Il dominio dei brevetti e la globalizzazione diseguale

Marcos Costa Lima

Il ritardo tecnologico e le possibilità di sviluppo in America Latina attraverso il mercosud: opportunità in scienza e tecnologia

“Sono convinto che ogni generazione di un paese sottosviluppato debba essere dotata di uno spirito anticonformista di forte intensità, e di più impazienza di quella che ha avuto la generazione precedente, allo stesso tempo deve studiare e lavorare molto e più a fondo, perché sia più competente e sia all’altezza di affrontare le sfide che non smette di lanciargli continuamente, ogni giorno che passa, il mondo, che si va sviluppando e va acquisendo maggior potere di soggiogamento”.

J. Leite Lopes

In: Ciência e Libertação

Presentazione

L’articolo tratta, principalmente, dell’importanza che il binomio Scienza e Tecnologia [1] è arrivato ad avere nel processo di globalizzazione, diventando una variabile centrale, che definisce il futuro delle nazioni [2]. Il tema è fortemente discusso, particolarmente attraverso la corsa delle grandi imprese al diritto della proprietà intellettuale, notoriamente nei settori farmaceutici e della biotecnologia [3], o legati alla salute umana, che rappresenta uno dei campi di maggiore interesse economico e di maggior investimento nella ricerca, per le opportunità future che offre.

Per Jeremy Rifkin, nel suo Secolo Biotecnico, i geni rappresentano l’”oro verde” della biotecnologia e dei gruppi economici e politici che hanno il controllo, o si stanno preparando ad avere il controllo, delle risorse genetiche del pianeta, ed eserciteranno in futuro un potere smisurato sull’economia mondiale, come, all’inizio dell’era industriale, il controllo dei minerali e dei fossili era la condizione necessaria per avere il controllo dei mercati mondiali (Rifkin, 1998: 84). In questo senso, giunge l’interrogativo: in che misura i governi dei paesi periferici tengono in considerazione il problema e quali iniziative hanno messo in pratica per ridurre l’impatto futuro?

Sviluppando questo argomento, si verifica, da un lato, che l’accelerazione dei mutamenti tecnologici possiede una forte polarizzazione a partire dalle economie sviluppate e, dall’altro, che i paesi della periferia, per quanto grandi siano i loro sforzi, non hanno raggiunto lo stesso ritmo dei primi: da ciò deriva, di conseguenza, una dinamica che approfondisce la non-convergenza tecnico-scientifica.

Questo articolo, nella sua prima parte, presenta una riflessione di tipo più astratto, teorico, in relazione all’appropriazione dei risultati della conoscenza da parte dei paesi ricchi e all’approfondimento della disuguaglianza tra i conflitti Nord-Sud, sebbene vengano ideologicamente neutralizzati da potenti apparati mediatici, che promettono l’inserimento dei paesi emergenti nel circuito della globalizzazione, e nei suoi livelli di consumo perché promuovano mutamenti strutturali, sia a partire da politiche macroeconomiche di aggiustamento, sia liberalizzando i loro commerci internazionali, attraverso la riduzione delle barriere doganali, o la deregolamentazione dei sistemi finanziari nazionali e la flessibilizzazione dei mercati del lavoro.

Discute, inoltre, su alcuni nuovi concetti, ancora problematici, come i “beni pubblici mondiali”, “l’interesse generale mondiale”, “la giustizia mondiale”, termini prima concepiti come formulazioni utopiche e oggi, dato l’avanzamento promosso dalle grandi multinazionali mondiali, concepiti come argomentazioni teoriche che apportano critiche all’attuale paradigma tecnico-scientifico, cercando di garantire la protezione del dominio pubblico dell’informazione e della conoscenza nella difesa dell’interesse generale. Il nucleo teorico di questa critica si trova in autori di diversi campi della conoscenza e del sapere, che propongono “un’altra globalizzazione” [4].

Nella seconda parte, si affronta la disputa sul campo internazionale delle TRIPs (Trade Related to Intelectual Properties), specialmente riguardo alla salute umana che concerne il settore farmaceutico e il rivoluzionario settore della biotecnologia; le caratteristiche che denotano questi settori, così come le risposte brasiliane per affrontare queste nuove sfide.

Nella terza parte, il ritardo tecnologico dell’America Latina ed in particolare gli sforzi sviluppati dal Mercosud, soprattutto nel campo della Biotecnologia, che ancora non sono soddisfacenti nella battaglia per il superamento della dipendenza.

1. In cerca di una visione sistematica, o l’urgenza di un altro paradigma

L’accelerazione dei processi di mutamento della produzione di scienza e tecnologia, e la diffusione di innovazioni radicali, hanno suggerito ad un gruppo significativo di autori che ci troviamo in una fase di passaggio a un’era di informazione e conoscenza, evidente, soprattutto, nei paesi che comandano e danno il ritmo all’economia mondiale (Lundvall, 2001); (Cassiolato, 1999); (Albagli, 1999); (OCDE, 1992).

Questo complesso processo ha suscitato molteplici interpretazioni, riassunte nel termine globalizzazione, che, malgrado il significato polisemico, ha alcune caratteristiche forti già stabilite: in primo luogo si tratta di una nuova fase di internazionalizzazione del capitale iniziata negli anni ’80, risultante dalla politica di liberalizzazione e di deregolamentazione del commercio mondiale, delle relazioni di lavoro e delle finanze, sotto l’egemonia del capitale finanziario. Sotto questo regime, tendono a crescere la disoccupazione mondiale e la precarietà del lavoro, così come aumentano le disuguaglianze tra i paesi, a livello del reddito e delle condizioni di vita (Chesnais, 1999a). In secondo luogo, nonostante il settore produttivo non guidi più il processo economico, le grandi multinazionali hanno un ruolo preminente, si voglia per il ritmo accelerato dell’oligopolizzazione e della concorrenza, si voglia per la capillarità della presenza mondiale, che dominando (le multinazionali, nota d.t) praticamente le complesse relazioni che avvolgono la scienza e la tecnologia [5].

Questa irrazionalità, intrinseca all’attuale paradigma, si sostiene nel trittico: i) forma sociale capitalista; ii) uso intensivo di energia fossile e delle tecniche per trasformare l’energia in lavoro e iii) tradizione dell’illuminismo, radicalizzandosi nell’espansione neoliberale ha provocato effetti sostanziali e perversi, evidenziatisi, per esempio, nella versione del 2001 degli “Indici di Sviluppo Mondiale” elaborata dalla Banca Mondiale, che richiama l’attenzione sull’incremento delle disparità tra ricchi e poveri sul pianeta, dove dei 6 milioni di abitanti oggi esistenti, 1,2 milardi vivono con meno di 1 dollaro al giorno [6]. Nel 1999 veniva prodotta quattro volte più ricchezza che tre decenni fa, e dei 32,5 miliardi di dollari prodotti in quell’anno, l’80% sono stati prodotti dai paesi sviluppati. Altri indicatori di questa concentrazione informano che il 15% della popolazione mondiale, che rappresenta i ricchi, consuma il 50% dell’energia commerciale disponibile, il consumo di energia pro capite è 10 volte superiore ai consumi degli abitanti nei paesi a basso reddito e il 90% degli utenti di Internet vivono nei paesi ricchi (Kupfer, 2001).

Nel libro intitolato Globalização em Questão, Hirst e Thompson (1999) affermano che è venuto a crearsi un “mito della globalizzazione”, soprattutto perché, tra le altre ragioni, il ciclo economico del 1870-1914 veniva considerato più aperto ed integrato rispetto a quello attuale. Nonostante si fossero sbagliati nel “naturalizzare” il processo delle trasformazioni del capitalismo, che diventa evolutivo, gli autori inglesi presentano alcune riflessioni importanti per la comprensione delle attuali trasformazioni, principalmente quando indicano i tre elementi di maggior rilevanza:

• il fatto che la maggior parte dei gruppi delle multinazionali abbiano una forte base nazionale;

• l’alta concentrazione dei flussi di investimento diretto estero (IDE) nei paesi della Triade;

• la forte incidenza dei flussi commerciali, tecnologici e finanziari tra gli USA, l’Europa e il Giappone.

Diversi autori hanno richiamato l’attenzione sul “distacco” provocato dalla globalizzazione tra la sfera dell’economia e quella della politica. La nuova razionalità economica, che cerca la deregolamentazione, si rende autonoma dalla sfera politica e dal controllo sociale, la cui razionalità sta nella regolamentazione, sottomettendo la società alle leggi di accumulazione e alla razionalità che gli è inerente. Le corporazioni multinazionali acquistano un’eccessiva influenza sulle decisioni governative, soprattutto nei paesi periferici, riducendo l’autorità nazionale della sfera politica sul territorio e sulla popolazione.

Lo Stato nazionale, in termini astratti, stabilisce le condizioni di produzione della conoscenza; regola le politiche di concorrenza nel mercato e i meccanismi di appropriazione legale del settore privato, il quale rende dinamica l’innovazione tecnologica. Lo Stato nazionale reale, quello della periferia, si ritrova indebolito, sia perché il controllo di alcune delle variabili macroeconomiche è localizzato fuori del paese, sia per la presenza egemonica dei capitali produttivi internazionali in settori strategici del paese, sia per il volume del debito estero o anche per la dipendenza dalle tecnologie create all’estero. Se, come intendiamo far notare, l’apparato scientifico e tecnologico diventa uno dei fondamenti della legittimazione dello Stato, che si basa fortemente sulla razionalità tecnica per il mantenimento del sistema sociale, questa stessa razionalità presuppone un processo di generazione della conoscenza scientifica e tecnologica soggetto all’appropriazione legale ed economica, richiedendo quindi una pianificazione sofisticata, politiche pubbliche che lo gestiscano e lo controllino. Ora, uno Stato frammentato non avrà la possibilità di assolvere competentemente tale compito, perdendo, di conseguenza, in legittimità.

Il processo di avanzamento della globalizzazione tuttavia, non è avvenuto senza tensioni e contraddizioni. La trans-nazionalizzazione dei mercati si è opposta alla necessità dei Diritti Umani Globali [7]. Questi diritti non sono più riservati al dominio esclusivo dello Stato, alla competenza esclusiva nazionale, e vengono controllati a partire da un sistema normativo internazionale che dà loro una certa protezione. Molte volte, esauritesi le vie interne di giustizia, appena le istituzioni nazionali mostrano lacune od omissioni, le decisioni internazionali acquistano forza giuridica obbligatoria e vincolante. Come ben dice Flavia Piovesan [8]: “Queste trasformazioni, che partono dal movimento di internazionalizzazione dei diritti umani, hanno contribuito al processo di democratizzazione dello stesso scenario internazionale, già che, oltre allo Stato, nuovi soggetti di diritto diventano partecipi dell’area internazionale, come gli individui e le organizzazioni non governative. Gli individui si convertono in soggetti di diritto internazionale, tradizionalmente un’area in cui solo gli stati potevano partecipare” (Piovesan, 1999: 57).

L’articolo 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite si rimette a un ordine globale in cui i diritti e le libertà stabilite in questa dichiarazione vengano completamente realizzati. Siamo ancora molto lontani dal raggiungere obiettivamente un diritto cosmopolita effettivamente istituzionalizzato. In questa direzione Habermas (2000a) afferma che nella transizione da un ordine basato sugli Stati Nazionali ad un ordine cosmopolita non si sa cosa sia più pericoloso: se il mondo degli Stati sovrani “che da molto hanno perso l’innocenza”, o “la poco chiara amalgama delle istituzioni e delle conferenze internazionali dalle quali non si può sperare niente di più che un’incerta legittimità, una volta che queste istituzioni continuano a dipendere dalla buona volontà degli stati potenti e dalle loro alleanze” (op. cit. p.154).

C’è un insieme di giuristi contemporanei che si sono soffermati a difendere una visione integrata dei diritti umani, negando la compartimentalizzazione e, allo stesso tempo, svelando l’insufficienza delle risposte giuridiche per una piena esigibilità dei diritti economici, sociali e culturali, con particolare riferimento alla normativa internazionale e nazionale. In questo senso si rafforzano le idee di costituzione di un Patto Internazionale dei Diritti Umani, destinato a precisare dettagliatamente questi diritti e stabilire meccanismi di esigibilità a livello internazionale. Trattando del diritto all’istruzione, non sempre riconosciuto come diritto universale, dice Bobbio: “Sono precisamente certe trasformazioni sociali e certe innovazioni tecniche che fanno sorgere nuove esigenze; esigenze imprescindibili ed esigibili anche prima che queste trasformazioni ed innovazioni fossero venute alla mente” (1992, 75:76).

La rivoluzione microelettronica rappresenta un aspetto fondamentale di questo processo, che è stato poco considerato nell’analisi di Hirst e Thompson tanto da perdere di vista la radicalità implicita del fatto che la conoscenza è diventata la risorsa per eccellenza per la competitività nell’attuale economia, dove il vincolo tra sviluppo scientifico e tecnologico è ogni volta sempre più forte, dove la scienza non è più un’istituzione con forti tratti umanitari per la liberazione dell’uomo, ma si trasforma in mera tecnica, in forza produttiva strategica, in semplice commoditie. Questa è la tesi elaborata da Habermas, sulla scia di Weber e dei francofortesi, della scienza trasformata in “principale forza produttiva” in sostituzione del valore-lavoro, presente anche nell’opera di André Gorz. Non è altro l’ “uomo uni-dimensionale” nella concezione di Marcuse, che vive in una “società industriale che fa sue la tecnologia e la scienza ed è organizzata per un dominio delle proprie risorse ogni volta sempre più efficace” (Marcuse, 1973, p.36). Diventa irrazionale quando i suoi successi rendono più profonde le disuguaglianze tra gruppi, classi e nazioni.

L’ironia con cui Marcuse inaugura la sua Ideologia della Società Industriale -”una mancanza di libertà confortevole, dolce, ragionevole e democratica prevale nella società industriale sviluppata, testimone del progresso tecnico” (Idem, p.23) di fatto è arrivata soltanto alle classi medio- alte dei paesi della periferia, benchè terrorizzate sia per lo spettro della disoccupazione, che può raggiungere i loro figli, sia per la diffusione della quotidiana violenza urbana [9].

È interessante confrontare le idee di Marcuse con il pensiero recente di Pierre Lévy (1998), che ha sviscerato tutta una riflessione sul potere della tecnica nelle società contemporanee. Sebbene il filosofo di Francoforte ben capisca che i processi socio-tecnici sono raramente oggetto di deliberazioni collettive esplicite e, meno ancora, prese dall’insieme dei cittadini, Lévy (op. cit. p.9) non si fa profeta di una catastrofe culturale promossa dalla informatizzazione: “Non si tratta di una nuova critica filosofica della tecnica”, ma, principalmente, di mettere all’ordine del giorno la possibilità di una tecno-democrazia, che potrà essere ideata soltanto nella pratica. Il suo obiettivo maggiore è valutare il ruolo delle tecnologie di informazione nella costituzione della cultura e dell’intelligenza dei gruppi, dove la tecnica non deve essere affrontata come un male o come una catastrofe, o come una condanna morale a priori, come se fosse qualcosa di separato dal divenire collettivo e dal mondo delle necessità, della cultura.

Il fatto che la scienza e la tecnica abbiano acquisito, su questo fine secolo e principio di nuovo millennio, un valore politico e culturale tanto rilevante, fa che non possano essere viste solo sotto una luce di negatività. I prodotti della tecnica moderna sarebbero tutt’altro che conciliati con i loro usi strumentali perchè sono importanti fonti dell’immaginario, entità che partecipano pienamente all’istituzione di mondi percepiti.

Lo sfruttamento economico della produzione intellettuale, oggetto centrale di queste riflessioni, rappresentato dalla Legge sui Brevetti, nel contesto di una globalizzazione che, così come sostiene il giurista Paulo Bonavides, è un gioco senza regole, una disputa senza arbitri che pone il capitalismo un’altra volta sul banco degli imputati, diventa un problema. Nell’ampio campo della ricerca avviato dai progressi dei farmaci e della biotecnologia, sorge un insieme di domande direttamente relazionato all’appropriazione dei risultati della scienza, che regola il confronto tra forze economiche, Stato e Società e dove l’etica andrà ad occupare un luogo centrale. -----

2. Politica dei Brevetti, Farmaci, Biotecnologia, Biodiversità

2.1 Appunti storici

Il primo documento internazionale [10] di protezione delle invenzioni è datato 20 marzo 1883, quando a Parigi, 11 paesi, incluso il Brasile, crearono l’Unione Internazionale per la Protezione della Proprietà Industriale, dando origine alla Convenzione di Parigi che, da allora, è stata rivista sei volte. L’ultima revisione è stata realizzata a Stoccolma nel 1967 e ratificata dal Brasile secondo il decreto n° 1263 del 10 ottobre 1994.

La Convenzione di Parigi ha consacrato quattro grandi principi, che costituiscono i punti fondamentali che i sottoscriventi si impegnavano a rispettare:

I il diritto dell’inventore, nazionale o straniero, di registrare la sua invenzione ed usufruire conseguentemente dei privilegi relativi alla sua utilizzazione;

II l’equivalenza dei diritti dell’inventore straniero, posti allo stesso livello di protezione assicurato agli inventori nazionali;

III il diritto di “priorità”; che gode il richiedente di un brevetto per avere, per il periodo di un anno, precedenza in altri paesi in relazione a richieste che vengano presentate da altri;

IV il “principio di indipendenza” tra i brevetti concessi in diversi paesi per uno stesso processo o prodotto.

La decisione brasiliana di non riconoscere più brevetti di prodotti chimico-farmaceutici è datata 1945, alla fine del governo Vargas. Nel 1969, anche durante il governo Costa e Silva non venivano riconosciuti i brevetti relativi a processi nello stesso settore. Le due esclusioni vennero confermate dal Governo Médice, nel 1971. Decisioni simili vennero prese da Giappone, Italia, Svizzera, Canada, negli anni ’70 e non si scontravano il protocollo della Convenzione di Parigi.

L’ambasciatore Paulo Nogueira Baptista, che era a capo della delegazione brasiliana nel GATT tra il 1983 ed il 1987, spiega che l’adesione alla Convenzione di Parigi non rappresentava la rinuncia del paese su aspetti sostanziali e processuali, come i seguenti: i) definizione di cosa è un brevetto; ii) l’estensione dei privilegi concessi per il brevetto; iii) la definizione delle aree soggette a brevettabilità; iv) la durata di protezione assicurata dai brevetti; v) l’obbligo del registrante di sfruttare economicamente il brevetto ottenuto; vi) le sanzioni a cui è soggetto il registrante per abuso di potere economico nell’esercizio dei privilegi conferiti per il brevetto; vii) le sanzioni a cui sono soggetti i terzi, per l’infrazione dei privilegi concessi per un brevetto (Tachinardi, 1993).

Vari autori informano che, malgrado il rifiuto del governo brasiliano di brevettare prodotti e processi nel settore chimico-farmaceutico, queste misure non furono sufficienti a stimolare la sostituzione delle importazioni attraverso l’attivazione di industrie di capitale nazionale nel settore (Barbosa, 2001); (Tachinardi, 1993).

“Nel nostro paese, l’assenza di protezione del brevetto (dei farmaci) non ha inibito l’investimento straniero, (...) che è arrivato a dominare il 90% delle attività delle imprese del ramo, evidenziando una de-nazionalizzazione ineguagliabile per qualsiasi altro ramo dell’industria di trasformazione” (Barbosa, op. cit. p.95).

Lo stesso autore presenta un quadro abbastanza utile in relazione ai paesi sviluppati e periferici che hanno iniziato a proteggere con i brevetti il settore farmaceutico, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’60.

Per Barbosa, il progresso scientifico negli anni ’70 e la nascita dell’ingegneria genetica, aprendo grandi possibilità tecniche alla produzione di medicinali, ha finito per rinnovare l’industria farmaceutica mondiale e farle aumentare gli investimenti e recuperare gli interessi. Questo processo ha sospinto il mutamento nel quadro della legislazione dei brevetti, principalmente nel continente europeo.

Maria Helena Tachinardi, che aveva pubblicato “A Guerra das Patentes”, trattando dei conflitti tra i governi brasiliano e nordamericano in relazione alla proprietà intellettuale, afferma che tra il 1970 ed il 1990 in Brasile, gli Investimenti Diretti Esterni (IDE) nell’area della chimica crebbero di quasi otto volte e, in relazione alla farmaceutica, di 13 volte, oltrepassando gli IDE in altri settori industriali. Il fatto rafforza l’argomentazione che, anche senza un regime per i brevetti, gli investitori stranieri non si sentirono disincentivati ad impiantarsi in Brasile. Gli USA accusano il Brasile di non rispettare l’articolo 27 del TRIPs, quando la legislazione brasiliana decise di istituire lo strumento legale che prevede la possibilità della licenza obbligatoria ai brevetti (art. 28), con la convinzione che la sua legge non andava contro l’accordo internazionale [11].

2.2 La licenza obbligatoria, i generici, l’AIDs e la biodiversità.

Le nuove regole di proprietà industriale nel paese, attraverso la legge 9.279/96, vennero elaborate in conformità con l’Accordo Internazionale sulle Trips, firmato dal Brasile e da più di 123 paesi il 15 aprile 1994 (Barbosa, op. cit: 113). È risaputo che l’Accordo delle Trips è il risultato delle pressioni nordamericane [12] sui diversi gruppi di paesi, con l’intento di rafforzare la proprietà industriale. Gli USA promossero una denuncia (un comitato di indagine) nell’organo di soluzione delle controversie dell’OMC il 19 gennaio del 2001, contro la disposizione della legge di proprietà industriale brasiliana (art. 68, paragrafo I, 1) che esige lo sfruttamento dell’oggetto brevettato sul territorio brasiliano. Il punto nevralgico della questione è stato il Programma Contro l’AIDS, sviluppato dal Ministero della Salute, che minacciava di licenza obbligatoria i medicinali Nelfavinir e Evabirenz, dei laboratori Roche e Merck, utilizzati nel cocktail che combatte la malattia. La legge 9.279/96, esigendo lo sfruttamento del brevetto nel paese (local working requirement) da parte dell’impresa detentrice, la obbliga in caso contrario a concedere licenza di produzione a chi la faccia realmente, pena la perdita dei diritti di esclusività.

Il Brasile lancia ancora la Legge dei Medicinali Generici (l. 9.787/99) ed emana due misure legali nel campo della proprietà industriale, regolamentando la legge 9.279/96, soprattutto rispetto all’area dei medicinali. Il decreto n°3.201, del 6/10/1999, regola la concessione ex-officio della licenza obbligatoria, in casi di emergenza nazionale e di interesse pubblico, regolamentando l’articolo 71 della Legge 9.279/96. Per il decreto, l’emergenza nazionale o il pericolo pubblico comprendono i fatti relazionati alla salute pubblica, alla nutrizione, alla difesa dell’ambiente, e quelli importanti per lo sviluppo tecnologico o socio-economico del paese (Scholze, 2001, p.53).

Il mercato dei generici [13] in Brasile è stato possibile solo grazie all’introduzione degli strumenti legali, in primo luogo, ma anche per le pressioni della società civile, che si è associata agli interessi dell’industria nazionale privata, che oggi è leader non solo della produzione, ma anche della ricerca e della commercializzazione. La produzione e la commercializzazione dei medicinali sostitutivi è comune nei paesi industrializzati. Solo negli Stati Uniti il 72% delle ricette mediche corrisponde a medicinali generici. La OMS difende la loro diffusione come strategia per la riduzione dei prezzi. Anche in questo campo la concentrazione è molto grande; gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania rappresentano il 60% di questa produzione mondiale. Il grande interesse per i generici, afferma Fonseca, è che il mercato mondiale cresce in media dell’11% l’anno, inoltre si prevede che una cifra considerevole investita nei brevetti di medicinali scadranno nei prossimi anni, ma anche l’aumento dell’aspettativa di vita e dell’invecchiamento della popolazione mondiale, con l’aumento delle malattie croniche, innalza le spese pubbliche nel settore della salute (Fonseca, 2001: 198).

Il governo brasiliano commise il grave errore, in relazione alla legge delle licenze, di concederne più di quello che la Convenzione dell’Unione di Parigi e l’Accordo dei Trips esigevano e, secondo Celso Campilongo, ha intaccato l’interesse nazionale e pubblico, ampliando in questo modo, i diritti privati e limitando gli obblighi sociali, che sono di prassi nelle legislazioni dei paesi sviluppati. E per quanto riguarda i titolari dei diritti, va rilevato che i non residenti, sono più favoriti dei titolari nazionali. Da lì l’esser stata chiamata Trips-plus, per aver concesso più diritti e meno salvaguardia di quanto stabilito nell’Accordo suddetto. Per esempio, la nuova legislazione ha eliminato tutte le restrizioni relative alla rimessa delle royalty fisse. Il fatto si spiega con la riduzione dell’intervento dello Stato nel settore e, di conseguenza, con i tentativi di aumentare il livello degli investimenti diretti esterni. L’autore conclude che l’adozione della legge dei brevetti da parte dei paesi periferici, molto più che un’alternativa al progresso tecnologico, consiste in un meccanismo per evitare rappresaglie internazionali. Indebitati in dollari, questi paesi subiscono pressioni per cedere in regolamentazione ed autonomia, in un trade-off perverso, che penalizza sia i consumatori sia la sovranità, rendendo difficile la possibilità di sviluppo autonomo in R&S, aumentando l’evasione fiscale in valuta e riducendo il livello di occupazione.

L’industria farmaceutica è un settore estremamente oligopolizzato, dove circa 50 imprese controllano l’80% del mercato mondiale dei farmaci [14]. La ricerca nel settore è concentrata in sette paesi (Usa, Giappone, Inghilterra, Germania, Svizzera, Francia e Italia) nei quali si convoglia l’80% degli investimenti in R&S dell’area. È un settore che muove 170 milioni di dollari all’anno.

La questione della proprietà intellettuale, pertanto, non è nuova, ma con la trans-nazionalizzazione dei mercati e la conversione della scienza in fattore privilegiato di produzione, acquista una nuova dimensione. Secondo il sociologo portoghese Boaventura de Souza Santos (1989), le ricerche considerate promettenti in termini di possibilità commerciali, saranno mantenute segrete, come modo per preservare i vantaggi competitivi dell’impresa, e i risultati saranno resi pubblici solo quando la registrazione del brevetto venga garantita. In questo senso la rivoluzione multimediale è servita come pretesto alle multinazionali perché lanciassero un ciclo generale di revisione del diritto di proprietà intellettuale, iniziato nel 1976 con la revisione della legge sul diritto di autore (Copyright Act) negli Stati Uniti [15]. Anche in Europa l’appetito giuridico è evidente nella direttiva sulle Banche Dati (96/9/CE, del 11 marzo1996) e sulla protezione dei programmi informatici (91/250, del 14 maggio 1991) e ancora nella OMC con le TRIP (Accordo sui diritti della proprietà intellettuale). Prima di questo accordo, la Cina, l’Egitto, l’Argentina e l’India riconoscevano i brevetti sui procedimenti farmaceutici, ma non sui prodotti finali, cosa che permetteva loro la fabbricazione locale dei medicinali generici, che avevano costi considerevolmente minori. Le Nazioni Unite attraverso il PNUD affermavano, in maniera comparativa nel 1999, che il prezzo dei medicinali era 13 volte più alto in Pakistan piuttosto che in India, perché quel paese accettava il brevetto sul prodotto.

La vera tragedia che rappresenta oggi l’Africa del Sud, con i suoi 22 milioni di malati di AIDS, 65% delle persone sieropositive nel mondo, dimostra l’abuso e la crudeltà dei laboratori farmaceutici multinazionali, che insistono nella difesa dei loro brevetti, lasciando senza trattamento, per la restrizione del prezzo, la grande maggioranza degli ammalati.

La discussione sui prezzi dei farmaci e i diritti di licenza è arrivata all’apice quando il governo dell’Africa del Sud riuscì, per tre anni, a rompere il muro di resistenza delle multinazionali dei farmaci che producono medicine contro l’AIDS, come Bristol-Meyers, Glaxo, Merck, Boehringe [16], soprattutto europee e nordamericane.

Il portavoce della Federazione Internazionale dell’Industria [17] di Medicinali ha affermato che le leggi sudafricane avevano creato un “pessimo precedente” che poteva minacciare la protezione dei brevetti nel mondo, pericolo che poi si poteva disseminare nei paesi della periferia.

Si osservi nel quadro 2 la differenza nel prezzo annuale a persona in dollari, di una sostanza per il trattamento dell’AIDS, negli Stati Uniti, in Africa (prezzo offerto dai detentori di brevetto), ed in due laboratori indiani:

Il reddito medio annuale degli Stati Uniti è valutato in 35 mila dollari all’anno, quando in Africa lo stesso reddito è inferiore a US$ 350 per persona all’anno. Quindi, il cittadino africano non potrà mai pagare un trattamento che costa 10 volte ciò che guadagna tutto l’anno. Significa morire o morire.

In tutta questa polemica, argomenti come quello dell’economista Jeffrey Sachs (2001), che propone la definizione di prezzi differenziati dei medicinali per i paesi ricchi e poveri, mantiene la logica dell’assistenzialismo e della carità, ma non propone di alterare ciò, che lui stesso chiama “gallina dalle uova d’oro”, che rappresenta il sistemi dei brevetti o licenze. Anche la soluzione è ipocrita, perchè è risaputo che queste grandi multinazionali stanno cedendo i loro diritti di proprietà solo momentaneamente, soprattutto perché si tratta di una malattia che è fatale in breve tempo e, in certa misura, ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, rivelando peraltro la violenza interna al sistema. Infine, queste imprese non sono affatte disposte a cedere parte sostanziale delle loro percentuali sui medicinali, che non sono così urgenti come quelli per l’AIDS, ad esempio gli antibiotici, gli anti-ipertensivi o gli anti-infiammatori.

La ricerca scientifica patrocinata dai governi per un determinato numero di malattie, soprattutto quelle che colpiscono i paesi della periferia, sarebbe una misura di giustizia mondiale facilmente applicabile se venisse creato un “fondo globale di salute” partendo da una piccola percentuale imposta sulla vendita dei farmaci in tutto il mondo.

Ma l’AIDS non è l’unica minaccia ai poveri della periferia. I rimedi contro la meningite batterica, particolarmente attiva nei paesi del Sud, non sono stati più prodotti a partire dal 1995 dal gruppo Roussel Uclaf (che si fuse con la Hoescht nel 1997). La molecola attiva contro la leishmaniosi, che causa serie lesioni cutanee e porta alla morte, è stata messa fuori produzione per ragioni di basso ritorno degli investimenti. Il dottor Bernard Pécoul, della ONG Medici Senza Frontiere e coordinatore del progetto-farmaci, osserva che delle 1.223 molecole poste in vendita tra il 1975 ed il 1997, solo 143 erano per le malattie tropicali. E solo 5 tra queste erano prodotti della ricerca veterinaria (Bulard, 2000). È preoccupante verificare che 4/5 delle spese mondiali per la salute servono solo a 1/5 della sua popolazione.

A partire dal 1994, con le creazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e delle Trips in linea di principio diviene impossibile produrre un medicinale, o di comprarlo all’estero senza autorizzazione (esborso in royalty fisse) del proprietario dell’invenzione, che conserva questo privilegio per 20 anni. Tuttavia, in seguito alla pressione esercitata dalla Spagna e dal Canada, la situazione ammetteva clausole di eccezione: 1) in caso di urgenza nazionale; 2) quando il proprietario smette di produrre un medicinale per più di tre anni. In questi casi, qualunque governo poteva ricorrere alla “licenza obbligatoria”, e alle importazioni parallele. Le prime danno la possibilità di ricorrere ai medicinali generici, senza necessità di accordo dell’inventore e, le seconde, rendono possibile l’acquisto del medicinale dove fosse più economico.

Il deposito del brevetto, pertanto, torna ad essere una questione centrale e decisiva nell’ambiente scientifico mondiale, poiché quando la biodiversità viene associata ad una mercanzia, si impone una presa di posizione etica. Si sa oggi che ci sono da cinque a dieci volte più informazioni sui genomi nelle Banche Dati private, di accesso ristretto e a pagamento, che quella di dominio pubblico, di libero accesso. L’utilizzazione dei brevetti e i costi esorbitanti delle licenze, impediscono che medici e laboratori medici effettuino test genetici, limitano l’accesso ai trattamenti, riducano la qualità e aumentino i costi sperimentali. Questo processo è andato nel senso di una monopolizzazione di ciò che è vivo, attraverso la confisca di diversità genetiche da parte di un pugno di imprese. È forse il pericolo maggiore attualmente vissuto dall’umanità, vedere instaurarsi ufficialmente un’associazione tecnologica e finanziaria dei paesi ricchi, una sorta di G8 dei medicinali, che decide il livello delle ricerche, il lancio di questo o di quell’altro prodotto. Il corso degli eventi sta accentuando ancora di più gli squilibri tra paesi ricchi e poveri, per cui alcuni avranno il diritto di accesso alle terapie di punta, dispendiose e protette da diritto d’autore, gli altri potranno solo utilizzarle dopo 20 anni, quando scade il brevetto, oppure rischieranno di essere esposti ai prezzi a livello di estorsione dei medicinali. È per queste e altre ragioni che la ONG Medici Senza Frontiere si sta battendo per decretare che le ricerche sul genoma umano e sulla biodiversità siano configurate come beni pubblici mondiali.-----

Uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Salute [18] ha osservato che il settore farmaceutico affronta gravi problemi che scaturiscono dall’assenza di concorrenza. Di fatto i 2/3 del mercato mondiale dei farmaci sono controllati, più o meno, da 20 grandi gruppi [19]. Il movimento di concentrazione sì è accelerato, attraverso dei processi di fusione di mega-imprese. Sul mercato c’è un prezzo quasi unico, determinato dalle tariffe praticate negli USA [20].

Nel 1995, secondo Bouguerra (2001), il MIT, aveva scoperto che su 14 farmaci dei più promettenti agli occhi dell’industria nordamericana nei prossimi 25 anni, 11 nascevano da ricerche finanziate dallo Stato, demistificando, in questa maniera, l’argomentazione che sono solo le imprese a finanziare la ricerca, la principale giustificazione ai brevetti.

Il giornalista Philippe Demenet (2001), in un articolo su ciò che intitola “apartheid medico”, informa sull’appetito delle grandi compagnie di farmaci, esemplificandolo attraverso diversi casi, come quello della mostarda indiana (brassica campestris) che ha depositati su di sé 16 brevetti per l’industria Calgene in USA e Rhône Poulanc ed è conosciuta dagli indù, da tempo immemorabile, per le sue virtù come anti-emorragico, contro la perdita dell’appetito, il disordine mentale, vermi e reumatismi. Un altro caso è quello dell’albero conosciuto in India come Neem (azadirachta indica) o “dono di Dio”, che i contadini utilizzano come trattamento medico o per elaborare insetticidi naturali, che ha ben 62 brevetti esistenti che lo riguardano.

Nonostante la Convenzione Sulla Biodiversità, entrata in vigore nel 1993 e sottoscritta da 169 paesi, ad eccezione degli Usa, le comunità locali dell’Amazzonia, dell’India o dell’Africa, non hanno alcun beneficio sul processo. È assurdo che la legge nordamericana e quella della OMC non riconoscano la validità della scienza non-occidentale. Da millenni gli indù applicano lo zafferano in polvere o in pasta sulle ferite e i tagli. Ebbene dal 1995, gli uffici pubblici nordamericani di brevetti attribuiscono la proprietà esclusiva del “metodo per promuovere la cura di una ferita”, con la somministrazione dello zafferano, a due ricercatori dell’Università del Mississippi.

2.3 Nuovi concetti, nuovi diritti.

In un periodo storico dove mai la scienza e i suoi frutti sono stati così considerati, una delle irrazionalità contemporanee si evidenzia in tutta la sua grandezza quando si osserva l’evoluzione del diritto alla proprietà intellettuale, parte chiave delle attività in C&T e uno dei pilastri del paradigma odierno. L’opinione internazionale vuol far valere l’idea che si tratta solo di un adeguamento tecnico alla società di informazione, un adeguamento ai mutamenti che sono in atto nel capitalismo. La dottrina dei brevetti diceva si trattasse di uno strumento per proteggere l’interesse generale, che assicura la diffusione universale delle conoscenze e delle invenzioni, in cambio del monopolio dello sfruttamento consentito agli autori, per un periodo limitato di tempo. La protezione sarebbe la condizione per favorire la creazione.

Le grandi multinazionali mondiali si sono mobilitate a livello internazionale, soprattutto con l’appoggio del governo nordamericano per riesaminare il diritto di proprietà intellettuale. Avevano già ottenuto l’estensione e la durata di certe protezioni e la creazione di nuovi diritti. Come afferma Philippe Quéau, direttore della divisione di informazione ed informatica dell’Unesco, la materia esige una discussione più profonda sulla proprietà della conoscenza, sulla nozione di “interesse generale”, come condizione perché i gruppi dominanti non facciano pendere il diritto di proprietà intellettuale dal loro lato. In questo senso, garantire la protezione di un “dominio pubblico mondiale” dell’informazione e della conoscenza è un aspetto importante nella difesa dell’“interesse generale”. Affermando con ragione che la maggior parte delle invenzioni e innovazioni si appoggiano su idee che fanno parte del patrimonio comune dell’umanità, sarebbe assurdo ridurre l’accesso alle informazioni e alle scoperte che costituiscono il bene comune, per effetto di un diritto che si preoccupa eccessivamente di difendere interessi particolari (Quéau, 2000).

In uno dei suoi ultimi lavori Immanuel Wallerstein (1999) parla di un ciclo economico lungo, iniziato nel 1789 e, per lui, chiusosi nel 1989. Il filosofo-storico dell’economia mondiale, scrutando il futuro che ci attende, sottolinea l’urgenza di riprendere il concetto dei diritti dell’uomo e di lavorare affinché questi vengano applicati, sia a livello nazionale che internazionale, e il diritto che le comunità hanno di proteggere le loro eredità culturali (scosse dalla globalizzazione), non deve essere mai formulato come diritto di protezione dei loro privilegi. Considerando lo scontro che sta per avvenire nel capitalismo, e che non necessariamente passerà a livello della sfera dello Stato, a ragione, soprattutto, del processo di delegittimazione che gli Stati-Nazionali vanno soffrendo, il pensatore del sistema-mondo lo individua ad un livello più locale e tra gruppi multipli, con strategie di alleanze complesse e flessibili, ma sempre conservando obiettivi egualitari come idea-forza.

Il conflitto Nord-Sud è presente nella sua interpretazione dei conflitti attuali, ed è uno degli elementi forti che danno origine alla crisi del sistema. L’“aiuto caritatevole” dei paesi affluenti sta nella logica dell’irrazionalità di un sistema-mondo che ha bisogno di essere ricostruito.

Per tutti questi motivi è necessario ripensare l’equilibrio tra pubblico e privato, tra le attività degli attori nel quadro globale, che implicano tanto gli Stati, quanto le grandi imprese, le ONG, gli individui e il dominio pubblico. Come rendere più responsabili dei propri atti e dei danni che possono causare gli Stati e le grandi multinazionali del mondo sviluppato? Come sottolinea Inge Kaul, è necessario consolidare nuovi strumenti intellettuali, che per di più passino per la realizzazione di obiettivi comuni e per la cooperazione internazionale e, in questo senso, “il bene pubblico globale è [una categoria] abbastanza utile” (Kaul, 2000).

Nel XVII secolo vennero firmati i primi Trattati Internazionali, garantendo il libero accesso all’alto mare. Questi accordi si moltiplicarono fino all’inizio del XX secolo: il trasporto di merci, il commercio, le telecomunicazioni, l’aviazione civile. Lo spazio e l’oceano, che esistevano prima di qualunque attività umana, erano concepiti come bene pubblico globale e sottoposti ad un regolamento internazionale. Quando sono Trattati Multilaterali e di interesse planetario, questi accordi costituiscono un bene pubblico globale, perché creano un quadro regolamentare comune. Secondo Kaul, questi primi beni globali sono più importanti che mai, per il fatto della crescita delle attività economiche internazionali e della mondializzazione della tecnica e della comunicazione.

Il controllo delle epidemie costituisce, dopo più di 100 anni, uno dei cardini della cooperazione internazionale, ma non può più funzionare sotto il semplice coordinamento dei sistemi nazionali di allerta una volta che uno stato può benissimo essere tentato di dislocare le risorse del bilancio verso altre attività. Quindi, le questioni di politica mondiale esigono più che accordi di principio, una armonizzazione delle politiche, il rispetto delle norme internazionali e non, come hanno fatto sistematicamente gli USA, di non rispettarle confidando nel loro potere militare ed economico di rappresaglia. La non sottoscrizione del trattato di Kyoto, sul clima mondiale è un esempio evidente.

Diversi fattori evidenziano l’urgenza di questa determinazione per un nuovo tipo di bene globale, soprattutto per l’ampliamento degli effetti perversi che, tra gli altri, hanno provocato un rischio sistemico globale:

• Uso eccessivo di cloro fluoro carburi (CFC)

• Incendio di foreste

• Inquinamento degli oceani

• Spargimento di petrolio

• Uso della radioattività

• Radiazioni elettromagnetiche

• Aumento dello stress

• Uso o di pesticidi

• Frequente volatilità dei mercati finanziari

• Riscaldamento del pianeta

• Oligopolio sui medicinali

• Disoccupazione strutturale

• Aumento della violenza

In secondo luogo il potere crescente degli attori con raggio di azione globale non statale -imprese multinazionali, ONGs, FMI, Banca mondiale, OMC, ONU- con i loro obiettivi specifici, spinge gli stati nazionali ad aderire a norme politiche comuni, sia in termini di standard(OIT) che di rispetto dei diritti umani, che sono positive, o a politiche imposte di aggiustamento economico -con effetti tremendamente negativi e distruttivi sulla periferia del mondo.

Le buone intenzioni non sono sufficienti per produrre beni pubblici globali. Il protocollo di Montreal del 1987 e il Trattato di Kyoto, che progetta di ridurre le emissioni di cloro-fluoro-carburi per minimizzare la distruzione della calotta di ozono, sono rare eccezioni. Alcuni beni pubblici globali, soprattutto nel dominio della conoscenza, dovrebbero basarsi su una legislazione tassativa; per esempio, il vaccino contro la poliomielite, il vaiolo, l’AIDS. I brevetti in questo caso, sarebbero considerati come un “male pubblico”.

La crescente importanza attribuita alla dimensione dei beni pubblici globali, guardando al nuovo quadro mondiale che si presenta, fa si che bisognerebbe mettere come condizione preliminare, come suo fondamento, il principio della giustizia mondiale, nel senso dell’equità, che inizia con dimostrazioni inequivocabili da parte dei paesi che più possono contribuire, non nel senso dell’aiuto o delle forme di compensazione, ma intendendo che queste forti differenze tra paesi del Nord e del Sud, fortemente ancorate allo sfruttamento e alle determinazioni storiche coloniali, sono cristallizzate anche attraverso processi oligarchici e autoritari nazionali.

Questa discussione ha bisogno di un maggior respiro concettuale, poiché sia i principi liberali di universalità che di individualismo, che sono i due segni della modernità, non fanno da assi all’etica o alla filosofia politica e non rispondono neanche ai problemi del nostro tempo. Marx già si riferiva all’universalismo come ad una cosa astratta e allo stesso modo all’individualismo, poiché non era legittimo riferirsi a categorie come “tutti gli uomini”, che sono generiche e non fanno altro che occultare le differenze reali, che in verità sono le cause di tutti i conflitti. Da lì la debolezza di “tutti gli uomini sono liberi ed uguali”. In questo senso, ci dice Victoria Camps, l’individuo che crea la modernità è il soggetto di diritti: è il soggetto della morale razionale, impersonale, universale. Ebbene questo soggetto non esiste. Precisamente perché è trascendentale, non esiste in nessuna parte (Camps, 1993: 72).

La nozione di “priorità globali condivise” è stata un’esperienza per le Nazioni Unite e per le loro istituzioni settoriali, anche considerando il suo svuotamento durante la seconda metà del XX secolo. In questo senso, si ritorna a Habermas e una nuova forma di integrazione sociale, secondo lui, basata sulla “solidarietà cosmopolita”, ora liberata dall’ideale kantiano della pace mondiale per mezzo del commercio. Per il filosofo, la regolazione di una società mondiale ancora non ha preso forma, neanche sotto forma di progetto e, se questo avvenisse, non avrà come destinatari i Governi, ma la società civile, che trascenda le frontiere nazionali (Habermas, 2000).

Esiste tutta una corrente di importanti intellettuali come Bobbio, David Held e lo stesso Habermas, che, basandosi sull’idea kantiana di unità morale del genere umano, sono giunti a considerare il cosmopolitismo -fondato sulla preservazione dei diritti umani, e sul controllo ambientale, sull’equilibrio demografico, sulla pace- come il modo migliore di affrontare i grandi problemi mondiali. Difendono il rilancio delle istituzioni internazionali e sopranazionali e contemplano l’avanzamento di un “diritto di ingerenza”, destinato a punire il genocidio o le pulizie etniche. Ma chi darà supporto a queste “istituzioni internazionali umanitarie”, chi le finanzia? [21]

Nessun lettore di giornale si inganna oggi sul vincolo tra la produttività e la distruzione. Di fronte a una situazione di concorrenza altamente efficiente, i nostri governi si getteranno in una gara di deregolamentazione per ridurre i costi, e che ha condotto nell’ultimo decennio verso interessi osceni e disuguaglianze drastiche tra i salari, all’abbandono delle infrastrutture culturali, a una crescente disoccupazione e alla emarginazione di una popolazione povera che aumenta ogni giorno. Per riconoscere ciò non abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio, perché non ci inganneranno più con una “società dell’abbondanza”” (Habermas, 2000: 204).

Ma benché Habermas abbia recentemente assai depurato il concetto kantiano di realizzazione della pace mondiale per via del commercio, come è evidente in questo suo recente testo, non si può ignorare la consistente critica portata da Meszáros (1996; 45) all’autore della Teoria di Azione Comunicativa, che si attende “troppo dalla razionalità del sistema socio economico e politico borghese”; così, il suo punto di vista liberal-democratico occidentale finirebbe per ignorare sistematicamente, non solo la difficile situazione degli sfruttati del Terzo Mondo, ma anche la serie di limitazioni storiche strutturali sotto le quali viene realizzata tutta la comunicazione nelle società di classe. Tutto sembra indicare che a breve termine, tenendo in considerazione il consolidarsi dell’“Era di Bush”, si approfondisca la direzione dell’intolleranza e dell’insicurezza globale, quando tutto ciò di cui si avrebbe bisogno è il contrario. In ogni modo, sorgono nell’arena internazionale, benché in embrione, nuovi soggetti sociali che protestano a partire da una piattaforma “verso un’altra mondializzazione”. È ancora troppo presto per prevedere gli sviluppi su questo “nuovo scacchiere”.

Alcune questioni, tuttavia, iniziano a diventare più chiare, dato che il radicamento e il consolidamento di un nuovo paradigma non possono più accettare qualunque innovazione scientifica e tecnologica; devono venire associati a nuovi sistemi di sostentamento sociale, ambientale, che siano fortemente distributive. E innovazione ambientale in questo contesto vuol dire tecnologie non inquinanti; innovazione sociale vuol dire che si possa influenzare positivamente il modo di vita delle popolazioni nel loro quotidiano.

3. Ritardo tecnologico in America Latina negli anni ’90

La scienza e la tecnologia, al contrario di ciò che hanno affermato i positivisti e neo positivisti, sono sempre inserite nelle strutture e nella realtà sociali della loro epoca. L’idea secondo la quale la scienza segue un corso di sviluppo indipendente o immanente, dal quale le risultanti tecnologiche nascono e si impongono su società come una istanza ferrea, è un’idea sbagliata e molto ideologizzata. Oggi viviamo il feticcio dell’autonomia nazione della C&T, come se fossimo sottomessi a una logica inesorabile. La stessa apparizione di Internet, uno degli elementi rivoluzionari del complesso informatico, si deve alla macchina militare da guerra degli Stati Uniti d’America e non pare corretto condannare la tecnologia, ma solo la forma di utilizzazione. Nello stesso senso, incolpare la scienza per le implicazioni minacciose dei suoi prodotti -ad esempio la clonazione ed i transgenici- che sono di fatto prodotti del modo socialmente dominante della produzione nella sua totalità può sembrare assurdo. Ma è difficile negare che dal progresso della Biotecnologia si possano trarre benefici inestimabili sul controllo o anche la stessa estinzione di molte malattie degenerative, come il diabete e il morbo di Parkinson. La questione è soprattutto sul tipo di uso, nell’assenza di regolazione sociale e nella appropriazione privata della conoscenza. Tanto assurdo quanto insultare la scienza sarebbe immaginare che l’azione isolata di scienziati illuminati possa invertire il processo in corso.

Capire questo è necessario per fare domande che sono fondamentali: la scienza che stiamo praticando è quella di cui abbiamo bisogno? Che tipo di scienza desideriamo? Quali devono essere i suoi obiettivi? Chi determina le sue priorità? - le risposte devono, in un sistema democratico, essere decise dalla maggioranza della società. Mai l’umanità ha avuto tanti mezzi a sua disposizione per risolvere, con un livello minimamente accettabile, la questione delle carenze elementari di vita del pianeta. Con tutto ciò, la ragione sembra stare dalla parte del pensatore ungherese István Meszáros, quando sintetizza “grande dilemma della scienza è che il suo sviluppo è sempre stato legato al dinamismo contraddittorio del capitale stesso” (Ibidem, 265).

L’opera di Schumpeter è stata fondamentale per capire l’accelerazione tecnologica che ha avuto inizio a partire dalla seconda metà del XIX secolo. L’economista austriaco ha introdotto il progresso tecnico come elemento decisivo nel processo di concorrenza intercapitalistico e quindi, nella determinazione delle trasformazioni e oscillazioni che attraversa il sistema economico. Nel caratterizzare il processo tecnico come qualcosa che percorre tre fasi -l’invenzione, l’innovazione e la diffusione, Schumpeter ha affermato, al contrario di ciò che è successo nell’evoluzione di questo progresso, che l’invenzione sarebbe una riserva che si andrebbe ad ampliare permanentemente e si collocherebbe senza problemi alla portata degli impresari innovatori. Che fortuna sarebbe se l’accumulo di invenzioni fosse, come i libri, disponibile nelle librerie delle biblioteche pubbliche! In verità, ci sono barriere strutturali che impediscono il libero accesso alla conoscenza per via naturale ed evolutiva.-----

In uno studio del 1995 Patel rappresenta la forte evidenza dell’affermazione del controllo tecnologico esercitato dalle multinazionali, nell’analizzare un campione di 569 imprese nella OCDE, sull’aspetto dell’internazionalizzazione in Ricerca e Sviluppo. Delle imprese studiate, 341 realizzavano meno del 10% dei loro sforzi tecnologici all’estero e solo 43 realizzavano più del 50% degli sforzi in altri paesi. Le più grandi imprese del Giappone, degli Stati Uniti, di Francia e di Germania effettuavano più dell’85% delle loro spese in R&S entro le loro frontiere Costa Lima, 2000).

Questi dati convergono con le tesi di Celso Furtado sulla valutazione dell’efficacia del processo di sostituzione delle importazioni in America latina, realizzate attraverso dei gruppi stranieri. Per l’economista, questo processo è stato ed è limitato, in primo luogo perché le imprese straniere rispondono ad un sistema di decisioni che sta fuori del paese. In secondo luogo perché decentralizzano determinate attività, mentre ne centralizzano altre, specialmente quelle di maggior valore aggiunto basate sulle tecnologie di punta. La complessità e la rapida obsolescenza dei prodotti le rendono dipendenti sempre di più dagli input delle case-madri. In terzo luogo, ancora più determinante, è il loro scopo, per ciò che concerne l’integrazione internazionale.”Che paesi come il Brasile e l’Argentina, che hanno raggiunto un grado relativamente elevato di industrializzazione senza per nulla riuscire a modificare la composizione delle esportazioni -che continuano a riflettere le vecchie strutture esportatrici di materie prime- costituisce la chiara indicazione di ciò che questo tipo di industrializzazione è, un semplice adattamento di una nuova forma di dipendenza esteriore” (furtado, 1987: 40).

Sebbene l’America latina abbia costruito, dall’inizio degli anni 50, una ricca e creativa produzione accademica in relazione agli ampi temi della scienza, della tecnologia, dell’innovazione e soprattutto delle politiche di sviluppo, quando è giunta a formare le proprie specifiche agenzie di scienza e tecnologia, (il CNPq, in Brasile ; il Conycet in Argentina; il Conacyt in Messico e il Conicyt in Cile nel 1965); qualunque bilancio o valutazione del settore negli anni 90 non può essere ottimista (Soares [22], 2001).

Ci sono stati sicuramente contributi inestimabili come quello dell’argentino Amílcar Herrera [23], che fissa la distinzione tra le politiche tecnologiche esplicite e implicite, strumento molto utile nell’indicarci che le decisioni in materia di politica economica e di industrializzazione sono quelle che definiscono la dinamica tecnologica, indipendentemente dalle strategie politiche e piani di C&T. Le strategie esplicite, quasi sempre ispirate nell’esperienza dei paesi industrialmente avanzati, erano in generale descritte in progetti e documenti che difficilmente uscivano dalla carta in cui erano scritti, perché richiedevano uno Stato diverso e trasformazioni sociali che non esistevano. Fondamentale è anche il suo contributo nel senso di rivelare le cause del ritardo scientifico e cercare i modi per superarlo attraverso una politica di C&T adeguata alla realtà della regione, rivelando che le imprese dell’America latina presentavano una serie di condizionamenti che hanno generato degli ostacoli, ad esempio la non combinazione dei risultati in R&S delle università; i comportamenti delle imprese; la struttura dell’industria. Indica come uno dei nostri problemi, la dimensione delle imprese, le imprese del Nord non sono solo più grandi delle maggiori del Sud, ma lo sono anche in numero, concentrando i loro investimenti in ricerche sulla formazione. O ancora quando per la necessità di formulare strategie di ricerche nelle case-madri articolate e ancorate a progetti nazionali che facciano parte di una politica scientifica ampia (Oteiza, 1991).

Altri autori hanno dato dei grandi contributi, che non c’è bisogno di mettere in dettaglio qui, ad esempio Oscar Varsavksy, che propone la formazione di squadre interdisciplinari di scienziati; quello di Jorge Sábato e il suo modello triangolare, che sottolineava la mancanza di articolazione e le debolezze tra Governo, infrastruttura di ricerca e struttura produttiva, senza dimenticare l’urgenza che invocava, nel trasferire i risultati della ricerca e dell’articolazione dell’infrastruttura scientifica e tecnologica alla struttura produttiva della società. O ancora Osvaldo Sunkel, che accentuava l’impatto sulla periferia dei processi di transnazionalizzazione combinata con la sostituzione di importazioni. I lavori di Jeorge Katz, che valorizzavano gli aspetti incrementali delle fasi tecnologiche, dell’apprendistato collettivo degli adattamenti; dei loro studi sui brevetti in America latina. Non possiamo dimenticare “l’industrializzazione monca in America latina”, di Fernando Fejnzylber e la scoperta delle “competitività spurie”; nemmeno della competente produzione del nucleo “neo-schumpeteriano” di Economia Industriale della UFRJ,Paulo Tigre, Fábio Erber, Cassiolato. Non è stata e non è la mancanza di competenza investita e di teorizzazione originale ciò che ha ostacolato l’indipendenza e l’avanzamento tecnologico nella regione.

L’America latina,è in extremis, una risultante delle trasformazioni che si sono avute nel continente europeo nel suo passaggio alla fase mercantile del capitalismo. Senza ombra di dubbio ha le sue particolarità, i suoi processi di articolazione coloniale, di liberazione di costruzione sovrana. Ma il carattere della dipendenza esterna e del sottosviluppo è un tratto indelebile della sua storia. Il CEPAL ha pubblicato recentemente un comunicato dove si legge che nel 1960 c’erano nella regione 114 milioni di poveri, che sarebbero aumentati a 196 milioni nel 1990, arrivando al 1994 con la triste constatazione che “il numero dei latino americani e caribegni in situazione di povertà raggiunge i 210 milioni”, per una popolazione di 481 milioni nel 1995 (Costa Lima, 2000).

Nonostante la crescita sistematica del PIL regionale tra il 1950 e il 1980, quando raggiunse la media del 6% l’anno, e la cattiva costruzione dello sviluppo, ha generato una serie di squilibri che oggi si vedono aggravati, tenendo in conto gli “anni perduti del 1980”, il basso tasso di crescita risultante dalle politiche di aggiustamento, che includono la concentrazione di reddito e l’assenza di politiche sociali strutturali (tabelle 1, 2 e 3).

I paesi sviluppati al contrario di ciò che ha fatto l’America latina, aumentarono il livello di qualità dell’educazione oltre l’aumento del numero di matricole, elevando considerevolmente le spese, per un valore compreso tra i US$ 2000 e i US$ 4500 annui per alunno, quasi dieci volte di più che in quella regione. Questa è una sfida che dovrà essere affrontata con fermezza e creatività, se si vuole stabilire un sistema regionale di innovazione degno del nome (Sainz e Calcagno, 1992).

Se consideriamo il Decennio Perduto degli anni ’80 e le politiche di aggiustamento prevalenti nel consiglio di Washington, che stabilirono un modello economico basato sullo stato minimo (privatizzazioni); deregolamentazione finanziaria e lavorativa e controllo monetarista, è più facile capire i risultati rozzi e contraddittori della regione, soprattutto dei grandi paesi, in termini di progresso tecnologico, nonostante i grandi investimenti diretti come risultante della vendita delle imprese statali e della politica di apertura commerciale.

Con degli indicatori così sostenuti della concentrazione di reddito e dello scarso investimento dispendio e in un settore così strategico ed essenziale come l’educazione, evidenziati nelle tabelle 2 e 3, è difficile per l’America Latina presentare risultati significativi in Scienza e Tecnologia.

Se non bastassero gli equivoci accumulati nel tempo nella regione, in termini di comprensione del ruolo decisivo nella globalizzazione, nei settori significativi della società civile, benché si parli della nuova società di informazione e di conoscenza, lo spirito che prevale è molto più quello della subordinazione, della ricerca di imitazione o dell’importazione diretta.

Sebbene ci sia un grande insieme di problemi comuni nella regione, è importante segnalare le asimmetrie e le differenze in C&T esistenti, come si può vedere nella tabella 4 sotto.

Malgrado tutto, e malgrado la forte concentrazione brasiliana nel settore, se facessimo una comparazione con gli USA, si riscontrerebbe l’enorme fragilità della posizione dell’America Latina.

Anche riconoscendo l’eterogeneità della situazione, in S&T in America Latina, possiamo sintetizzare i punti nevralgici del ritardo tecnologico della regione, senza dimenticare che la stessa natura delle crisi e le instabilità politico-economiche, da ciò decorrenti, stanno alla radice del problema:

• Assenza di una politica industriale coerente ed autonoma, capace di dare una direzione agli investimenti nel settore;

• Debole relazione con le necessità di sviluppo, soprattutto per il lungo progetto della ISI (Industrializzazione Sostituzione di Importazioni), più importatrice che creatrice;

• Mancanza di convergenza dei piani in C&T con le strategie di sviluppo economico sociale e politico;

• Modello sbagliato di C&T, che privilegia il breve termine, senza continuità e disarticolato;

• Scienza e la Tecnologia non effettivamente considerate come attività strategiche e prioritarie per lo sviluppo nazionale;

• Scarsa partecipazione del settore privato nella produzione di C&T, dimostrata dal numero dei ricercatori ed ingegneri che stanno nelle imprese localizzate nel paese;

• Estrema dipendenza dai “pacchetti tecnologici” esogeni;

• Basso livello di aiuto in C&T alle piccole e medie imprese;

• La capacità in risorse umane, contraddittoriamente formata dallo Stato, non ha risorse sufficienti per un miglior disimpegno;

• Concentrazione regionale degli investimenti nel settore;

• Isolamento della comunità scientifica, malgrado il protagonismo centrale che esercita, rispetto alle richieste del settore industriale

• Forma autoritaria di conduzione delle politiche in C&T, con ridotta partecipazione della comunità scientifica nelle decisioni su proposte e assegnazioni di risorse;

• Inesistenza o blando controllo dello stato in relazione alle importazioni realizzate dalle grandi corporazioni multinazionali;

• Assenza di responsabilizzazione del grande capitale internazionale sul rapporto tra lucratività e sviluppo sostenibile dei paesi della regione.

3.1 C&T in Brasile negli anni ’90

Per l’economista Maria da Conceição Tavares, in un saggio brillante e pessimista, l’economia brasiliana è sempre cresciuta “verso l’interno” e allo stesso tempo è sempre stata inserita in forma periferica e dipendente dall’ordine economico mondiale. Malgrado non possa contare sulla generazione di progresso tecnologico proprio, neanche con valuta convertibile sul mercato mondiale, è stata una delle economie che, per più di 100 anni, ha avuto uno dei maggiori tassi di crescita del mondo capitalista (Tavares, 1999: 456).

Il Brasile ha sempre funzionato come una piattaforma di espansione del capitale industriale (1950) e, soprattutto, finanziario (dal XIX secolo) internazionale. In pieno XXI secolo, gli interessi degli Stati Uniti per il Brasile sono di mantenere la vocazione agro-esportatrice (i nostri “vantaggi corporativi”), di preferenza all’interno delle proprie regole di libero commercio, delle quali essi stessi sono autori (Costa Lima, 2000).

Avevo segnalato in un altro articolo le trappole di un modello di sviluppo senza creatività, senza forza endogena, strutturato in maniera che la leadership delle sue industrie venisse esercitata attraverso filiali di imprese e i cui centri di gravità erano localizzati in altri paesi, e l’approfondimento di questo modello difficilmente svilupperà un processo creativo interno, perché questo non è l’obiettivo di chi comanda il processo (Costa Lima, 2000).

Lo stesso con la creazione, nel 1951, del Consiglio Nazionale di Ricerche -CNPq, non si può affermare di fatto che il paese all’epoca avesse una politica deliberata di C&T. Solo a partire dagli anni ’70 si pensa di sviluppare meccanismi finanziari specifici e di costruire un infrastruttura istituzionale capace di stabilire un progetto di autonomia e tecnologica per il paese. Negli anni ’80 fu fondamentale la creazione di organi pubblici che dessero supporto finanziario perché le imprese potessero investire in C&T, ad esempio l’Istituto Nazionale di Proprietà Industriale (INPI), per la registrazione dei brevetti e l’acquisto di tecnologie; l’Istituto Nazionale di Metrologia, Normalizzazione e Qualità Industriale -INMETRO, per norme tecniche e certificazioni di qualità, e il FINEP, una specie di banca nazionale per lo sviluppo di C&T.

C’è una lunga polemica in Brasile sulle statistiche che si riferiscono a C&T e, soprattutto, quanto alla forma di verifica di queste spese da parte del settore privato. Ciò nonostante è evidente che c’è stato un processo di ristrutturazione nell’industria brasiliana negli anni ’90, che segue in maniera mimetica la tendenza alla globalizzazione e all’apertura del mercato, dando come risultati un rinnovamento tecnologico selettivo e incrementale in diversi settori. Secondo il bilancio stabilito da Paulo Tigre ed altri per gli anni ’90, il settore produttivo brasiliano aveva incrementato la sua partecipazione nelle spese in C&T, dal 22% al 31% degli investimenti totali. Esistono questioni preoccupanti, per quanto riguarda l’aumento delle importazioni, che ha deteriorato sistematicamente la Bilancia dei Pagamenti, da un surplus di US$ 16 miliardi nel 1992 ad un deficit di US$ 9 miliardi nel 1997. Le importazioni triplicarono dal 1992-1997, balzando da US$ 20 miliardi a US$ 60 miliardi, poiché le esportazioni crebbero solo del 7,6% l’anno, nello stesso periodo (Tigre e altri, 1999; 217).

La forte entrata di capitale internazionale, attraverso gli IDE, configurandosi nell’acquisizione di imprese statali, principalmente in servizi di telefonia, energia e banche, non genera esportazioni. Allo stesso tempo vedono aumentare sensibilmente il coefficiente di importazione, che solo nel settore dell’elettronica, nel 2000 è stato più di US$ 6 miliardi, senza menzionare l’aumento delle rimesse in valuta all’estero (tabella7). Pertanto la mancanza di una politica aggressiva di esportazione che va a pesare sul deficit pubblico, come l’assenza di una politica industriale attiva nei settori ad alta intensità di conoscenza, finiscono per accelerare il grado di dipendenza tecnologica.

L’aumento delle importazioni delle forniture e dei contratti tecnologici evidenzia che non stiamo camminando verso una posizione miglior sul mercato internazionale, se continuiamo scegliendo, con rare eccezioni, le esportazioni dei cosiddetti “vantaggi comparativi naturali”. Nonostante l’attuale governo abbia stabilito nell’anno passato dieci “fondi settoriali” di sviluppo scientifico e tecnologico, che probabilmente andranno a generare una cospicua fetta di più di un miliardo all’anno in C&T, ad esempio dei fondi di petrolio, di gas, di telefonia, di energia elettrica, trasporti terrestri, risorse idriche e minerali, attività spaziali, oltre al fondo “verde giallo” (università-imprese), che ancora non ci garantisce che queste risorse verranno utilizzate nel modo migliore, né che saranno capaci di istituire un effettivo sistema nazionale di innovazione, come afferma Fabio Erber “in contesti dove predomina l’investimento minimo per in organismi di C&T, il concetto sembra essere quello di una bassa applicazione” (op. cit.: 186).

Il fondo “verde giallo” è l’unico a creare nuovi contributi e che non è destinato ad un settore industriale o di servizi specifico. Per alimentare il programma Università-Impresa, che è il suo obiettivo, deve essere pagato un contributo del 10% per persona giuridica che detenga una licenza di uso della conoscenza tecnologica e per chi avessi contratti con l’esterno che implichino trasferimenti di tecnologia, sfruttamento di brevetti, uso di marchi, fornitura di tecnologia e prestazione di assistenza tecnica (Bittar, 2000).

Secondo il professor Roberto Nicolsky, della UFRJ, la formattazione dei fondi settoriali non permetterà che si instaurino le innovazioni tecnologiche necessarie, soprattutto perché tiene il mito che “è nell’università che si fa ricerca ed innovazione tecnologica, contrariamente alle tendenze mondiali e nei paesi di punta in tecnologia, dove il 75% delle ricerche sono dirette all’innovazione tecnologica e realizzate nel settore produttivo, pur garantendo un ruolo sostanziale alle università in questo processo” (Nicolsky, 2000).

Tuttavia il rigido controllo delle spese pubbliche da parte della FMI ha significato esattamente il contrario, a misura che il governo passa a restringere le risorse per l’educazione superiore, rottamando lentamente l’insegnamento pubblico, sia attraverso l’appiattimento salariale del settore, sia attraverso i tagli alle risorse per la ricerca, tra gli altri.-----

L’America latina destina circa lo 0,6% del suo PIL a R&S, che in termini assoluti vuol dire che spende all’anno, in tutta l’area di Scienza e Tecnologia, meno che l’ IBM con la General Motors e una somma approssimativa delle spese della Toshiba. La Regione si trova in uno svantaggio critico, di fronte ai paesi sviluppati e, se volesse avere un inserimento meno passivo e dipendente dal commercio mondiale, dovrebbe fare uno sforzo doppio, graduale, selettivo e costante in R&S (Correa, 1993).

Il Brasile, paese che ha una posizione differenziata nella regione in termini di C&T, possiede il 73% degli ingegneri e scienziati che lavorano in istituti di insegnamento superiore in regime di tempo pieno e solo l’11% nelle imprese, ciò che dà origine a un settore imprenditoriale di bassa competitività tecnologica e ridotte capacità di trasformare la scienza in tecnologia. In questo senso Carlos De Brito Cruz [24], indica la pessima distribuzione di scienziati ed ingegneri, tra i tre agenti del processo, governo, università e imprese, in comparazione con quella esistente nei paesi sviluppati, Stati Uniti, Giappone e Germania, dove l’industria impiega circa il 70% di questi professionisti, ossia, l’inverso del caso brasiliano.

In Corea, che non è un paese del primo mondo, 75 mila scienziati ed ingegneri si dedicano a R&S nelle imprese del paese, mentre in Brasile questo numero non oltrepassa i 9 milioni (Prado, 2001, A-3).

Nello stesso senso che Nicolsky, Brito Cruz afferma sia sbagliato attribuire la responsabilità dell’innovazione tecnologica alle università, poiché loro è il compito di produrre conoscenze fondamentali, educare, ma non produrre innovazione. E neanche l’interazione università-impresa sarebbe l’alternativa adeguata al superamento del ritardo tecnologico del paese, dei 21 milioni di dollari in contratti per la ricerca delle università americane nel 1994, solo il 7%, l’equivalente a US$ 14 milioni provenivano da contratti di impresa. Un altro suo articolo illustra un confronto realizzato sul numero di brevetti brasiliani e coreani registrati negli USA. All’inizio degli anni ’80 erano approssimativamente uguali, quasi dieci brevetti all’anno. Già nel 1998 la Corea registrava millecinquecento brevetti, mentre il nostro paese non aveva oltrepassato i 300, ciò rende evidente il basso livello di investimento del settore privato nella ricerca. Nel 1999 la Corea aveva raggiunto 3,5 mila e il Brasile 98.

Il Programma di Appoggio alla Capacità Tecnologica dell’Industria (PACTI), ha rappresentato un importante strumento d’azione nella cosiddetta Politica Nazionale di Sviluppo Tecnologico Industriale, attivata dal Ministero di Scienza e Tecnologia. Il Programma ha meritato l’apprezzamento dell’Istituto di Studio per lo Sviluppo Industriale, che riconosce tra i suoi punti positivi l’articolazione degli strumenti, la disseminazione di informazioni, l’organizzazione di seminari specializzati e gli aiuti alla realizzazione di progetti cooperativi; alla costituzione di entità tecnologiche e settoriali e al progetto Alfa, per la piccola e media impresa. Malgrado tutto, criticano la scarsità di risorse e pochi strumenti, insufficienti alla promozione dello sviluppo tecnologico nazionale, dal momento che le restrizioni affrontate dall’industria del paese sono di carattere più profondo, strutturale, che passano attraverso una competizione davvero ineguale, considerando la rivoluzione tecnologica in corso nella congiuntura mondiale.

Un altro aspetto che accentua le distorsioni esistenti nelle politiche brasiliane in campo tecnologico riguarda gli investimenti ineguali del settore in termini regionali. Secondo lo scienziato Ennio Candotti, in 25 anni sono stati investiti nel sud est circa R$ 11 miliardi, che sommati ai tre milioni del FAPESP, arrivano a R$ 14 miliardi contro i R$ 4,5 miliardi per il resto del paese. Guardando al totale degli investimenti applicati in laboratori ed istituti di ricerca post laurea, nell’ultimo quarto del XX secolo, come da fonti CNPq, CAPES e FINEP, si è arrivati ad un risultato di 5 miliardi che, sommati ai valori delle Fondazioni di appoggio e alla Ricerca (organismi statali di stimolo in C&T), totalizzano 8,5 miliardi escludendo le risorse dei Ministeri di Salute ed Agricoltura.

Le borse della CAPES e di CNPq, nello stesso periodo furono equivalenti a dieci miliardi di real. Ebbene la distribuzione di queste risorse è profondamente ineguale, quasi il 75% si concentra nella regione centro sud. Secondo l’ex presidente della SBPC, nessun indicatore socio economico giustifica questa distribuzione, dato che il centro sud corrisponde, in termini di PIL a non più del 60% del totale. Perciò in termini di equivalenza, la distribuzione delle risorse in C&T nel paese dovrebbe essere di 11 miliardi per il centro sud e 7 miliardi per il resto del paese, malgrado alcuni “filosofi sudisti illuminati” vengano a dire, in modo preconcetto e vorace, che sarebbe lo stesso che “gettare denaro”.

3.2 C&T nel Mercosud

In relazione alle attività di C&T specifiche al Mercosud, nonostante la natura retorica delle intenzioni, soffrono le stesse restrizioni precedentemente menzionate in questo lavoro. Le reti regionali di cooperazione si sono ampliate, non ci sono dubbi, con alcuni progressi sostanziali, soprattutto per quello che riguarda le strutture di analisi, ma una politica coordinatrice, che definisca priorità, strutture, programmi e risorse, ancora non è stata attivata, subendo in questo modo sia l’instabilità macroeconomica, sia il modello di dipendenza tecnologica in vigore.

In verità il settore privato investe molto poco in C&T in America Latina. Le partnership internazionali, sia per problemi che coinvolgono le frontiere nazionali, sia per la riduzione dei costi, o ancora per evitare l’obsolescenza, stimolano la necessità di condividere sistemi tecnologici aggregati. La cooperazione tra paesi dell’Unione Europea è aumentata in tutta l’area di C&T e cresce principalmente nelle aree che sono state oggetto di programmi speciali (target area).

Nelle regioni a minore sviluppo, le collaborazioni internazionali tra “uguali” sono sostanzialmente minori e soffrono alcuni “effetti della tradizione”. La ricerca di partnership è normalmente stipulata con paesi sviluppati, in un senso quasi unidirezionale, e provoca problemi di inadeguatezza a livello delle installazioni, della allocazione delle risorse finanziarie, o ancora, dell’intermittenza delle stesse.

Un alto effetto di ciò che chiamo “tradizionale” è la non conoscenza tra paesi a minore sviluppo, delle potenzialità date, perché la logica è sempre stata quella che i paesi “poveri” avessero poco da imparare tra di loro [25].

Dal punto di vista delle imprese multinazionali è illusorio supporre sforzi di innovazione tecnologica nei paesi periferici e molte volte, per necessità di recupero dei costi e del capitale investito e ammortamenti, la diffusione di nuove conoscenze avviene con un certo ritardo.

Il contesto sopra presentato indica la necessità di alterare questa dinamica ed è in questa ottica che gli incentivi alla cooperazione scientifica nel Mercosud offrono vantaggi significativi.

In uno studio realizzato dal Ministero della Scienza e Tecnologia e dall’organizzazione degli Stati Americani, viene evidenziato che i paesi del Mercosud ancora non hanno una posizione di rilievo nell’agenda della cooperazione internazionale. Questi programmi si è soliti darli con molta maggiore intensità ai paesi “ricchi” sia a livello federale che statale. Da qui si deduce che l’orientamento degli scienziati del Mercosud viene fatto nel senso di adottare il modello teorico metodologico dei grandi centri scientifici mondiali. Nonostante questa tendenza egemonica, le esperienze, particolarmente tra Brasile e Argentina, si strutturano a partire dalle aree della biotecnologia
 che abbiamo selezionato per sviluppare e presentare alcuni risultati nel corso di questo lavoro -; del settore aereo spaziale e dell’energia nucleare [26].

Lea Velho cita alcune altre iniziative congiunte nell’ambito del Mercosud considerate ancora timide:

Recyt: che si struttura in quattro linee: i) interconnessione di reti di computer; ii) sistemi di informazione in C&T; iii) norme di C&T; iv) formazione di risorse umane;

Programma Procisud: cooperazione in agricoltura che si realizza, soprattutto, attraverso l’interscambio di informazioni, norme alimentaristiche e fitosanitarie.

Per ciò che riguarda l’iniziativa privata, le relazioni nel Mercosud non oltrepassano la dimensione meramente commerciale, non avendo progetti comuni tra imprese nazionali per lo sviluppo tecnologico, ma solo il trasferimento di conoscenze specifiche di processi, gestione ed assistenza tecnica. Un altro aspetto preoccupante è la mancanza di politiche di sistematizzazione, di appoggio finanziario specifico perché le università del Mercosud possano sviluppare una cooperazione scientifica sistemica, superando la fase preliminare, volontaristica e spontanea, che è stata la forma predominante fino ad ora.

Anche considerando queste preoccupazioni, Lea Velho è ottimista,sostenendo che la cooperazione in C&T tra i paesi del Mercosud ha la possibilità di rafforzarsi e consolidarsi, sia per il numero significativo di istituzioni di insegnamento e ricerca nei paesi membri, sia per le iniziative che sono già in atto, sia da parte delle imprese, delle istituzioni di ricerca ed insegnamento, sia da parte dei governi statali o municipali [27].

Lo studio di MCT elenca un insieme di raccomandazioni che mirano ad un progresso nel campo di C&T nel Mercosud, come:

• Aumentare le opportunità di viaggio tra istituzioni che compongono il blocco (misura che si sta applicando con esito positivo nell’unione europea), considerandoli come viaggi “nazionali”;

• Qualificare e formare i dirigenti pubblici federali e statali per affrontare le questioni di C&T legate alle relazioni internazionali e soprattutto, con il Mercosud, assumendo ed esplicitando il processo regionale in corso;

• Realizzare diagnosi dei rispettivi sistemi di C&T, identificando previamente le aree complementari e di interesse comune;

• Stabilire linee di finanziamento per progetti considerati prioritari;

• Negoziare fondi comuni di ricerca, come viene fatto nell’Unione Europea, con quote per paesi, in relazione alle dimensioni di ogni PIL;

• Approfondire, produrre e rendere disponibili informazioni attuali sul Mercosud, appoggiando e istituendo una maggiore articolazione tra le iniziative universitarie come ad esempio l’associazione delle università “gruppo di Montevideo”; e il Forum delle Università Brasiliane per il Mercosud- FORMECO, tra le altre;

• Pianificare l’avvenimento e il consolidamento dei gruppi di eccellenza dei quattro paesi più associati, mirando ai risultati a corto termine.

Nel contesto del perimetro istituzionale del Mercosud il forum specifico di coordinazione in C&T dovrebbe essere la Riunione Specializzata in Scienza e Tecnologia (RECyT) [28], creata nel 1992, che, malgrado le sue iniziative, non ha “coperto” le diverse dimensioni del campo. Ciò nonostante, nel dicembre del 1997, in occasione del XV RECyT, sì è approvato il Programma di Lavoro per il biennio 1998-1999, che mostra ancora caratteristiche abbastanza preliminari e di portata ridotta tra i suoi principali punti:

• L’inclusione delle aree programmatiche di chimica e chimica fine nelle tematiche applicate; della politica di occupazione nello sviluppo tecnologico tra le tematiche sociali;

• La creazione di programmi nazionali nei paesi membri per dare impulso alle attività del RECyT;

• La creazione di master in Politica di Innovazione in scienza e tecnologia nell’ambito del Mercosud;

• Lo studio di leggi di incentivazione allo sviluppo e all’innovazione tecnologica;

• L’istituzione di un insieme di seminari tematici relativi alle questioni di sicurezza alimentare; ambiente; tecnologie pulite; ingegneria degli alimenti, tra le altre.

• La pianificazione di una infrastruttura di rete internet con connessione diretta tra i quattro paesi; articolata con Internet 2 e con iniziative simili nell’unione europea, tra le altre.

Recentemente è stato lanciato il piano di lavoro per il 2000-2002 [29], che ha come obiettivo centrale la pianificazione strategica e la sua articolazione in tappe, oltre che a cercare un maggior legame con gli altri sottogruppi di lavoro nel Mercosud.

La cooperazione tecnico scientifica tra il Brasile e l’Argentina è stata costruita gradualmente dal 1985, quando nel novembre di quell’anno si realizza, a Foz di Iguaçu, l’incontro brasiliano-argentino di Biotecnologia. A partire da questo incontro, che ha avuto come maggior obiettivo il mutuo riconoscimento dei progressi in questi campi, ma anche un carattere propositivo, (considerando l’importanza della biotecnologia nel quadro del C&T mondiale), di creazione di un’istituzione bi-nazionale, capace di stabilire una politica comune che si occupasse delle aree di salute, agricoltura e allevamento, ingegneria biochimica, e che fosse anche capace di estendere i meccanismi di finanziamento per la cooperazione nel settore.

Nel luglio del 1986, in occasione della firma di nove protocolli [30] tra i due governi, ha formato il Protocollo 9
 Biotecnologia e suoi annessi, avendo intanto costituito il Centro Brasiliano-Argentino di Biotecnologia (CBAB) o Centro Argentino-brasiliano di biotecnologia (CABBIO)

Per il funzionamento del CABBIO venne definito che il Centro sarebbe stato vincolato alle strutture esistenti di C&T di ogni paese, poiché il Protocollo 9, tra gli altri punti importanti, stabiliva che le risorse sarebbero state collocate dai due governi in maniera equivalente e che un Consiglio Bi-nazionale sarebbe stato costituito da rappresentanti dei ministeri nazionali coinvolti nelle aree di interesse tecnico-scientifico ed economico comuni, connesse alla Biotecnologia, principalmente la salute, l’agricoltura e l’ambiente.

Il CABBIO, fin dalla sua creazione, ha funzionato attraverso corsi [31] e progetti bi-nazionali di ricerca e sviluppo nelle aree di innovazione. Questi corsi di formazione comprendevano le aree: Vegetale (ottenimento e studio di piante transgeniche, marcatori molecolari, eccetera); Animale (coltura di cellule embrionali, importanti nella fabbricazione di vaccini); Microbiologia (sequenza di geni, interazioni tra DNA e proteine); Salute Umana (diagnosi molecolare di malattie genetiche); e anche le attività in relazione alla ricerca, attenzione per la produzione di processi, prodotti e servizi tecnologici.

Tra i maggiori risultati, si possono segnalare:

• Produzione di aglio libero da virus (Embrapa);

• Ottenimento di due cloni di patata ACHAT transgenica (resistenti al virus mosaico) con il potenziale per ridurre l’applicazione di agrotossici;

• Controllo biologico di insetti, si sono ottenuti risultati promettenti per le colture di soia e cotone;

• Controllo della manifestazione del virus dell’epatite 3, con conseguente produzione di vaccino per l’Istituto Butantã;

• Scoperta di un metodo complementare per la diagnosi della Malattia delle Piaghe;

• Sfruttamento e coltura di crostacei di acqua salata che ha beneficiato le industrie di Bahia, Santa Catarina e Patagonia (Assad, Correa, Torres, Henriquez, 2000; 162:163).

Questi risultati attestano la capacità di iniziativa, anche se funzionano con scarsità di risorse, dimostrano che si possono ottenere risultati importanti per i paesi coinvolti, finché i progetti abbiano una certa continuità, non soffrano interruzioni e si mantenga il finanziamento. L’esperienza del CABBIO evidenzia che l’iniziativa può e deve essere allargata ad altre aree di conoscenza, lo sforzo per l’avanzamento scientifico e tecnologico tra di noi deve essere più rapido e sostenuto, affinché i paesi della regione possano ridurre lo scarto di non-convergenza in campi tanto vitali per lo sviluppo.

Diversi analisti hanno riconosciuto come incipiente la cooperazione in nome di C&T tra i paesi del Mercosud, benché indichino un insieme di misure e diverse opportunità nel processo, sulla base dell’esistenza nella regione di un numero significativo di istituzioni di insegnamento e ricerca con quadri professionali di riconosciuta capacità e che hanno, negli ultimi cinque anni, scoperto le potenzialità dello spazio regionale. C’è, in questo campo, un lungo processo da percorrere, di riconoscimento dei partners e instaurazione di programmi congiunti, che ha bisogno di essere fermamente appoggiato.

Secondo Plosky e Furtado, “l’analisi delle tendenze recenti delle esportazioni brasiliane e degli investimenti diretti esterni [32] in Brasile conferma che l’importanza economica del Mercosud per questo paese è molto maggiore rispetto a quella che in generale gli è attribuita”(Ibidem,65). E qui bisogna ricordare la necessità di studi approfonditi sul processo di costruzione dell’ALCA, che cammina in simultanea con il consolidamento del Mercosud e che, in termini non soltanto politici, ma di industria e commercio estero, ha già rappresentato un danno per il Brasile, come è stato osservato nella recente crisi vissuta dall’Argentina.

Passati oggi 11 anni dal trattato di Assunção e avendo vissuto forse la sua crisi maggiore, a causa del collasso argentino, il Mercosud ha dato dimostrazioni formidabili delle sue potenzialità. Anche con tutte le sue debolezze, dalla fragile istituzionalizzazione, dall’asimmetrico coinvolgimento dei paesi membri, allo scarso finanziamento per consolidare un progetto strategico virtuoso, il Blocco è andato avanti anche oltre la sfera commerciale ed ha iniziato ad esistere sia nell’immaginario delle popolazioni che prima si ignoravano, sia in diverse istanze infra-nazionali. Nelle accademie dei quattro paesi membri c’è stato un avvicinamento, un riconoscimento del terreno, di interazione a partire dagli incontri, i simposi e dalle ricerche congiunte. Questi risultati non possono essere lasciati da parte in un momento di crisi, perché qualunque progetto di integrazione regionale che si rispetti ha bisogno di camminare nella direzione della reciprocità, della solidarietà, se l’obiettivo maggiore è cercare un’alleanza geopolitica ed economica che ci rafforzi di fronte ai paesi sviluppati e a un sistema finanziario e commerciale che, sotto l’egemonia nordamericana, è stato estremamente escludente, interventista e impositivo.

L’FMI, oggi, fa obiezioni a grandi “pacchetti” di aiuto per i paesi emergenti, quando, meno di un anno fa elogiava le fondamenta dell’economia argentina. Anche il governo degli Stati Uniti, maggior azionista del Fondo, non ha dimostrato una maggiore attenzione verso la situazione del paese, e ancora meno con il deterioramento del quadro sociale. Le recenti dimostrazioni di coinvolgimento del governo Bush nel golpe militare in Venezuela danno la misura delle intenzioni e degli interessi della politica estera degli Stati Uniti per l’America del sud.

Il 23 aprile di questo anno, un editoriale della Gazzetta Mercantile [33] intitolato “Urgenza del soccorso all’Argentina” informava che il governo brasiliano si era già mostrato favorevole ad un appoggio finanziario immediato all’Argentina, con la partecipazione delle istituzioni finanziarie internazionali e dei governi stranieri e, oltre a questo, proclamava che i paesi del Mercosud avrebbero dovuto associarsi per la gestione diretta, di fronte all’FMI, BIRD e BID, così come ai paesi sviluppati, perché fosse deciso un Programma di Soccorso all’Argentina.

L’Argentina è il nostro secondo partner commerciale e, molto più che questo è un paese associato, con il quale abbiamo stabilito un trattato di Cooperazione ambizioso, che eccede di molto le questioni economiche e commerciali [34].

In questo mese di maggio economisti brasiliani [35] di riconosciuta competenza hanno lanciato una proposta abbastanza obiettiva ed eseguibile di appoggio al socio in difficoltà, il cui complesso di misure è il seguente:

1. Il governo brasiliano aprirebbe una linea di credito in reali non convertibili per l’Argentina di 18,4 miliardi (8 miliardi di dollari). La misura permetterebbe all’Argentina di acquistare prodotti brasiliani senza spendere in dollari, riattivando gli scambi fra i partners che, nel primo trimestre di questo anno sono scesi del 70% in relazione allo stesso periodo del 2001;

2. Il Tesoro brasiliano offrirebbe titoli del governo brasiliano convertibili al fine di importazione di prodotti brasiliani, per i correntisti delle banche brasiliane con risorse congelate dal “corralito”. In parallelo il governo brasiliano si impegnerebbe a dare inizio ad una campagna per l’acquisto di prodotti argentini;

3. La BNDES aprirebbe linee di credito a lungo termine alle imprese brasiliane interessate ad investire produttivamente in Argentina;

4. Infine, (il Governo) rinforzerebbe i meccanismi di consulta del Mercosud e proporrebbe la creazione di un Comitato di Coordinazione Economico tra i due paesi, con i rappresentanti delle Banche Centrali e dei Ministeri e dell’Economia.

Le misure proposte, oltre che creative, rompono con l’inerzia nel dibattito della crisi, segnalando alternative concrete endogene e dimostrano che esistono soluzioni possibili oltre al rimanere “in attesa del FMI”, con le sue esigenze draconiane insostenibili. Ma, oltre a tutto, sono auspicabili per l’alto tenore di solidarietà che includono, elemento indispensabile se vogliamo costruire un Mercosud e una regione che ne valga il nome e che non sia inghiottita dall’ALCA.

Concludendo, è spiacevole l’assenza di una politica industriale chiara nel Mercosud ed è ancora più grave il non riconoscimento del ruolo del C&T come politica strategica di sviluppo nazionale e regionale. Abbiamo cercato di mettere in evidenza in questa riflessione che nell’attuale stadio della globalizzazione le variabili di C&T sono determinanti per un miglior inserimento dei paesi nel commercio mondiale; che i brevetti sono stati utilizzati come strumenti di forza dei paesi sviluppati sui periferici; e che, sia nel settore farmaceutico che in quello biotecnologico non solo sono estremamente forti le asimmetrie Nord/Sud, ma i paesi tecnologicamente dipendenti devono fare uno sforzo doppio nel settore e devono anche inglobare, e lottare per nuove espressioni di diritto che siano meno dannose per le loro popolazioni nelle relazioni multilaterali. Il Mercosud è un progetto istituzionale strategico che deve essere ripreso ed appoggiato incisivamente. E riprendo le parole significative dello scienziato argentino Jorge Sábato, quando, in un mondo non ancora mondializzato, era possibile pensare all’autonomia in termini di nazione isolata:

“L’autonomia scientifica esprime la capacità di decisione propria di un paese a scegliere, progettare, programmare e realizzare la propria politica scientifica”. -----

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[1] Nota del traduttore: il binomio Scienza e Tecnologia, lungo tutto il testo, viene indicato con C&T. Il binomio Ricerca e Sviluppo, lungo tutto il testo, viene indicato con R&S

[2] Per François Chesnais (1996: 141), gli investimenti in R&S sono tra le spese industriali più concentrate del mondo.

[3] L’industria farmaceutica ha sempre avuto requisiti specifici di delocalizzazione della R&S.

Indipendentemente dalla necessità di avere accesso a fonti di conoscenze scientifiche particolarmente importanti (...) la necessità di condurre test clinici per ottenere l’autorizzazione amministrativa di mettere il prodotto sul mercato estero e adattare i prodotti, ha fatto sì che le multinazionali impiantassero laboratori in diversi grandi mercati (Chesnais, op. cit: 153).

[4] Immanuel Wallerstein (1999), Boa Ventura De Souza Santos (1999); Milton Santos (1999); François Chesnais (1996); Noam Chomsky (2001); Bourdieu (2001) tra i tanti.

[5] Si è stimato che queste multinazionali partecipino a 2/3 degli scambi commerciali e che il 40% del commercio mondiale venga realizzato internamente a questi gruppi (Cassiolato, 1999).

[6] Dati recenti del IBGE affermano che metà delle famiglie degli Stati del Ceará, Paraíba, Rio Grande del Nord e Alagos vivono con un reddito medio mensile di 1/2 Salario Minimo.

[7] Il movimento di internazionalizzazione dei diritti umani è relativamente recente, costituitosi a partire dal dopoguerra come risposta alle atrocità e agli orrori perpetrati dal nazismo. Nel 1948 venne approvata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che introdusse una nuova caratteristica ai diritti umani, ossia l’universalità e l’indivisibilità.

[8] Secondo l’autrice il segno iniziale del processo di incorporazione dei trattati internazionali dei diritti umani da parte del Brasile è stato la ratifica, nel 1989, della Convenzione contro la Tortura e Altri Trattamenti Crudeli o Degradanti. Nel 1998 lo stato brasiliano riconosce due istanze giurisdizionali internazionali e di protezione dei diritti umani: la Corte Interamericana e l’adesione allo Statuto del Tribunale Internazionale Criminale Permanente (op. cit. p.57).

[9] Nella Regione Metropolitana di Recife, nei primi tre mesi del 2001, vennero registrati più di 500 omicidi.

[10] L’approccio storico della proprietà intellettuale è parte della dottrina monopolistica. In questo senso si veda l’eccellente lavoro, ancora poco conosciuto di Maria Stela Pompeu Frota (1993), che presenta la preistoria e la storia recente della proprietà intellettuale, ritornando alla Venezia del 1474, con lo Statuto Veneziano che garantiva privilegi di dieci anni per gli inventori di nuove tecniche e macchine.

[11] L’industria farmaceutica degli USA non pensa di tornare indietro sulla valutazione nella problematica della legge dei brevetti del Brasile nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Negoziatori brasiliani riconoscono che la contestazione degli USA non include solo i farmaci. L’attacco che fanno all’articolo 68 della Legge di Proprietà Industriale brasiliana, che tratta della licenza obbligatoria, può riguardare politiche altre, come quella della salute, della nutrizione, della tecnologia. In: Assis Moreira (2001), Gazeta Mercantil, 23 Aprile, p. A-19.

[12] Dal 1980 fino alla firma del Brasile per l’Accordo delle Trips, il paese subì delle sopratasse su diversi prodotti dal governo nordamericano-acciaio, scarpe, succo di arancia, tessuti, tra gli altri.

[13] Il mercato dei generici in Brasile conta appena 217 principi attivi disponibili, fabbricati in 33 laboratori e rappresenta solo il 5% del volume di rendita dell’industria farmaceutica che, nel paese, smuove R$ 12 miliardi (circa 4 miliardi di euro (Jornal do Comércio, 16/05/2002: “Genérico pode variar até 223,65%”).

[14] La partecipazione nel settore farmaceutico dell’America latina in tutto il mercato mondiale era di 2,4% nel 1970, è passato al 2,0% nel 1980 ed è caduto allo 0,8% nel 1989.

[15] Alcuni anni fa un’impresa editoriale degli USA avendo effettuato una certa codificazione nella Costituzione Federale, relazionando la terminologia di famosi casi di diritto penale, aveva sollecitato la propria licenza.

[16] Il guadagno di queste imprese è fantastico, quando si calcola che una terapia-tipo con medicinali anti-AIDS costa intorno ai US $ 10 mila per paziente all’anno, nei paesi ricchi, quando il costo di produzione di questi medicinali varia da US$ 300 a US$ 500 all’anno per ogni cocktail di tre.

[17] IP Magazine, 1999, set. “Triping over Trips”, Mike Mckee. San Francisco.

[18] Vari professionisti di fama mondiale hanno chiesto la creazione di una tassa sui profitti di queste multinazionali dei farmaci, con l’intento di sovvenzionare i fondi per la ricerca delle malattie tropicali e per la produzione di medicinali di prima necessità.

[19] Dei 25 medicinali più venduti nel mondo, 20 sono americani.

[20] Velásquez, G.; Bennet, S.; Quick, D. (1997), “Rôle des secteurs publiques et privé dans le domaine pharmaceutique. Incidences sur l’equité en matière d’accès et sur l’usage rationnel des medicaments”. OMC: Genève. Citato in: Le Monde Diplomatique.

[21] Bisogna considerare qui l’espressione dello spirito umanitario, espresso da “Medici Senza Frontiere”, al ricevere il Premio Nobel per la Pace: “è necessario liberarsi delle ambiguità e degli equivoci di certe parole d’ordine, che mischiano l’azione umanitaria indipendente con gli interventi politici e militari delle grandi potenze o coalizioni internazionali di crimini e terrore di massa” (Biberon, Philippe; Brauman, Rony, 1999).

[22] Susanna Arosa Soares traccia un quadro, sintesi della storia della formazione dei sistemi nazionali di C&T nel Mercosud e nel Cile.

[23] È un’opera indispensabile: Herrera Amílcar (1971), Ciência e Política na America Latina. México: Siglo XXI. Herrera contribuì anche in maniera decisiva al consolidamento di un nucleo di C&T nella Unicamp, in Campinas, São Paulo.

[24] Attuale presidente della FAPESP- Fondazione di Appoggio alla Ricerca del Governo dello Stato di San Paolo e direttore dell’Istituto di Fisica dell’Unicamp.

[25] I paesi dell’america Latina, in termini di pubblicazioni scientifiche collettive hanno articolazione assai maggiore con gli USA (17%), con l’Europa (15%) che fra se (2,7%).

[26] Questa cooperazione era svantaggiata dal fatto che fino ad allora i due paesi usavano metodi differenti: il Brasile come la Germania usava il metodo di centrifugazione; l’Argentina la diffusione gassosa.

[27] Vedi il progetto Mercocitta (Del Huerto Romero, 1999).

[28] Il RECyT si struttura in un coordinamento nazionale per ogni paese, con le sue due commissioni tematiche, anche quelle per paese.

[29] Nel sito del Min. Sc. E Tecnol. (www.mct.gov.br) si può trovare il dettaglio delle attività corsi, workshops realizzati in un’ampia gamma di aree (energia, salute, biotecnologia, agroindustria, ambiente, nuovi materiali, chimica fine, tecnologia industriale, proprietà intellettuale e altro).

[30] Gli altri protocolli firmati trattavano di informatica, del settore nucleare,dell’energia, di imprese bionazionali, dell’espansione del commercio e altro.

[31] Fino ad oggi sono stati emessi 14 bandi per il finanziamento di corsi strictu-sensu e 5 bandi per progetti binazionali per progetti di ricerca e sviluppo. Nel portaolio di CABBIO, 149 corsi realizzati tra il 1985 e il 2000, presso università, istituti di ricerca e, più recentemente, gestiti da imprese in associazione con università e altri enti (come ad esempio Embrapa, Fiocruy, USP, UNB,UFPE,UFRGS, INTA,PROINI, ecc.).

[32] Cfr. sugli IDE negli anni ’90 in America Latina (Lima, 2000)

[33] Gazeta Mercantil (2002), 23 abril, p.1-2.

[34] Una ricerca recentemente pubblicata in Argentina ha rivelato che il 40% degli argentini preferiscono una alleanza con il Brasile piuttosto che con la UE o gli USA.

[35] LACERDA, Antonio Correa de; ERBER Fabio; PRADO Luiz Carlos (2002), “Propostati del Ajuda a Argentina”, Gazeta Mercantil, 8 maggio.