFF, et al., 2001: 58] In questo regime, le frontiere tra classi diventano imprecise, poiché i lavoratori hanno accesso ad una parte del capitale delle imprese in cui lavorano [op. cit.: 55]. Quindi la proprietà del capitale diventa anche dei salariati.

Ora nella teoria del capitalismo cognitivo, l’elemento decisivo riguarda le innovazioni legate al primato, nella “new economy”, delle attività intellettuali. Ossia, nel capitalismo cognitivo, il potere risiede nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (NTIC), così come nel ruolo sempre più centrale della conoscenza e del sapere. Pertanto il capitalismo cognitivo è fondato sulla “[...] esplorazione sistematica della conoscenza e delle nuove informazioni” [PAULRÉ, in AZAIS et al., 2001: 10].

Mentre si osservano una serie di trasformazioni tecnologiche nell’industria e la crescente integrazione d’attività terziarie e conoscitive in seno alle attività produttive, si favorisce l’aumento del lavoro “indipendente”, “atipico” e “autonomo”. Le caratteristiche di questo tipo di lavoro sono difficilmente percettibili dal punto di vista organizzativo e normativo, cosicché, in funzione della centralità della conoscenza e dell’innovazione, queste diventano sempre più difficili da misurare [FUMAGALLI, in AZAIS et al., 2001: 116]. Aldilà di questo, lo sviluppo delle NITC ha contribuito

al confronto a tempo reale tra offerta e domanda, tanto da permettere una estensione e una razionalizzazione evidente dei mercati finanziari globalizzati. Il capitale produttivo si trova così sotto la sua stretta dipendenza: la sua capacità di seguire a tempo reale le variabili della produzione, esacerbando l’ottenimento immediato di lucro, obbliga a produrre e a diminuire i costi, provocando come conseguenza la ricerca della flessibilità del processo di lavoro e degli impieghi” [BARBIER & NADEL, 2000: 72].

Il nuovo modello di crescita, ottenuto secondo quanto esposto sopra, è decisivo nella formazione della nuova società salariale post-fordista. Gli effetti nocivi che riguardano il rapporto salariale del post-fordismo sono più forti quando si analizza il rapporto capitale/lavoro femminile.


 [2] [3]

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5. La nuova società salariale: la società della flessibilità e della “possibilità” d’impiego

Il nuovo regime di crescita ha provocato una serie di cambiamenti nei rapporti salariali, al punto tale da poter parlare di una “nuova” società salariale.

Nella società salariale post-fordista (e nella nuova mondializzazione), la sussistenza del lavoratore smette di essere un problema comune all’impiegato, al datore di lavoro e allo Stato. In verità il pensionamento per ripartizione è minacciato dal pensionamento capitalizzato (poiché incerto), nel quale il lavoratore diventa l’unico responsabile della sua rendita futura (al momento del suo pensionamento). L’impiego stabile è minacciato dall’impiego precario e la remunerazione fissa da quella variabile (fisso più rendimento). In questo contesto le politiche riformiste applicano l’idea secondo la quale “[...] la società del pieno impiego non sarà una società senza disoccupazione, ma sarà una società dove la disoccupazione non duri” [PISANI-FERRY, 2000: 61], sebbene anche questa costituisca un rischio per i lavoratori [4].

Pertanto la nuova società salariale è segnata dalla forte supremazia del capitale sul lavoro. Questa è caratterizzata dalla flessibilità dell’impiego e del lavoro che induce anche ad un ribasso dei salari attraverso l’individualizzazione e la flessibilità. In altri termini, i salari diventano sempre più il principale margine di manovra di fronte alla concorrenza intercapitalista caratterizzandosi così come un “[...] cambiamento radicale: al principio civile e fondamentale della garanzia di sussistenza, si sostituisce la condizione di rischio esistenziale e di precarietà” [FUMAGALLI, in AZAIS et al., 2001: 124]. Nel nuovo regime d’accumulazione, i lavoratori sono ancor più soggetti ai rischi d’impresa, poiché il loro potere di negoziazione s’indebolisce. In questa maniera,

da un lato la solidarietà sociale scompare a causa del funzionamento dell’impresa nella rete, che manda all’esterno una parte crescente della sua produzione, e dell’aumento dell’individualismo: come conseguenza, il potere di negoziazione collettivo dei lavoratori è ridotto. Questa fluidità indebolisce il potere sindacale [...] Aldilà di ciò, con una logica azionista, i lavoratori diventano i soci più deboli del trio azionisti/dirigenti/salariati [...] In fase di rallentamento congiunturale, la massa di salariati costituisce la variabile principale d’aggiustamento a disposizione dei dirigenti per assicurare la costanza delle performance dell’impresa” [PLIHON, 2001: 93].

Gli aggiustamenti implementati dai dirigenti-imprenditori avvengono, nella pratica, con il sostegno delle politiche neoliberali che rendono flessibile l’impiego e contribuiscono alla formazione di una “nuova società salariale di tipo americano”. Questi aspetti innovatori esprimono di fatto, un cambiamento nella modalità di utilizzazione della forza lavoro da parte del capitale, sempre più contraddistinta dalla ricerca della flessibilità [BARBIER & NADEL, 2000]. In generale, nella società salariale post-fordista, la correlazione tra forze è talmente sfavorevole al lavoro, rispetto al capitale, che è difficile immaginare l’esistenza di un nuovo compromesso tra classi, del tipo che prevaleva durante la società salariale fordista. [BRUNHOFF, et al., 2001]

In questo nuovo quadro, la ripartizione dei “rischi” tipici della vita (salute, disoccupazione, invecchiamento, incidenti nel lavoro, ecc.) tra datore di lavoro, lavoratore e Stato è, di fronte agli importanti mutamenti nei rapporti salariali, continuamente minacciata. Ciò è vero nel momento in cui l’impiego e il diritto alla protezione sociale, che danno al lavoratore uno “statuto sociale che gli permette un’identità sociale” [BARBIER & NADEL, 2000: 21], sono resi instabili dalla flessibilità. Nel frattempo, l’intensità e la profondità di questi mutamenti dipendono dalla correlazione delle forze tra gli agenti sociali (sia per classe sia per sesso) che varia nel tempo e nello spazio.

È in questo contesto che, a partire dagli anni ’80 e ’90, si è avuto un considerevole progresso nell’impiego femminile. L’aumento e la diffusione delle politiche neoliberali hanno reso flessibile il mercato del lavoro ed accelerato l’aumento del lavoro “atipico” - o meglio precario - caratteristico della nuova società salariale. Di fatto, il progresso nell’impiego femminile avviene in un contesto caratterizzato dall’aumento e dalla diffusione della flessibilità nell’impiego, rafforzato dalle politiche pubbliche di gestione della forza lavoro implementate negli anni ’90 che incitavano al progresso materiale, indebolendo quello sociale (vedere riquadro I). Ciò implica un sorpasso della società salariale fordista e la costruzione di una nuova società salariale, nella quale la regolamentazione dell’impiego delle donne e il progresso nell’impiego femminile, non riducono le discriminazioni sociali proiettate anche nel mercato del lavoro.

6. Il luogo d’impiego femminile e la nuova società salariale

Secondo le statistiche ufficiali, l’aumento della partecipazione delle donne nel processo produttivo è stato proporzionalmente maggiore di quello degli uomini (fatta eccezione per l’Africa). Questo aumento, che avviene in maniera più o meno forte a secondo del paese, riflette una caratteristica importante della nuova società salariale post-fordista. Nel mondo questo progresso è stato accompagnato dalla creazione di una serie di misure e leggi riguardanti la promozione dell’impiego femminile e la parità tra i sessi nell’impiego. Nel frattempo l’universalità di queste norme - che è avvenuta attraverso gli orientamenti stabiliti dalle costituzioni e dagli organismi internazionali (come la OIL, ecc.) - non si è tradotta in pratiche ugualitarie all’interno del mercato del lavoro. Tanto nei paesi periferici come il Brasile, quanto in quelli centrali come la Francia, a causa della logica presente nel mercato del lavoro che governa le relazioni tra i soggetti economici, l’uguaglianza è stata conquistata solamente dal punto di vista formale, visto che la sua effettiva applicazione non si rivela evidente per la difficoltà nel praticare le punizioni previste sia a livello nazionale che internazionale. Aldilà di ciò, il Diritto del Lavoro rimane legato al tipo d’impiego offerto dal mercato del lavoro e non a persone individuali, comportando situazioni di dipendenza economica dal datore di lavoro. In effetti per arrivare ad un progresso sociale, il Diritto del Lavoro dovrebbe

“[...] esprimere un contratto d’attività tra la società e gli individui, invece di un contratto d’impiego. L’omogeneità dei diritti sociali su tutti i tipi d’attività sarebbe una sicurezza per le carriere femminili, la cui probabilità di non essere regolari è più forte di quella maschile” [AGLIETTA, in MAJNONI D’INTIGNANO, 1999: 64].

Così le pratiche di discriminazione continuano ad avere la supremazia sulle norme per la parità che riguardano gli uomini e le donne. Infatti esistono delle specificità nell’incompatibilità tra una legislazione ugualitaria e la pratica nei rapporti di scambio che discriminano le donne. In Francia e in Brasile, la specificità relativa all’impiego femminile e le politiche d’impiego post-fordiste si presentano nella seguente forma:

7. Brasile e Francia: le sfumature relative alla nuova società salariale

Lo sviluppo della nuova società salariale nei due paesi in questione avviene in maniera relativamente differente. A partire dagli anni ’80 avvengono alcune trasformazioni collegate all’implementazione di politiche neoliberali e tendenti alla globalizzazione - in particolare l’integrazione regionale, l’organizzazione di nuovi processi del lavoro e l’innovazione tecnologica. Questi cambiamenti hanno interessato paesi come il Brasile in maniera sfavorevole. Ciò è tanto evidente sia nella crisi del crescente indebitamento e della iperinflazione sia nelle difficoltà causate dai finanziamenti provenienti dall’estero. La soluzione a queste difficoltà è arrivata attraverso l’imposizione di alcune misure di risanamento dettate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Infatti,

in Brasile il processo di liberalizzazione finanziaria nei riguardi del capitale estero ha avuto inizio verso la metà del 1990. Tra queste misure bisogna evidenziare la flessibilità nell’uscita di capitali e nell’invio all’estero di utili e dividendi, l’apertura al capitale straniero delle operazioni di borsa e dei mercati del reddito fisso, l’eliminazione o la riduzione delle imposte sulle operazioni finanziarie, ecc. A confronto con il processo d’apertura commerciale, anch’esso avvenuto nello stesso periodo [...], la liberalizzazione finanziaria ha ottenuto risultati più immediati [...]” [COUTINHO, et al., in OIT & MTE-BRASIL, 1999: 65]

Nel frattempo, il processo con il quale nei paesi periferici si è evoluta la crisi del debito degli anni ’80 in direzione della globalizzazione finanziaria e commerciale dei primi anni ’90, o il fatto che questi sono passati dalla condizione di paesi “in via di sviluppo” a paesi “emergenti”, non ha escluso un’ineguale sviluppo. Questo è avvenuto in seguito ai seguenti fatti: da un lato la società mondiale ha creato un sistema che include omogeneità, gerarchia e differenziazione [LEFÈBVRE, 1980]. Dall’altro la globalizzazione non è andata oltre un sistema di contrapposizione del centro verso la periferia [AMIN, 1997]. In questa maniera, sin dalla fine degli anni ’40 a partire dalla particolare esperienza dell’America Latina, Raul Prebish ha dimostrato che

“[...] l’idea dell’armonia degli interessi promossa dalla concorrenza capitalista era ancor più fallace quando tradotta sul piano internazionale o delle nazioni, sottoforma di teoria dei vantaggi comparativi: lo sviluppo diseguale dell’economia mondiale, concepito in termini di rapporti centro/periferia, tendeva, al contrario a riprodursi e ad approfondirsi sotto l’egida del libero gioco delle forze del mercato” [MELLO, in TAVARES e FIORI, 1998: 15-16].

In sintesi, l’organizzazione del lavoro, il regime d’accumulazione e le regole inerenti al modello di sviluppo centrale sono penetrati nella periferia solamente in maniera parziale. Tanto la Francia quanto il Brasile presentano, secondo un approccio regolatore, caratteristiche, in termini di taylorismo, di keynesianismo e di fordismo, differenti le une dalle altre, poiché si collocano o nel centro o nella periferia del capitalismo. I due paesi seguono inoltre vie specifiche, per quanto riguarda i loro mercati, in direzione del post-fordismo. La frammentazione dell’insieme della forza lavoro nei due paesi (e particolarmente della forza lavoro femminile), acquisisce immediatamente proporzioni distinte secondo i quattro sottoinsiemi mostrati nel riquadro sotto. Nel post-fordismo, in tutti i casi, i primi formano un nucleo dell’esercito di riserva, ogni volta maggiore [Marx, 1976]. Questo riferimento permette di fare alcune distinzioni che riguardano gli aspetti essenziali della flessibilità esterna (inerente alla nuova società salariale), nei due paesi in questione. In questa maniera, si può partire dall’idea che il rapporto tra la flessibilità esterna e i sottoinsiemi della forza lavoro può essere reso esplicito secondo la tassonomia mostrata sotto.

8. Conclusione

Nella società salariale post-fordista e nell’attuale globalizzazione, la politica del lavoro in vigore nei due paesi qui considerati non cerca di garantire l’impiego come diritto universale (pieno impiego). La sua principale caratteristica è quella di offrire condizioni d’impiego in un contesto estremamente competitivo. Queste si traducono in politiche d’inserimento dei lavoratori attraverso la gestione pubblica delle indennità di ritorno all’impiego, invece di adottare politiche d’integrazione, con il risultato di accrescere la “nuova povertà” o il “neopauperismo” [NADEL, 1998; CASTEL: 1995]. In effetti, in Brasile ma soprattutto in Francia, i mutamenti favorevoli al capitale sono stati determinanti nelle attività statali di regolamentazione e di giurisdizione del settore dell’impiego femminile favorendone la sua prosperità e la libertà formale [MAJNONI D’INTIGNANO, 1999; TRONQUOY, 2001]. Nonostante il riposizionamento e il riequilibrio in corso del progresso quantitativo della forza lavoro femminile all’interno dell’impiego, non si ha alcuna riduzione delle discriminazioni nel mercato del lavoro [MARUANI, 2000]. In verità, i principali mezzi adottati dai governi francese e brasiliano durante gli anni ’90 (per quanto riguarda l’impiego), hanno un profondo ed intenso rapporto con la flessibilità del mercato del lavoro. Logicamente la separazione tra flessibilità esterna e flessibilità è possibile solamente per astratto, poiché tende a mettere in risalto un aspetto cruciale che fa parte di un argomento più complesso. Infatti la promozione delle donne e della parità dei sessi nell’impiego è inserita nel quadro più vasto dei rapporti salariali contemporanei, ossia della nuova società salariale post-fordista e della globalizzazione.

Sebbene nel periodo fordista predominasse una logica keynesiana, taylorista e fordista, dove la forza lavoro maschile (preferibilmente) era impegnata a tempo pieno e usufruiva, in parte, di guadagni sulla produttività più elevati, nella nuova società salariale, gli imperativi del capitalismo hanno comportato l’adozione di una logica d’impiego di tipo neoliberale che ha trasformato le caratteristiche dell’impiego. Ciò comporta anche l’abbandono di una logica “industriale” e l’ingresso nella logica dei “servizi”. La forza lavoro vive un processo di “feminização” [i], di esclusione dai guadagni sulla produttività e di occupazione con posti di lavoro precari, part-time, ecc. Così, per i lavoratori, la possibilità d’impiego diventa un’ossessione che comporta anche altri “accessori” neoliberali: la povertà, la precarietà, ecc. Durante il fordismo, sebbene le politiche pubbliche cercassero di assicurare il pieno impiego, queste erano, in un certo modo, sempre alla ricerca di una possibilità d’impiego. Tuttavia questa è una categoria storica e dipende dalla correlazione di forze tra classi sociali. Questa correlazione è parte della sua stessa essenza sia per quanto riguarda le misure della regolamentazione esterna al mercato del lavoro sia (come i diritti sociali e il diritto al lavoro) [5] per il sistema di negoziazione collettiva. È la regolamentazione statale e contrattuale che può impedire l’istallazione e il funzionamento di un mercato auto-regolabile le cui molteplici esperienze storiche rendono le società soggette a conseguenze devastanti (crisi, guerre, ecc.).

L’utopia di un mercato auto-regolabile appare sulla scena della storia come una mistificazione a sostegno ideologico delle politiche pubbliche della società salariale post-fordista e della globalizzazione. Queste politiche sono contrassegnate dal tentativo di fare conciliare due imperativi, che corrispondono in parte, agli interessi immediati della classe dei datori di lavoro e degli impiegati salariati. Questi imperativi rappresentano la domanda di flessibilità e aumentano sia il rendimento del capitale sia la possibilità d’impiego, quest’ultimo necessario ad assicurare un supporto della forza lavoro.Lo sviluppo in profondità e in estensione di questi imperativi si realizza attualmente in un contesto storico in cui la flessibilità predomina sulla possibilità d’impiego. Ciò esige una nuova forma di mediazione e di risoluzione dei conflitti che il movimento dei lavoratori attraversa, per il degrado delle condizioni d’impiego, del salario, ecc. Così la flessibilità va a beneficio dei datori di lavoro insieme ai suoi “accessori” neoliberali: la speculazione, il sapore del guadagno, ecc.

Il mito del ritorno all’auto-regolamentazione del mercato è rapidamente smentito dalla partecipazione statale all’insieme di condizioni di mediazione del processo che ingloba una nuova forma d’impiego sempre più precario, insicuro, ecc. È in questo senso che si sviluppa la regolamentazione statale nei confronti della discriminazione della forza lavoro femminile. Questo progresso arriva fino alla promozione del’impiego femminile e alla legislazione sui diritti delle donne. Tuttavia in un’era in cui il mercato del lavoro esige una natura flessibile, sensibile, mobile, agile, episodica, intellettuale, ecc. l’aspetto quantitativo non può nascondere quello sostanziale. Quest’ultimo è costituito, in ultima istanza, dalle misure adottate dai governi che cercano soltanto di fare della forza lavoro femminile un segmento perfettamente assimilabile al modello post-fordista e globale. Queste misure si distribuiscono nel tempo (post-fordismo) e nello spazio, sia centrale (in Francia) sia periferico (in Brasile).

In termini di paragone, affermare che l’esperienza francese si avvia a raggiungere quella brasiliana serve ad evidenziare una certa tendenza o a costatare certe caratteristiche comuni. Anche se si devono tener presenti le diverse sfumature che acquisiscono nei due paesi in questione. In effetti, le traiettorie e le politiche della flessibilità esterna adottate sono ben distinte, come ad esempio nel settore della precarietà e nell’esistenza di un sostenibile salario indiretto [6]. Così, in Brasile l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro non ha ridotto la differenza salariale tra i sessi, come invece è accaduto in Francia. La discriminazione sessuale nel mercato del lavoro in Francia è meno forte rispetto al Brasile, dove non esiste un’autentica promozione delle donne e della parità dei sessi nell’impiego. Questa differenza ha avuto effetti talmente pratici che, per esempio, durante la selezione per l’impiego in una azienda multinazionale francese situata sul territorio nazionale, non si è riscontrata alcuna discriminazione nei confronti delle donne sposate, cosa che invece non è avvenuta in Brasile [ANTUNES, 1999: 107].

Infine affermare in maniera categorica e senza un’attenta valutazione che in Brasile si sia stabilita e consolidata una società salariale post-fordista è così discutibile quanto asserire che nei paesi periferici sia mai esistita un’implementazione integrale del “fordismo”. In ogni caso questa questione è molto ampia e profonda e non può essere esaminata soltanto sotto l’aspetto della flessibilità esterna.


[1] “Perché qui il salariato è il modo prevalente d’esistenza sociale e che in funzione del trovarsi escluso implica una serie di effetti, il cui accumulo dimostra un’esclusione della stessa società” [PISANI-FERRY, 2000: 59].

[2] Sul RTT, vedere Gubian e Passeron [in TRONQUOY, 2001: 81-87].

[3] Per maggiori informazioni sul PROGER vedere Tomei [in OIT & MTE-BRASIL, 1999: 325-357].

[4] Per una critica su questo concetto di “pieno impiego patrimoniale” vedere Hussaon [2001: 81 e seguenti

[i] Ndt. Ingresso delle donne nel mondo del lavoro impiegatizio.

[5] “Un nuovo diritto sociale e del lavoro non cadrà dal cielo sempre che sia indispensabile. Questo dovrà essere una base essenziale, comune, valida per tutti; non saprebbe essere decretato dall’alto; è protagonista necessario, legittimo, autentico e partecipativo” [Barbier & Nadel, “000: 76].

[6] Nella nuova società salariale, una tra le conseguenze nocive della flessibilità dell’impiego è la difficoltà a generare salari indiretti ma soprattutto la pensione.