Dopo la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, una riflessione critica sui nuovi strumenti di sviluppo. Sviluppo dal basso o subalternità alla globalizzazione capitalista?

Ciro Annunziata

Il sud, anche da molti meridionalisti, è stato visto spesso come un qualcosa di monolitico, letto e riletto attraverso stereotipi, ed il suo sviluppo dimensionato rispetto alla distanza da qualcos’altro (dalle regioni del nord, dall’Europa).

Difficilmente si trovano, tranne in una trattazione minoritaria, contributi in cui venga centrata l’attenzione, su di una ipotesi di sud come diverso e altro dai modelli di sviluppo economico e sociali dominanti.

Il sud monolitico non esiste se non nell’immaginario di politici e studiosi: il sud delle piccole città è diverso dal sud delle metropoli, come è diverso dal sud delle campagne, come ancora diverso è il sud dei distretti industriali da quello delle piccole realtà artigiane, il sud dell’entroterra montano da quelli dei litorali affollati da turisti d’estate.

È in questa diversità che vanno ricercate nuove linee di lettura per nuove modalità per pensare ad un diverso modello di “sviluppo” (parola che andrebbe abolita visti i guai che ha portato) per i tanti sud dell’ITALIA.

1. Clientelismo vecchio e nuovo

Dal dopoguerra fino agli inizi degli anni 90, prima la classe politica democristiana e dopo quella socialista (e spesso anche quella comunista del PCI) ha instaurato un regime clientelare, che in cambio di voti gestiva la massa di finanziamento che lo stato poneva in essere per lo sviluppo del mezzogiorno (cassa per il mezzogiorno): opere pubbliche, appalti, commesse creavano un reticolo diffuso di clientela che si estrinsecavano al momento dei vari turni elettorali e che hanno costruito nel tempo un controllo del territorio, dove la mancanza di lavoro e l’assenza di una società autonoma dalla politica ha favorito ha subordinato la società meridionale ad un ceto politico-burocratico corrotto e arrogante.

Sono stati scritti fiumi di parole su come questo meccanismo ha permesso un salto di qualità alle organizzazioni malavitose, che hanno creato un legame perverso tra attività criminale - attività economiche - politica.

Molti dei mali dei sud dell’Italia sono ascrivibili a questo vizio di origine che ha sedimentato remissione e controllo sociale.

Con gli anni novanta e il vento di tangentopoli, la stagione dei referendum, la conseguente decapitazione della classe politica della vecchia DC e del partito socialista arrivano al potere le nuove leve del moderatismo e del riformismo di sinistra.

Cosa cambia? Apparentemente molto, nella sostanza poco. Il sistema clientelare creato in cinquant’anni è duro ad essere smantellato. I posti del sottobosco di governo locale e nazionale, non sono facili da destituire, e comunque sono posti di potere che mantengono i vecchi legami clientelari e ne creano di nuovi. La nuova classe dirigente accetta supinamente questo stato di cose in nome della governabilità e del governo della globalizzazione, alimentandolo con la paura delle destre.

Il risultato è stato quello di avere un governo più efficiente ( le cose con noi si fanno), ma riconvertendo i vecchi boiardi e creando una nuova classe di tecnocrati di sinistra più interessati ad ottenere contratti lucrosi che a smantellare il vecchio sistema clientelare.

2. I sud e il neo liberismo

Ovviamente i sud a partire dagli anni 80 sono stati il laboratorio per l’ascesa delle nuove forme di liberismo selvaggio, facilitato dalla presenza di un controllo sociale forte, che ha creato ad esempio terreno utile per le grandi multinazionali per l’esternalizzazione delle produzioni.

Il lavoro nero, sottopagato, precario, da sempre elemento fondante di una certa imprenditoria meridionale ha fatto si che la crescente voracità del capitale alla ricerca del massimo profitto e quindi dei minori costi, trovasse terreno fertile nelle regioni del sud, aiutato spesso dagli immancabili aiuti dello stato per lo sviluppo delle aree cosiddette marginali.

I governi che si sono succeduti (di destra e di sinistra) passata l’era democristiana, avendo accettato le compatibilità liberiste hanno solo cercato di “legalizzare” una situazione di precarietà e di insicurezza diffusa.

La riforma delle pensioni del governo Dini, il pacchetto TREU del governo di centro sinistra, le privatizzazioni massicce del Governo Prodi e la legge Biagi del Governo Berlusconi sono tutti provvedimenti che inquadrano l’esistente nella dinamica della globalizzazione e cercano di normare, di far divenire legale l’esistente, senza preoccuparsi minimamente di capire le ragioni profonde della precarizzazione del lavoro e del dramma sociale sia del sud che dell’Italia in generale.

I dati hanno dimostrato che qualche effetto queste politiche hanno portato: aumento del numero delle partite iva aperte, aumento della massa di investimento apportato nei distretti meridionali, aumento dei rapporti di lavoro cosiddetti atipici........ma questo basta per dire che vada tutto bene ? Basta guardare il tasso di dIsoccupazione o la qualità sociale all’interno delle famiglie o anche alla distribuzione del reddito per cogliere che queste politiche hanno miseramente fallito nel tentativo di dare una risposta ai tanti sud, in cerca di un percorso autonomo di “sviluppo”.

Il governo della globalizzazione non è altro che il governo a favore delle elite imprenditoriali e del ceto politico-burocratico, esso si alimenta di una crescente precarizzazione del lavoro e dell’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi.

Il sud diventa terra di conquista, che va depredato e spremuto per poi cercare altri lidi per valorizzare il capitale.

Dopo aver sommariamente abbozzato una riflessione su ciò che sono state le politiche di intervento nel sud, mi soffermerò su alcuni casi di analisi di strumenti attuativi utilizzati soprattutto dai governi di centrosinistra in un contesto territoriale ben preciso: quello dell’Agro Nocerino-Sarnese in Provincia di Salerno.

Il tutto visto con gli “occhi” della critica alla globalizzazione neoliberista. In sequenza analizzerò i patti territoriali in generale, il patto territoriale dell’Agro Nocerino-sarnese, gli interventi post alluvione a Sarno

3. La globalizzazione dal basso: i patti territoriali

Lo strumento Patto territoriale ha avuto il suo riconoscimento legislativo nel 1995 e da quella data è stato l’elemento centrale delle politiche di sviluppo economico dei governi di centro-sinistra.

Il fulcro dell’azione dei patti territoriali sta nel cosiddetto “sviluppo dal basso”, ovvero, far si che i processi in ordine alle scelte economiche e produttive del territorio siano il frutto di un coinvolgimento dei soggetti economici, istituzionali, sindacali e sociali che agiscono sul territorio. Non più la cultura del chiedere e dell’assistenzialismo ma quella del fare, della responsabilità e della condivisione delle scelte. Una tale impostazione ha sicuramente dei pregi rispetto a politiche basate su interventi a pioggia o su programmi improvvisati, eppure quella dei patti è la riproposizione nel locale della logica della globalizzazione economica, dove ogni aspetto dell’essere umano diventa risorsa e merce.

Se si può in qualche modo condividere la premessa va completamente rigettata la prospettiva: ci si organizza dal basso, coinvolgendo gli attori del territorio, “per poter competere sui mercati internazionali”. Lo scopo dei patti non è quello di ripartire dai bisogni reali delle comunità locali, ma - in nome di un generico concetto di lavoro - alimentare la dimensione della competitività esasperata sia sui mercati nazionali che mondiali. La logica diventa tanto più perversa se si pensa che è l’intero territorio a diventare una grande fabbrica da sviluppare nel modo più efficiente e competitivo possibile e non più solo spezzoni di società (come nel periodo fordista con la fabbrica). A tal proposito è bene citare cosa scrivono in un loro libro due fautori dello sviluppo dei patti territoriali:

Occorre quindi capire che il riapparire della centralità del locale dipende essenzialmente dalla nuova centralità assunta dal territorio nelle dinamiche produttive, perché il territorio come fabbrica diventa l’ambiente in base al quale si può competere. Oggi infatti, si compete attraverso sistemi territoriali, non più soltanto tra imprese: è il sistema territoriale nel suo insieme che compete nella dimensione globale, proprio perché il territorio è diventato quell’ambiente strategico funzionale ad alimentare sia il processo produttivo sia la gara competitiva”

(G. De Rita - A. Bonomi, Manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, 1998)

A fare le spese di una siffatta prospettiva sono le reti di solidarietà presenti nella società e l’ambiente naturale ed agricolo base stessa della riproduzione della vita e della socialità. Se guardiamo alle esperienze del passato e pensiamo ai vari distretti industriali esistenti in Italia (Modena, Reggio, Bologna, Carpi, Sassuolo, Prato ecc.), si può facilmente notare che non sono oasi felici: inquinamento, malattie professionali, malessere e disagio sociale sono molto diffusi. Interi territori sono stati definitivamente distrutti e sottratti ad una dimensione dove relazioni umane e sociali e prospettiva ecologica abbiano cittadinanza.

4. Il patto territoriale dell’agro nocerino-sarnese

Gli elementi che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente si ritrovano chiaramente nel Patto dell’Agro Nocerino-Sarnese, già partito da alcuni anni, che presenta alcune peculiarità rispetto al panorama nazionale.

Esso viene “venduto” come patto innovativo dato che all’interno dello stesso ci sono alcuni protocolli aggiuntivi, quali quello sociale e ambientale, che guarda caso sono stati i primi ad essere finanziati. In realtà, analizzando bene i vari interventi si scopre che la direzione di fondo è sempre la solita: quella industrialista. Enormi aree saranno destinate agli insediamenti industriali e questo in un territorio dove le montagne franano dove, il territorio negli ultimi quaranta anni è stato devastato dalle grosse opere infrastrutturali, dove ci sono i fiumi che annualmente inondano campagne e città, dove il manto arboreo delle montagne e delle colline è ormai inesistente a causa dei ripetuti incendi, dove vi è la presenza impressionante di cave, molte delle quali divenute discariche abusive, dove i fenomeni di marginalizzazione e frantumazione sociale sono in pericoloso aumento. La logica è quella di partire dallo sviluppo industriale, il resto verrà da sé: se verranno gli imprenditori ad investire e a creare ricchezza, poi possiamo discutere di altre cose (reddito, occupazione, qualità della vita), anzi quelle stesse cose saranno automatiche. Non importa se poi le imprese con fondi della Regione, dello Stato e dell’UE assumono i giovani pagandoli il trenta per cento in meno di quanto previsto dal contratto nazionale del lavoro, o se inesorabilmente verranno distrutte quelle poche aree agricole rimaste, che comunque rappresentano un patrimonio unico al mondo quanto a tipologia di terreno e fertilità.

Due aree identificate come PIP (Piani di Insediamento Produttivo) nel patto, una a Fosso Imperatore, l’altra tra S. Marzano, Scafati e Angri (denominata TAURANIA) ed altre parallele, che comunque beneficeranno dei finanziamenti del patto, come quella mastodontica di Sarno (1200000 metri quadri) e quella di Casarzano di Nocera Inferiore (500.000 metri quadri) fanno del Patto la più grande devastazione del territorio che l’Agro abbia mai subito.

Considerazioni a parte vanno poi fatte sulla struttura societaria del Patto: la scelta della SPA è alquanto discutibile, in quanto una siffatta tipologia tende ad estromettere le soggettività più deboli quali associazioni e cooperative ed organizzazioni informali di cittadini, mentre favorisce gli appetiti dei gruppi economici più forti (vedi industriali, banche, ecc.)

Bisogna poi stendere un velo pietoso sulla questione della trasparenza degli atti e sui processi decisionali interni al patto. A dirigere la baracca c’è un’amministratore delegato ed un consiglio di amministrazione le cui riunioni e deliberazioni sono avvolte in una coltre di mistero che sanno tanto di massoneria. Del resto all’ignaro cittadino non è concesso accedere a tali atti, perche dicono i solerti funzionari che la PATTO SPA è una società di diritto privato......

Certamente la PATTO SPA è una società di diritto privato, ma i soldi che gestisce sono di tipo pubblico, e quindi i cittadini devono poter conoscere quali meccanismi regolano le decisioni che poi ricadono sul territorio e possibilmente devono poter anche partecipare a questo meccanismo.

Sono proprio queste pratiche di “occultamento legale” che alimentano un nuovo tipo di clientelismo e di familismo, che si differenzia da quello di democristiana memoria solo perché meno clamoroso, più fine e “politicamente corretto”.

In conclusione, il patto dell’Agro, lungi dall’essere uno strumento di partecipazione dal basso è diventato una macchina distributrice di finanziamenti che ha eliminato qualsiasi tipo ragionamento critico.

In cambio di qualche miliardo, alcune delle grosse organizzazioni sociali e sindacali hanno definitivamente rinunciato a quegli elementi che per anni le hanno contraddistinte e cioè, autonomia politica, innovazione di pratiche sociali, pungolo e critica. -----

5. Gli interventi post alluvione a Sarno

Molti, certamente, ricorderanno i tragici eventi del 5 maggio del 1998 nei comuni di Sarno, Quindici, Siano e Bracigliano che hanno visto interi abitati distrutti e la morte di decine di persone, a seguito del distacco di colate di fango dalle pendici del monte Saro.

All’indomani della tragedia era chiaro a tutti che, seppur difficilmente prevedibile, essa era il frutto di anni di uso dissennato del territorio, dove si era privilegiata la crescita espansiva ed incontrollata dell’urbanizzazione, a scapito di un’oculata gestione dello stesso.

La tragedia di quei giorni doveva e poteva essere una svolta complessiva delle modalità di gestione del territorio dell’Agro nocerino-sarnese.

Di quei giorni e di quei morti molto si è detto e scritto. Poco o nulla si è scritto su cosa, dopo quei giorni, è stato preparato per rilanciare il cosiddetto “sviluppo” di quelle zone.

Negli stessi giorni in cui si estraevano i morti dalle macerie, zelanti funzionari di partito, sottosegretari, ed autorità locali stavano progettando, non la rinascita, ma la definitiva distruzione del territorio della città di Sarno.

Quella che sarebbe potuta essere il segno di un cambiamento radicale è diventato un boomerang per le comunità locali, i cui effetti nefasti purtroppo si vedranno negli anni.

Andiamo per gradi.

Eravamo al tempo dell’ULIVO e l’Agro noverino-sarnese aveva un suo sottosegretario nel governo Prodi, l’On.le Isaia Sales (Democratici di sinistra), che era stato il grande tessitore della costituzione del patto territoriale dell’Agro Noverino-sarnese, la cui presidenza era stata affidata al Presidente della Provincia, Alfonso Andria (del Partito popolare).

Il risultato di ciò sono state due grandi aree industriali previste, che si vanno ad aggiungere a tutta una serie di distretti che i singoli comuni fanno a gare a deliberare, spesso in deroga agli strumenti urbanistici.

Era inevitabile che in questo contesto, nel momento in cui si inizia a discutere di rilancio delle attività a Sarno, la prima parola posta all’ordine del giorno sia stata AREA INDUSTRIALE.

E difatti ecco che dal cilindro del governo viene fuori il Decreto legge n° 180 dell’11/6/98 (poi convertito in legge) che prevede l’individuazione di aree per la rilocalizzazione delle attività che hanno subito danni dalle frane del 5 maggio e per l’installazione di nuove attività produttive (art. 4). La scelta di dette aree di industrializzazione vanno in deroga agli strumenti urbanistici comunali e sono sottoposti all’approvazione della Provincia.

Si intuisce facilmente che questa impostazione della legge dà il via libera agli appetiti speculativi che da anni a Sarno covavano (ricordiamo che il comune di Sarno negli anni 90 era stato sciolto per infiltrazione camorristica, proprio per gli appetiti della camorra sul piano regolatore generale).

La solerzia del Consiglio Comunale e della Provincia non si è fatta attendere e nel giro di un paio di mesi ecco che gli atti di indirizzo sono belli e pronti e tutti approvati all’unanimità.

Il risultato è la previsione di una grande area industriale di 1200000 metri quadri (che si va da aggiungere alle altre due previste dal patto), che una volta realizzata rappresenterebbe una delle più devastanti operazioni di distruzione territorio dell’agro nocerino-sarnese da molti anni a questa parte.

È inutile dire che le aziende che hanno subito danni all’interno della zona rossa sono un’esigua minoranza (si contano sulla punta delle dita), rispetto alle decine e decine che hanno chiesto ed ottenuto i suoli per l’ubicazione delle attività.

Solo qualche timida opposizione da parte di un paio di associazioni, ma niente di serio. Del resto non è politicamente corretto attaccare un’operazione voluta dal Presidente del patto territoriale, che sta elargendo contributi proprio a quei soggetti sociali che avrebbero il compito di contestare questo grande scempio.

Coloro che, spesso da soli e sostanzialmente guardati come marziani, cercano in ogni occasione di ragionare su di uno “sviluppo” diverso del territorio, contestando l’area industriale, oggi pongono l’accento su due argomenti: la tutela del suolo agricolo dell’Agro nocerino-sarnese e il rischio idraulico da cementificazione del territorio.

Il terreno dell’Agro nocerino-sarnese rappresenta uno dei suoli più fertili d’Europa. In nessuna parte d’Europa, se non al mondo, si riescono ad ottenere 3-4 raccolti all’anno, con una facile lavorabilità del terreno, che non richiede un grosso dispendio di energie e di macchine. Il segreto di tale ricchezza risiede nella natura del terreno, che è costituito da strati successivi di origine vulcanica e alluvionale. In tutti i trattati di agronomia, la peculiarità della fertilità dei terreni dell’Agro nocerino-sarnese è sottolineata ed apprezzata. La continua cementificazione del territorio sottrae una ricchezza di valore inestimabile, che oggi rispetto alle logiche di mercato ha un basso valore (valore di scambio), ma che un domani potrebbe essere fonte di ricchezza fondamentale per le comunità locali (Valore d’uso).

1200000 metri quadri significano 120 ettari di suolo fertilissimo, che scompariranno per sempre e con esso le tante piccole aziende agricole che ancora resistono agli effetti nefasti della globalizzazione sui prezzi dei prodotti agricoli. Le tante piccole aziende rappresentano comunque un giacimento occupazionale tra il formale e l’informale, a metà tra mercato e autoproduzione, che i signori dello sviluppo industriale non hanno per niente tenuto in considerazione.

Per quanto riguarda il rischio idraulico, stiamo assistendo negli ultimi anni ad un aumento del numero di eventi alluvionali (esondazione dei fiumi e dei torrenti). L’anno scorso a Nocera Inferiore a seguito dell’esondazione del torrente Solofrana un intero quartiere è stato isolato ed un miracolo ha impedito che ci scappasse il morto.

L’assetto idraulico dell’Agro Noverino-sarnese è estremamente delicato, fatto di canali, fossi e torrenti che poi scaricano nel fiume Sarno, e la cementificazione di questi anni ha amplificato fenomeni che, seppur naturali, avvenivano con periodicità decennali. Siamo passati da un evento alluvionale ogni 15/20 anni, ad 1-2 eventi all’anno. L’acqua piovana, che normalmente si dovrebbe infiltrare nel terreno rimpinguando le falde acquifere, viene invece “intrappolata” dal cemento e dall’asfalto e convogliata nelle condotte fognarie che scaricano in torrenti e fiumi, che non sopportano una tale enorme quantità di acqua.

Nella gestione corretta di un territorio questi argomenti non possono essere elusi. Nelle previsioni delle espansioni industriali e urbane nell’Agro, non c’è nessun riferimento serio e tecnicamente valido a questi temi che, se non posti al centro della riflessione, porteranno alle nostre popolazioni ulteriori danni, e purtroppo non solo economici.

6. Il sud oltre il governo della globalizzazione

In queste note ho voluto dare degli input per far comprendere come le politiche, soprattutto dei governi di centro-sinistra, rispetto al sud siano miseramente fallite o stanno per fallire, in quanto hanno agito all’interno della globalizzazione neoliberista (e purtroppo non poteva essere altrimenti),

Per ripartire da sud e cercare un modello che dia benessere alle popolazioni meridionali in cooperazione e non in competizione con le altre aree del paese e con gli altri popoli, bisogna uscire dalla logica liberista.

Certamente servono strumenti di lungo periodo che fanno perno su di una pianificazione decentralizzata a livello municipale ed inter municipale, e su nuovi indicatori di benessere che non possono essere ridotti esclusivamente al PIL e che tengano conto del benessere sociale, della qualità della vita e dell’ambiente.

In linea del tutto non esaustiva indico dal mio punto di vista alcune ipotesi operative anche di breve periodo per attuare strumenti politico-economici che affrontino il problema sud da un versante opposto (antagonista) rispetto a quello liberista

- Attuazione di strumenti di reddito garantito (Redditi Sociale minimo) per permettere una conflittualità più efficace sul terreno dei nuovi diritti da conquistare lavorando per la normatizzazione del reddito di cittadinanza (nessuno individuo può essere lasciato senza i mezzi minimi di sopravvivenza)

- Costituzione di banche cooperative locali pubbliche o strutture di microcredito su base comunale ed intercomunale che finanzino, non in regime di finanziarizzazione e massimizzazione dei profitti, un altro modello di sviluppo basato su una riconversione ecologica delle produzioni, su strumenti di mutuo appoggio, sulle piccole realtà di produzione agricola e artigianale

- Favorire la produzione di energie rinnovabili, in modo da arrivare nel corso del tempo ad un’autonomia energetica del sud......il sole non manca. È importante costituire società pubbliche su base intercomunale per la produzione e distribuzione di questa energia

- Impedire l’ingresso delle multinazionali nelle gestione dei beni comuni (terra, acqua, energia)

- La cura del territorio (riforestazione, decementificazione dei corsi d’acqua, monitoraggio ambientale di acqua, terra e aria) come giacimento occupazionale futuro

- Pensare a nuove istituzioni facenti perno su MUNICIPI AUTORGANIZZATO E ALTERNATIVI

- Favorire la crescita e lo sviluppo di monete locali (sull’esempio dei lets inglesi o i club de treque argentini) per aumentare l’autosufficienza delle comunità locali

Rispetto a ciò che può essere una inversione di tendenza della Politica sociale verso il mezzogiorno assume importanza nel breve la erogazione di forme di reddito garantito, che può trovare uno strumento efficace nella proposta di legge di iniziativa popolare sul Reddito Sociale Minimo, che è stata fatta propria da molti parlamentari.

Cercherò di illustrare brevemente quali possono essere gli effetti di tale strumento.

7. Nuovi strumenti per la politica sociale del Mezzogiorno (e non solo): Reddito Sociale Minimo

La politica del cosiddetto “sviluppo” ha creato distruzione del territorio (le famose cattedrali nel deserto - Bagnoli, Gioia Tauro, Melfi ecc.) con sperpero di ingenti risorse pubbliche. Il dramma della precarietà e della disoccupazione rimane sostanzialmente non risolto, e come ho cercato di dimostrare, le soluzioni proposte alla cosiddetta globalizzazione dal basso dei patti territoriali non hanno apportato i benefici promessi.

Occorre cambiare registro e prospettiva, e senza per forza avere una visione antagonista e rivoluzionaria si può assumere come grimaldello di un cambiamento reale nella politica sociale dell’Italia e del Mezzzogiorno, proprio lo strumento del Reddito Sociale Minimo. Grimaldello non significa dare a questo strumento una visione salvifica, ma solo l’elemento di una precondizione per costruire modelli di società che siano equi, solidali ed ecologici.

Reddito Sociale Minimo significa elargire una somma in denaro (oltre a strumenti di tarriffazione sociale) a soggetti che si trovano in condizione di disoccupazione o di precarietà lavorativa.

Molto si può discutere da un punto di vista teorico se un tale strumento sia interno o meno alla logica lavorista (vedi dibattito su salario sociale e reddito di cittadinanza), ma qui il punto diventa quello di individuare percorsi politici concreti ( e non solo teorici) per conquistare nuovi diritti rispetto all’offensiva neoliberista.

Il mezzogiorno può essere un vero banco di prova sulla utilità di questo strumento. Nel Sud l’emigrazione verso il nord non si è mai fermata, e tanti giovani spesso laureati sono costretti ad andare al Nord, nelle oasi “felici” del liberismo, impoverendo il tessuto sociale che invece ha bisogno di nuove energie, pena la morte fisica di interi territorio.

Questo fuggire verso lo sviluppo di intere generazioni, porta come conseguenza che la politica locale sogni questo miraggio attraverso questa equazione: se i nostri giovani fuggono verso lo sviluppo del nord alla ricerca di un lavoro dignitoso e di reddito, allora costi quel che costi bisogna portare al sud, nel locale questo sviluppo. Risultato: devastazioni ambientali, alimentazione di clientele e accumulazione dei soliti noti (vedi Sarno).

Proverò ad elencare alcune degli effetti più importanti che potrà avere uno strumento come quello del Reddito Sociale Minimo in una nuova politica sociale per il mezzogiorno:

- Dignità del lavoro - Avere uno strumento di dignità esterno al mondo del lavoro permette di non cedere al ricatto di accettare qualsiasi lavoro in qualsiasi condizione lavorativa pur di ottenere un reddito. Si potranno scegliere lavori più dignitosi e/o gratificanti senza che il loro rifiuto significhi cadere in uno stato di emarginazione

- Tenuta delle comunità locali - I giovani che fuggono al nord, spesso si ritrovano ad avere lavori adeguatamente remunerati, però in condizioni logistiche (casa, rapporti sociali) molto precari, senza considerare che il più alto costo della vita al nord non permette ai nuovi emigranti un livello di vita accettabile. Il reddito sociale minimo potrebbe favorire la possibilità di questi giovani di rimanere al sud, dove esistono vincoli sociali e comunitari che permettono una vita dignitosa, anche in presenza di guadagni non elevati. Senza contare che queste energie sociali ed intellettuali divengono importanti nella crescita delle comunità locali che così si vivacizzano, non andando incontro a fenomeni di marginalizzazione sociale

- Crescita del conflitto sociale. Questo effetto non è detto che sia conseguenziale, ma è certo che la presenza di garanzie di base universali, permetta di uscire dalla condizione di ricatto e costruire reti di rivendicazioni di nuovi diritti, che solo attraverso una conflittualità diffusa e reticolare potrà portare a veri cambiamenti strutturali

- Crescita di reti di reti di produzione e consumo ecologiche, non mercificate e solidali - Quella della costruzione di alternative concrete al modello neoliberista è un vero banco di prova. La nuova società che vogliamo costruire, bisogna provarla ad immaginare anche nel piccolo: uguaglianza, pianificazione ecologica, orizzontalità vanno verificati in processi di autorganizzazione che provino a costruire un’altra economia. Il reddito sociale minimo può favorire questo processo, perché garantisce garanzie minime di sopravvivenza a chi si impegna in questi settori al limite fra l’economico e il sociale, senza che queste esperienze vitali, cadano nella morsa del mercato selvaggio.

- Pianificazione ecologica degli interventi sul territorio. Da più parti si parla di riconversione ecologica dell’economia, se però questa idea rimane vincolata alla favola dello “sviluppo” liberista rimarrà sempre e solo un miraggio. Riconversione ecologica significa lentezza (valutare bene cosa e come fare), significa pianificazione, significa partecipazione delle comunità locali. Il reddito sociale minimo permette di uscire dalla logica di ottenere il più possibile subito. Gli amministratori locali si piegano spesso alle più brutali devastazioni del territorio, perché, spesso in buona fede, non vedono altri strumenti o altre modalità per assicurare reddito alle proprie popolazioni. Il reddito sociale minimo potrebbe permettere a chi amministra di scegliere con cautela gli interventi sul territorio, favorendo quelli che prevedono una riqualificazione ambientale degli stessi. Non sempre viene colta in Italia nel dibattito in corso la diretta relazione tra emergenza ambientale e prospettiva del reddito garantito, ed in questa direzione bisognerà trovare dei percorsi di approfondimento, magari guardando a ciò che succede in altri paesi, per esempio in Germania, dove vasta parte dell’ambientalismo di questo paese ha assunto il reddito garantito come uno degli assi portanti per la prospettiva di un’economia ecologica.

La nuova stagione del movimento, inaugurata con le contestazioni al WTO a Seattle, ha dato speranza, nonostante l’offensiva liberista, per un cambiamento sociale e la prospettiva di nuovi diritti. Il sud dell’Italia con le sue mille contraddizioni può diventare il laboratorio della prospettiva di una società diversa.

Gli strumenti di reddito garantito possono aiutare, oltre a liberare le persone dalla mercificazione e dallo sfruttamento, determinando le basi per un cambiamento complessivo.

Ovviamente niente verrà regalata e il movimento e le lotta per questo diritto sono quanto mai necessari.