L’Economia Politica postbellica è segnata da ciò che potremmo chiamare “dibattito sullo sviluppo”. Varie Scuole teoretiche e con differenti approcci si sono occupate o hanno discusso della possibilità, della dimensione, dei presupposti e del carattere sociale dello sviluppo economico, specialmente nei Paesi Meno Sviluppati del Terzo Mondo (LDCs). L’intenzione di questo mio articolo è di presentare un approccio Marxista al problema dello sviluppo economico, che a mia opinione, ci permette di avere una visione interna delle sue condizioni iniziali e delle sue dinamiche, sia nelle regioni più sviluppate del mondo che in quelle meno sviluppate.
Molto brevemente potremo affermare che i primi approcci al problema dello sviluppo furono di carattere evoluzionista: fu detto che tutti i paesi sarebbero passati, più o meno, attraverso gli stessi stadi di sviluppo economico. Nella seconda metà del XIX secolo, molti autori che sono ora identificati come esponenti della cosiddetta German Historical School (Economakis & Milios 2001), come Wilhelm Roscher (1817-94), Karl Knies (1821-98), Gustav von Schmoller (1838-1917) e Karl Bücher (1847-1926) indicarono tre maggiori stadi nelle economie in via di sviluppo: L’economia chiusa, familiare o domestica, l’economia delle regioni urbane, che ha funzione di centro di una più ampia regione agricola circostante, e l’economia popolare, che, attraverso relazioni di scambio monetario, unisce economicamente il territorio di un determinato paese. Alcuni autori appartenenti alle generazioni più giovani di questa scuola, come Arhtur Spiethoff (1873-1957) aggiunsero altri due stadi allo schema, definendoli con i nomi di economia agraria, tra l’economia domestica e quell’urbana, ed economia mondiale, come ultimo stadio dopo quella popolare. Nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, W.W. Rostov (1917) presentò un approccio evoluzionista alla questione dello sviluppo, affermando che le economie passano attraverso questi stessi stadi di sviluppo. La società e l’economia tradizionali evolvono dal possedere le condizioni iniziali per un decollo economico allo stadio di decollo vero e proprio seguito da un primo stadio di maturità economica e da uno successivo di alto consumo di massa. L’approccio evoluzionista sembra descrivere con facilità come alcuni paesi si siano veramente sviluppati. Tuttavia, la loro pretesa di far passare tutti o la maggior parte dei paesi attraverso simili stadi di sviluppo non è ben fondata sul piano teorico ed è stata empiricamente respinta dalla constatazione che un gran numero di paesi e regioni in Africa, in Asia ed in America Latina, rimangono ancora ad un basso livello di sviluppo economico. Per reazione al fallimento dell’approccio evoluzionista la tradizione centro-periferica è stata gradualmente rimodellata, dopo la Seconda Guerra Mondiale, sulla base di un concetto di capitalismo mondiale formulato nelle teorie dell’imperialismo durante i primi decenni del XX secolo.
Secondo l’approccio centro-periferico, sviluppo e sottosviluppo costituiscono semplicemente due poli opposti di uno stesso processo: lo sviluppo di alcuni paesi - i paesi imperialisti - è il presupposto o la causa del mancato sviluppo della maggior parte dei paesi del mondo, i paesi dipendenti, a loro volta soggetti allo sfruttamento imperialista. Questo semplice e facilmente intuibile schema, fu dimostrato essere di difficile utilità nella comprensione dei processi economici e sociali che hanno portato al rapido sviluppo economico di alcuni paesi, precedentemente sottosviluppati, che ridussero, o anche colmarono, il divario nel grado di sviluppo con molti paesi più sviluppati, come accadde per molti paesi europei durante il XIX ed il XX secolo (fino agli anni ‘70), o come è accaduto più recentemente con l’emergere dei Nuovi Paesi Industriali (NICs) del sudest asiatico.
È mia intenzione mettere in risalto come la teoria Marxista, basata sulla nozione di modalità di produzione, supera le lacune di entrambe gli approcci summenzionati. Secondo la teoria che presenterò, per sviluppo s’intende il prevalere di certe relazioni sociali ed economiche su altre forme sociali ed economiche antagoniste: vale a dire relazioni di produzione sociale e capitalista in contrasto con altre precapitaliste.
La teoria economica di Marx è solidamente espressa nella sua teoria della Storia come teoria della lotta di classe, che egli formulò e sviluppo insieme a Frederick Engels a partire dalla metà degli anni ‘40 del XIX secolo.
Marx rappresentò concettualmente le società come classi sociali. La posizione specifica che ogni “individuo” acquisisce nelle relazioni sociali legate alla produzione, costituisce la condizione iniziale che determina la loro appartenenza ad una classe. In quest’ordinamento evidenziò gli elementi che contribuiscono all’antagonismo di classe e ai conflitti d’interesse tra le principali classi d’ogni società e comprese l’unione tra le classi sociali in competizione (ad esempio la coerenza sociale in termini di potere sociale di classe).
Il potere non costituisce più il “diritto di sovranità”, o il “potere dello Stato” in relazione ai cittadini (uguali e liberi), ma una forma specifica di dominio di classe. Il potere è sempre inteso come potere di classe, ossia il potere di una classe (o di una coalizione di classi) dominante sulle altre, le classi dominate della società. Questo potere che è reso stabile sulla base di strutture sociali dominanti si riproduce all’interno dell’antagonismo di classe e della lotta tra classi. L’unione specifica delle società è quindi inscindibile dall’unione dello specifico potere di classe assicurato dalla lotta di classe.
Il potere di classe è basato sullo sfruttamento economico della classe lavoratrice ed implica il suo subordinamento politico ed ideologico alla classe dominante. Come è stato correttamente precisato dallo storico inglese Ste. Croix (1984: 100), secondo la teoria marxista la “classe (...) è l’espressione collettiva sociale dell’esistenza dello sfruttamento e del modo in cui lo sfruttamento è rappresentato nella struttura sociale”.
Parallelamente alla formulazione della teoria del potere di classe all’interno del contesto della lotta di classe, Marx intuisce che determinate società sono costituite da un mosaico di relazioni sociali e di classe che non appartengono tutte allo stesso tipo di logica sociale (lo stesso tipo di potere di classe). Queste piuttosto costituiscono il particolare risultato storico scaturito dall’evoluzione della società che, sebbene avrebbe potuto svilupparsi nella società capitalista moderna, ha permesso la “sopravvivenza” d’elementi radicati nel precedente tipo d’organizzazione sociale o nei precedenti sistemi storici del potere di classe.
Marx ricerca ed isola in questo modo quegli elementi nelle relazioni sociali che: 1) comprendono le differenze peculiari della moderna “economia di mercato”, come il capitalismo, e discernono questa dai corrispondenti elementi degli altri tipi di dominio di classe (e delle corrispondenti organizzazioni sociali). 2) Costituiscono il permanente “inalterato” nucleo del sistema capitalista di dominio di classe indipendentemente dalla particolare evoluzione di ogni società (capitalista) dettagliatamente studiata.
Questo significa che ogni particolare tipo di dominio e sfruttamento economico corrisponde ad un tipo specifico d’organizzazione del potere politico e al dominio di un tipo specifico di modelli ideologici. Egli scrisse: “È in ogni caso nel rapporto diretto del padrone delle condizioni di produzione con i diretti produttori (...) che troviamo il più intimo segreto, le basi nascoste, dell’intero edificio sociale da cui inoltre scaturisce il modello politico del rapporto di sovranità e dipendenza” (Marx 1991: 927). Di conseguenza emerge un nuovo oggetto teorico: il modello di produzione (capitalista). Sulla base delle analisi teoriche del modello di produzione, ogni particolare società divisa in classi può di conseguenza essere studiata a fondo (ogni composizione particolare di classe sociale). Sul piano economico, ogni modello specifico di produzione implica l’appropriazione di una forma specifica di surplus dal produttore primario.
La nozione di modello capitalista di produzione si riferisce al nucleo causale della totalità dei rapporti di potere capitalista, ossia la basilare interdipendenza sociale e di classe che definisce un sistema di potere sociale (una società) come sistema capitalista. È la nozione che decifra le caratteristiche strutturali dominanti d’ogni società capitalista.
Questo è stabilito inizialmente nel rapporto del capitale a livello di produzione; nella separazione del lavoratore dai mezzi della produzione (chi è in questo modo trasformato in un operaio salariato, in possesso della sua sola forza lavoro) e nel pieno possesso dei mezzi della produzione da parte del capitalista: il capitalista ha sia il potere di attivare i mezzi della produzione (cosa che non avveniva nel modello precapitalista di produzione) sia quello di acquistare il prodotto finale in eccedenza.
Per fare in modo che l’operaio si trasformi in uno stipendiato, “chi governa” deve dare il via ad un moderno Stato costituzionale e il suo “soggetto” deve essere trasformato a livello politico e giuridico in un libero cittadino: “Questo lavoratore deve essere doppiamente libero sia come individuo, potendo disporre della sua forza lavoro come propria merce sia, non avendo in definitiva altra merce da vendere, da ogni oggetto necessario allo svolgimento della sua forza lavoro” (Marx 1990: 272-73).
Nel modello precapitalista di produzione, al contrario, la proprietà dei mezzi di produzione delle classi dirigenti non era mai completa. Mentre la classe dirigente ebbe sotto la sua proprietà i mezzi di produzione (ad esempio acquisiva il prodotto in eccedenza), le classi lavoratrici continuavano a mantenere la “proprietà reale” dei mezzi della produzione (il potere di metterli in opera). Questo fatto può essere anche ricollegato a caratteristiche significative e corrispondenti alla struttura dei livelli politici ed ideologici. Lo sfruttamento economico che consiste nella sottrazione ai lavoratori del prodotto in eccedenza, aveva come proprio elemento complementare la diretta coercizione politica: i rapporti di dipendenza politica tra dominanti e dominati e le loro articolazioni ideologiche (come religiosa regola).
Il modello di produzione (capitalista), in ogni caso, non costituisce esclusivamente un rapporto economico ma si riferisce a tutti i livelli sociali (le istanze). In questo è anche contenuto il nocciolo dei rapporti di potere politico ed ideologico (capitalista). In ciò è quindi articolata la particolare struttura dello Stato capitalista. Di conseguenza, è chiaro che la classe capitalista possiede non solo il potere economico ma anche quello politico; non perché i capitalisti forniscono uomini alle più alte cariche politiche dello Stato, ma perché la struttura dell’elemento politico nelle società capitaliste e specialmente dello Stato capitalista (la sua scala gerarchica - l’organizzazione burocratica, il suo dovere “al di fuori della ripartizione in classi” sulla base delle norme della Legge ecc.) comporta e assicura la conservazione e la perpetuazione del completo dominio della classe capitalista. Nella stessa maniera è evidente che la struttura dell’ideologia borghese dominante (l’ideologia dei diritti individuali e gli stessi diritti di unità nazionale e di comune interesse ecc.) corrisponde alla perpetuazione e alla riproduzione dell’ordine sociale capitalista e agli interessi di lungo temine della classe capitalista. “Certi rapporti di produzione presuppongono l’esistenza di una superstruttura legale politica ed ideologica come condizione della loro peculiare esistenza (...) questa superstruttura è necessariamente specifica (poiché è funzione di specifici rapporti di produzione richiesti)” (Althusser/Balibar 1997, p. 177).
Ci rendiamo quindi conto che il capitalismo non può riguardare soltanto l’economia (mondiale), ignorando completamente lo Stato o le sue implicazioni politiche ed ideologiche con il potere. Lo Stato ha una notevole influenza nel modo in cui le economie sono organizzate, nel normale corso dello sviluppo capitalista, e ci sono importanti forze economiche che danno impulso al riprodursi di Stati nazione. Il potere capitalista sulle classi lavoratrici è allo stesso tempo economico, politico ideologico ed è “condensato” dallo stato capitalista in ogni formazione sociale nazionale.
Il modello di produzione quindi descrive le differenze specifiche di un sistema di dominazione di classe e di sfruttamento di classe. In una determinata società ci potrebbero essere più modelli (o forme) di produzione e di conseguenza una più complessa configurazione di classi. L’articolazione di differenti modelli di produzione è contraddittoria ed è sempre compiuta sotto il dominio di un particolare modello di produzione. (I processi produttivi che non conducono a rapporti di sfruttamento - produzione e distacco del surplus prodotto - come nel caso del produttore autonomo, [semplice produzione di merce] non costituiscono un modello di produzione ma una forma di produzione). Il dominio di un modello di produzione (e particolarmente il modello capitalista di produzione) è collegato alla tendenza al dissolversi di tutti gli altri modelli di produzione concorrenti. In ogni caso, ci sono sempre tendenze che si contrappongono a questa prospettiva: La forza (politica, economica ed ideologica) delle oligarchie precapitaliste potrebbe prevenire il dissolversi dei modelli di produzione precapitalisti e bloccare lo sviluppo capitalista.
Dal nostro discorso sul concetto marxista del modello capitalista di produzione possiamo concludere che, lo sviluppo economico presuppone il prevalere del modello di produzione e la sua estesa proliferazione. Di conseguenza la questione sullo sviluppo è la seguente: a quali condizioni le strutture sociali precapitaliste sono rimpiazzate dal modello capitalista della produzione o fino a che punto potrebbero costituire un impedimento per lo sviluppo capitalista.
La questione implica una conclusione preliminare metodologica che deriva dall’analisi effettuata in precedenza: il rigetto di tutte le “prognosi” prima del completamento di una concreta analisi. In altre parole si dovrebbe evitare il dogmatismo sia nella sua variante positiva (“tutti i paesi saranno inevitabilmente soggetti agli stessi stadi storici”) sia in quella negativa (“i LDCs o i paesi ‘periferici’ rimarranno sempre nella loro condizione di sottosviluppo”).
Quindi comprendiamo come l’analisi marxista riconosce principalmente la possibilità di un capitalismo (e di uno sviluppo capitalista) che emerge come conseguenza della lotta di classe e traccia i prerequisiti di un tale sviluppo storico. Il dominio finale o la deformazione di questa tendenza non sono dati a priori, per esempio, dalla derivazione di una qualche, sempre presente, propensione astorica al progresso tecnologico; il suo risultato è sempre determinato da preesistenti relazioni sociali di potere.
In una lettera del 1881 alla socialista russa Vera Zasulitch Marx scrisse: “Ho mostrato nel Capitale che la trasformazione di un tipo di produzione feudale in uno capitalista ha come punto di partenza l’espoliazione dei produttori, il che significa principalmente che l’espogliazione dei contadini è alla base di quest’intero processo. (...) Sicuramente se la produzione capitalista espanderà il suo dominio in Russia, allora la grande maggioranza dei contadini si dovrà trasformare in salariati. Ma i precedenti dell’Ovest qui si riveleranno assolutamente inutili” (MEW, Vol. 19: 396-400).
Solo nel caso in cui il modello capitalista diventi, attraverso la lotta di classe, pienamente dominante nella composizione sociale, lo sviluppo capitalista diventerebbe tendenza intrinseca all’evoluzione sociale: favorita dall’assenza della struttura sociale precapitalista, l’accumulazione capitalista (a condizione che il capitale abbia raggiunto l’intenso sfruttamento del lavoro salariato), potrebbe condurre ad un alto tasso di crescita dell’economia, (temporaneamente interrotto da crisi cicliche). “Ma questa tendenza intrinseca alla produzione capitalista non si realizzerà adeguatamente - non diventa indispensabile, e ciò significa anche tecnologicamente indispensabile - fino a quando il modello specifico di produzione capitalista e quindi l’effettiva inclusione dei lavoratori sotto il capitale, sarà divenuta realtà” (Marx 1990: 1037).
Il problema dello sviluppo capitalista ha quindi a che fare non con le intrinseche dinamiche del modello di produzione capitalista, ma con la possibilità e la diffusione del suo dominio in una specifica forma sociale (la società); può quindi essere affermato solo a livello di forma (capitalista) sociale. Su questo piano, l’esistenza di modelli di produzione antagonisti (non capitalisti), ma anche il complesso di “decisioni esterne” (a proposito delle leggi sull’accumulazione riferite al modo di produzione capitalista (MPC)) determinano le possibilità o i limiti della dimensione, del grado e della direzione dello sviluppo capitalista.
Esistono sia forme sociali (capitaliste) sviluppate e sottosviluppate, sia forme sociali che si sviluppano in maniera capitalista differente come risultato dei complessivi rapporti di forza di classe consolidati principalmente al loro interno.
Il complesso di decisioni esterne al MPC, che sono principalmente i rapporti di potere e di forza nella lotta di classe, determinano sia la possibilità sia il grado di sviluppo capitalista. Dopo aver sostenuto questa tesi, che è fondamentale per le mie argomentazioni, è ora necessario svilupparla più a fondo.
È innanzitutto ovvio che tra i più importanti rapporti “esterni” - al MPC - che determinano lo sviluppo capitalista, si devono considerare i legami internazionali di una forma sociale all’interno dell’ordinamento del “sistema globale”. Questi legami sono, naturalmente, sia di natura economica (il mercato mondiale, l’internazionalizzazione della produzione, i movimenti internazionali di capitali) sia di natura politico-militare. L’effetto complessivo delle relazioni internazionali potrebbe agire sia per accelerare sia per ritardare lo sviluppo capitalista a seconda del tipo di articolazione della forma sociale data all’interno del contesto dell’ordinamento imperialista mondiale. Questo tipo di articolazione è quindi determinato dalla struttura economica e sociale della forma sociale data. In altre parole il fattore decisivo è ancora il rapporto economico interno e di classe. I rapporti imperialisti non costituiscono la “Causa Generale” della creazione del rapporto di potere nei paesi sottosviluppati. Al contrario sono le caratteristiche strutturali di questi rapporti di potere che impongono l’aspetto specifico o la posizione di una forma sociale all’interno dell’ordinamento imperialista. Se nella congiuntura prodotta dalla lotta di classe, le forze sociali del capitalismo in un LDC hanno successo nello stabilire un’egemonia economica, politica e sociale sia sulla classe lavoratrice sia sulla classe appartenete al modello di produzione non-capitalista, cosicché viene dato inizio ad un processo rapido di sviluppo capitalista, il ruolo internazionale di un dato paese non può più rimanere quello di un “appendice agricola” o di un “fornitore di materie prime”. Questo è oggigiorno esattamente il caso dei NICs (Menzel 1985). Quest’esempio quindi è anche pertinente all’esperienza passata di alcuni dei paesi tradizionalmente industrializzati dove lo sviluppo capitalista ebbe inizio più tardi rispetto al decollo industriale della Gran Bretagna (ad esempio i paesi Scandinavi, Senghaas 1982).
I modelli variabili di sviluppo capitalista possono essere considerati come il risultato della lotta di classe. Forme particolari di lotte di classe determinano la storica abilità del capitale, e quindi della borghesia, all’interno di un’esistente forma sociale, di stabilire il suo potere e l’egemonia su tutti i piani sociali (economico, politico ed ideologico).
La decisiva caratteristica socio-economica dei paesi sottosviluppati è al contrario un rapporto tra forze, ossia un complesso di decisioni “esterne”, che ostacola l’esteso riprodursi dei rapporti di potere capitalista “relegati” quindi sia a livello sociale sia a livello di spazio, nelle cosiddette “chiusure capitaliste” (Hurtienne 1981)
L’abilità della borghesia nei paesi sottosviluppati di espandere il suo potere sui modelli di produzione antagonisti (precapitalisti) e di causare la disintegrazione di questi ultimi è, quindi, la più importante presunzione dello sviluppo capitalista. Questo processo prende storicamente l’aspetto di riforma agraria, perché la proprietà agricola costituisce la base del modello precapitalista di produzione (Senghaas 1982). Nella maggior parte dei casi la riforma agraria non tende a stabilire rapporti di produzione capitalista nel settore agricolo dell’economia, ma principalmente serve a sviluppare rapporti di semplice produzione di merce basati sulla proprietà terriera dei produttori. Questa forma di produzione non costituisce un sistema economico antagonista in relazione al capitalismo industriale, ma al contrario è un eccellente esempio delle accelerate condizioni iniziali di sviluppo di quest’ultimo. L’assoggettamento dei contadini alle politiche economiche statali (regolazione dei prezzi dei prodotti agricoli) e al sistema di credito (acquisto dei mezzi della produzione attraverso prestiti bancari) garantisce prezzi bassi per i prodotti agricoli ed un abbassamento dei costi di rigenerazione della forza lavoro.
Il miglioramento della posizione nella competizione internazionale di alcuni paesi in via di sviluppo, specialmente dei NICs del sudest asiatico, è il risultato principale del consolidamento dei rapporti di capitale di questi paesi, della formazione di lavoratori esperti e sottomessi e di un incremento nel grado di sfruttamento del valore in eccedenza. Solamente nel caso di tali trasformazioni, i bassi salari dei NICs, possono essere un fattore vitale per l’arrivo d’investimenti stranieri diretti.
Nelle forme sociali definite come “paesi capitalisti sviluppati”, al contrario, esiste soltanto un modello di produzione: il MPC. I rapporti capitalisti sono espressi soltanto in semplice forma di produzione di merce sia nei settori agricoli che in quelli non agricoli dell’economia. La dimensione della semplice forma di produzione di merce, la sua conservazione nei diversi settori della società capitalista, o al contrario, il suo grado di dissolvimento o la dimensione del suo mantenimento, dipendono principalmente dall’aumento della produttività dei lavoratori nei settori (capitalisti) dominanti della società.
In un LDC non solo i modelli precapitalisti di produzione giocano un’importante ruolo ma anche le forme preindustriali del capitale. Nei suoi primi stadi di sviluppo, il capitalismo sarebbe potuto diventare dominante in uno specifico tessuto sociale anche se la proporzione del totale della popolazione lavoratrice con salario fosse rimasta relativamente piccola. In questi casi lo sfruttamento capitalista prende anche altre forme, oltre a quelle dei capitalismi più sviluppati. Dietro questa facciata di rapporti legati al prodotto, si potrebbe scoprire il dominio capitalista, nonostante sia il lavoro salariato sia l’impresa capitalista, nelle loro forme più avanzate, rimangano marginali o quantomeno fenomeni relativamente limitati.
Questa conclusione è asserita al di sopra d’ogni cosa nella ricerca di quella produzione di merce che, sotto certe circostanze, diventa sinonimo di subordinazione indiretta del lavoro al capitale. Quando in seguito la classe dominante non-capitalista si disintegra, con l’eliminazione della suddivisione feudale delle classi sociali e con uno Stato operante nell’interesse del capitale, artigiani e agricoltori si trasformano in produttori di mercato e manifatturieri di prodotti.
Fino a quando l’artigiano o l’agricoltore fossero stati in grado di vendere i loro prodotti a mercanti differenti avrebbero mantenuto lo status economico di produttori indipendenti. In ogni caso la diversificazione della domanda e, di conseguenza, della produzione, insieme alla necessità di produrre non tanto per il mercato locale quanto per vari mercati più distanti, (tendenze create entrambe dal crescente aumento della divisione del lavoro e del significato delle relazioni di mercato) resero il produttore sempre più dipendente dal mercante che lo avrebbe rifornito di materie prime e che sarebbe diventato quindi il buyer-up [1] della merce del produttore. Poiché il buyer-up diventa così l’agente commerciale che piazza la merce nei differenti mercati, egli decide il tipo e la quantità di merce che deve essere prodotta da ogni artigiano o agricoltore che lavora per lui. Egli piazza ordini in anticipo per le mercanzie di cui ha bisogno ed in molti casi, inizia a fornire il produttore diretto di materie prime.
In questo modo il buyer-up ottiene a tutti gli effetti il controllo sul processo di produzione di ogni produttore e quindi sui suoi mezzi di produzione. È lui che, asseconda dei criteri di produzione da lui stesso stabiliti e con il variare della domanda, decide sia l’entità della produzione e il suo grado di diversificazione, sia la suddivisione del lavoro tra i vari produttori sotto il suo controllo. Il buyer-up può quindi ridurre i prezzi delle merci che acquista dai produttori diretti, a tal punto che il reddito generato dai produttori non è molto più alto dello stipendio di un lavoratore. Da ciò emerge quello che Rubin (1989) chiama “ il sistema cottage o domestico o decentralizzato dell’industria di larga scala”, che “pavimenta la strada alla completa riorganizzazione dell’industria su una base capitalista” (155).
Dovrebbe essere noto che Lenin, nei suoi scritti del 1890-1900 sullo Sviluppo del Capitalismo in Russia, comprese pienamente e mise in evidenza in primo luogo il carattere capitalista di un’economia basata sui buyer-up ed in secondo luogo il fatto che la perpetuazione di forme politiche e legali precapitaliste avrebbero potuto ritardare la transizione di quest’arcaica economia capitalista (preindustriale) verso un capitalismo industriale più sviluppato.
Lenin descrive la produzione per i principali acquirenti come una forma di capitalismo manifatturiero. Egli scrisse:
“Nulla potrebbe essere più assurdo dell’opinione che lavorare per i buyer-up è semplicemente il risultato di qualche abuso, di qualche incidente o di qualche ‘capitalizzazione del processo di scambio’ e non di produzione. È vero il contrario: lavorare per un buyer-up è una forma speciale di produzione, un’organizzazione di rapporti economici di produzione. (...). Nella classificazione scientifica delle varie forme d’industria attraverso il loro successivo sviluppo, il lavoro per un buyer-up appartiene in una certa estensione al capitalismo manifatturiero, poiché 1) è basato sulla produzione manuale e sull’esistenza di molte piccole fabbriche; 2) introduce la suddivisione del lavoro tra queste piccole fabbriche e lo sviluppa inoltre all’interno del laboratorio; 3) pone i mercanti in testa alla produzione, come accade sempre nel caso delle manifatture che presumono una produzione su vasta scala, l’acquisto all’ingrosso delle materie prime e la vendita nei mercati del prodotto; 4) riduce i lavoratori allo stato di salariati occupati o nelle officine di un padrone o nelle loro stesse case. (...). Questa forma d’industria implica già un profondo stato d’avanzamento nelle regole del capitalismo, che è il diretto precursore della sua ultima e più elevata forma - l’industria con macchinari per la produzione su larga scala. Il lavoro per il buyer-up è di conseguenza una forma a ritroso del capitalismo, e nella società contemporanea questo tornare indietro ha l’effetto di peggiorare seriamente le condizioni dei lavoratori che sono così sfruttati dagli intermediatori (il sistema di sfruttamento) e divisi, costretti ad accontentarsi di bassi salari e a lavorare per lunghe ore in tremende condizioni sanitarie, e - cosa più importante - in condizioni che fanno diventare il controllo pubblico della produzione estremamente difficile” (LCW Vol. 2, pp. 434-35, enfasi aggiunta).
Un’analisi simile riguardo il subordinamento formale del lavoratore al capitale mercantile e agli intermediari si può trovare nel terzo volume del Capitale, capitolo 20, esp. pp.452-455 (ma anche nel primo volume del Capitale, capitolo 13 e 14). Marx considera i produttori diretti che sono soggetti al volere dei mercanti come una forma ibrida di lavoro stipendiato che prepara la strada al tipico rapporto di produzione capitalista: “La transizione dal modello di produzione feudale ha luogo in due modi differenti. Il produttore potrebbe diventare mercante e capitalista (...) In alternativa però il mercante potrebbe assumere lui stesso il controllo diretto della produzione (...) Questo metodo (...) senza rivoluzionare il modello della produzione, semplicemente peggiora le condizioni del produttore diretto, lo trasforma in vero salariato e proletario (...) appropriandosi del lavoro in eccedenza sulla base del vecchio modello di produzione (...) Il mercante è il vero capitalista e intasca la parte più grande del valore in eccedenza” (Marx 1991, ppp.452-53, enfasi aggiunta).
Lenin affronta la società Russa dal punto di partenza delle categorie di Marx e arriva alla conclusione che la transizione dalla forma storica di sottosviluppo del mercante capitalista al capitalismo industriale è il risultato dello sviluppo della lotta di classe. La crescita dell’industria su larga scala perciò ha luogo solo in conseguenza della crescita delle contraddizioni nelle e tra le differenti forme embrionali del capitalismo. (LCW Vol. 3 PP.541-2)
La transizione dal capitalismo manifatturiero a quello industriale su larga scala significa, allo stesso momento, un cambiamento nel rapporto di forze tra mercanti e capitale industriale. Quella manifatturiera (soprattutto nella sua forma primordiale di produzione commercializzata individualmente dal buyer-up per l’artigiano) è una produzione capitalista subordinata al bisogno di capitale mercantile, poiché quest’ultimo rende sicura la centralizzazione capitalista del processo produttivo e il suo orientamento sulla domanda di mercato. Per contrasto la stessa industria di larga scala rappresenta la tipica centralizzazione e procedura di processo produttivo (divisione del lavoro nelle imprese, creazione di una gerarchia produttiva e della meccanizzazione, disciplina dispotica in fabbrica) abolendo l’intervento di mediatore del capitale mercantile che caratterizza la sua fase precedente.
Ciò che differenzia la tesi di Lenin da quelle adottate nella maggior parte dei dibattiti contemporanei sulla transizione da un modello di produzione precapitalista al capitalismo, sta nel fatto che Lenin considera i rapporti sociali, creati quando il mercante assume il controllo della produzione dell’artigiano, già rapporti di produzione; ad esempio una forma preliminare di lavoro salariato o una sottrazione del valore in eccedenza. Secondo quest’approccio, prendendo il controllo del processo di produzione degli artigiani, il capitale mercantile assume, benché in maniera indiretta o informale, anche il controllo sui loro mezzi di produzione. Di conseguenza Lenin concepisce l’industrializzazione come una transizione da una forma capitalista (non ancora sviluppata) ad un’altra (sviluppata). Al contrario la maggior parte degli approcci contemporanei concepiscono lo stadio iniziale dell’industrializzazione come una forma di transizione dal precapitalismo al capitalismo; ad esempio concepiscono il mercante o il buyer-up che controlla la produzione artigianale, come una forma sociale transitoria che consente il passaggio dal precapitalismo al capitalismo. Facendo ciò, sono incapaci di comprendere la forma di lavoro in eccedenza di cui si appropria il buyer-up.
Quindi seguendo il pensiero stesso di Lenin possiamo asserire che la transizione da forme di capitalismo preindustriale, caratterizzate dall’indiretta subordinazione del lavoro al capitale mercantile, al capitalismo industriale, completando la diretta subordinazione del lavoro al capitale, non emerge da alcun ineluttabile imperativo tecnologico o dalla crescita lineare delle “forze produttive”, ma (esattamente come nel caso del dissolvimento dei modelli di produzione precapitalisti) è una conseguenza del capovolgimento dei tradizionali rapporti sociali e politici in favore del capitale industriale.
L’Economia Politica dello sviluppo avrebbe molto di più da guadagnare se prendesse seriamente in considerazione questa interpretazione teorica dei rapporti di classe. Se si focalizzasse sulla “produzione e sulla distribuzione del lavoro in eccedenza”, allora l’enorme diffusione delle industrie cottage e dei rapporti di subappalto nella maggior parte dei LDCs (ma anche la crescita nel façon-production [2] e nel subappalto nei paesi capitalisti sviluppati, infatti mentre da un lato cresce la “flessibilità nel lavoro”, dall’altro un crescente numero d’imprese impiegano principalmente merce prodotta per loro da subappaltatori) potrebbero essere correttamente compresi come forme concomitanti (ai rapporti di lavoro salariato) allo sfruttamento capitalista.
Abbiamo affrontato il problema dello sviluppo capitalista dal punto di vista della teoria marxista dei modelli di produzione e abbiamo dimostrato che il processo in questione non deve essere compreso né come risultato dell’interesse della “divisione capitalista del lavoro a livello mondiale” né come “destino” di tutti i paesi. È il prodotto del potere e del dominio sociale capitalista. Il rafforzamento e l’estesa riproduzione degli ultimi in una forma sociale è deciso dalla lotta di classe. È in altre parole un prodotto contingente che varia in accordo con le specifiche circostanze storiche di ciascuna forma sociale.
[1] Principale acquirente o accaparratore di buona parte della produzione, ndt.
[2] Modo di produrre, ndt.