Il movimento dei lavoratori tra la speranza per il futuro e la gestione del presente: la sinistra brasiliana e l’impraticabile sogno della collaborazione capitale-lavoro del governo Lula

Alvaro Bianchi

Ruy Braga

1. La forza elettorale di Lula come espressione del cambiamento dei rapporti di forza in America Latina

All’inizio del suo lavoro di narratore, il bandito prezzolato Riobaldo, personaggio centrale del Grande Sertão Veredas di João Guimarães Rosa, riflette sul suo stesso parlare: “Vivere è molto pericoloso” e, forzando un po’ il suo portoghese, continua “raccontare è molto difficile. Non tanto per gli anni che sono già passati, ma per l’astuzia di certe cose passate”. Chi ha corso i pericoli del fare politica attiva nell’ultimo decennio sa esattamente di cosa sta parlando Riobaldo. “Guerra e rivoluzione” hanno modificato la percezione del nostro presente e quella di un possibile futuro. Come si può spiegare la storia spericolata di quella vita, quando il pericolo è ancora parte della vita che stiamo conducendo? Il racconto pro forma della riflessione politica di allora, diventa difficile nella maniera in cui lo sono le tempeste storiche e le astuzie del passato.

Una riflessione critica sul significato della recente vittoria elettorale di Luís Inácio Lula da Silva e del Partido dos Trabalhadores (PT), alle ultime elezioni brasiliane, non è soltanto difficile ma anche rischioso. L’analisi che intendiamo fare, scrivendo a pochi mesi dall’evento, appena Lula sta prendendo i primi provvedimenti governativi, potrà essere, in alcuni punti, imprecisa e vaga. Ma si tratta però di un esercizio necessario. L’urgenza di un dibattito e la pericolosità di quanto sta avvenendo lo richiedono.

L’elezione di Lula riflette un profondo desiderio di mutamento della società brasiliana, esautorata da più di un decennio d’esperienza neoliberale. Questo desiderio di trasformazione si esprime con tale forza da diventare un luogo comune anche tra gli analisti politici. Però non si tratta soltanto del desiderio di un mutamento economico, come sostengono invece molti analisti, ma anche, secondo la nostra analisi, del bisogno di una trasformazione sociale e politica. L’elezione di Lula significa, per milioni di persone, la possibilità di trasformare la politica in qualcosa che si possa esprimere con la prima persona plurale - noi - invece dell’esclusiva terza persona plurale - loro - e dove la speranza di un miglioramento non sia più un’utopia.

Il valore simbolico di questa candidatura vincente è estremamente forte. Lula è un emigrante del nordest fuggito, insieme alla madre e ai suoi sette fratelli, alla fame che devastava la sua città natale Garanhus, all’interno dello stato del Pernanbuco; è un tornitore meccanico che ha dovuto smettere di studiare quando era ancora piccolo; è un sindacalista che ha scritto il suo nome nella storia del Brasile verso la fine degli anni ‘70. Votarlo è stato per molti l’espressione del desiderio di ricreare un’identità sociale e di generare una coscienza politica; è significato la possibilità di ottenere finalmente quello che da tempo gli era nascosto o negato; è stata la rivalsa dei vinti, degli umiliati e dei disprezzati.

L’atto stesso di ricostruzione dell’identità delle classi minori è stato però possibile nella misura in cui la forza elettorale di Lula è diventata espressione di cambiamento nei rapporti tra forze su scala latino-americana e, allo stesso tempo, momento costitutivo di questo cambiamento. Si è resa così simile ad una serie d’eventi che sono intervenuti con forza e molteplicità di significati nella politica latino-americana dell’anno 2002: il fallimento del golpe dei militari e delle classi imprenditoriali in Venezuela, la rivolta sociale in Argentina, l’adempimento elettorale del leader dei contadini boliviani, Evo Morales, e la vittoria dell’ex colonnello Lúcio Gutiérrez in Equador. Eventi questi che hanno indicato in maniera differente, da un lato, l’indebolimento politico dei movimenti neoliberali nel nostro continente, dovuto, in parte ma non soltanto, al loro fallimento economico, e dall’altro lato, alla nuova attività dei movimenti sociali dopo il riflusso degli anni ‘90.

Il Brasile non è andato incontro a questa trasformazione nel rapporto tra forze, a livello continentale. Al contrario della sua stessa dinamica storica, i suoi ritmi sono stati più lenti. È stato l’ultimo paese ad imbarcarsi nell’avventura neoliberale e contestualmente l’ultimo a volerne uscire. Infatti, la radicalizzazione sociale in Argentina, in Equador, in Bolivia e in Venezuela aveva anticipato gli avvenimenti brasiliani e assunto la forma di un’azione diretta dei movimenti sociali. Allo stesso modo, quando questa radicalizzazione si è espressa tramite vittorie elettorali, è stata preceduta da un’importante agitazione sociale che ha aperto la strada alla nascita di leadership politiche che s’identificavano direttamente o indirettamente con questi movimenti. Questo non è stato il caso del Brasile.

Paradossalmente, l’elezione di un candidato, la cui ascesa personale si sarebbe dovuta identificare in maniera profonda con quella dei movimenti sindacali e politici della classe lavoratrice brasiliana, è capitata in un contesto in cui la rinascita di questi non era ancora avvenuta. Pertanto, è stato l’espressione d’atti di dissociazione politica più lenti che si stavano attuando man mano nei substrati della società: una profonda ripugnanza per il modello neoliberale; una perdita di confidenza nella classe politica tradizionale; una sorda rivolta contro le classi dominanti che prosperavano tra la miseria delle altre e l’ineguaglianza sociale.

Ma, come già detto, la vittoria elettorale è stata anche il momento in cui si è creato l’attuale rapporto tra forze. Questa ha portato ad un’accelerazione e ad una diffusione in politica di questi movimenti, che fino ad ora si svolgevano quasi segretamente, e ha reso possibile la trasformazione del forte potenziale dei movimenti in forza motrice del cambiamento. L’identità collettiva creatasi intorno alla figura del presidente appena eletto ha riposto ogni speranza nel movimento, trasformandosi in una lotta alimentata dai profondi risentimenti sociali delle classi minori, dal desiderio di mutamento e dalla percezione del cambiamento nel rapporto tra forze sociali.

I movimenti sociali hanno certamente interpretato la vittoria elettorale come l’inizio di un periodo di mutamenti e hanno cominciato subito a metterli in atto. Nella recente Carta ao povo brasileiro e ao presidente Lula il Coordenação Nacional do Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST) afferma che:

“In questo momento abbiamo l’opportunità di realizzare lo storico compito di implementare una vera riforma agraria che renderà aperto a tutti l’accesso alla terra, eliminando così la fame, la disoccupazione e le disparità sociali. Invitiamo tutti i lavoratori, le lavoratrici e la società brasiliana in generale, ad organizzarsi, a mobilitarsi aiutandoci ad attuare la riforma agraria. Un Brasile più giusto e uguale è possibile. Questo è il momento!” (MST, 2002)

Questa però non è stata l’unica voce a farsi sentire. La direzione nazionale della Central Única dos Trabalhadores (CUT), non aveva fatto nessun richiamo all’azione e alla mobilitazione. La sua risoluzione più importante era stata la creazione di “sei gruppi di lavoro della CUT (la riforma tributaria e fiscale, la riforma sindacale e del lavoro, la riforma della previdenza sociale, la riforma agraria ed agricola, l’occupazione e il reddito e infine lo Stato e la pubblica amministrazione)” che avevano come obiettivo quello di presentare alcune proposte al governo e di partecipare ad ogni “forum della negoziazione”

La distanza che segna entrambe le risoluzioni è sintomatica delle tensioni che attraversavano i movimenti sociali. Agire o aspettare? Rivendicare o collaborare? Le voci concordi con il nuovo governo invocano l’attesa e la collaborazione. Lo stesso Lula aveva detto ai rappresentanti del movimento sindacale che non era l’ora di rivendicare. Ci si chiede: fino a quando sarà possibile aspettare con una società nella quale 49 milioni di persone guadagnano meno della metà del salario minimo (approssimativamente 27 Euro al mese)? Quando credono che “questo è il momento”? Come agirà il nuovo governo di fronte a questa richiesta di mutamento?

2. Dalla logica della differenza alla logica statale

La vittoria elettorale di Luís Inácio Lula da Silva e del PT alle elezioni presidenziali, riassume più di due decenni di trasformazioni politiche e sociali in Brasile. È un periodo di grandi cambiamenti. Due decenni nei quali i tempi della storia sono accelerati, frammentati e caratterizzati da convulsioni e momenti di rottura. Si dà vita ad un nuovo paese che difficilmente si riconoscerebbe in quello dei decenni precedenti, nonostante le sue peculiarità sociali siano marcate da una secolare continuità. Questa accelerazione temporale non è vissuta, come sarebbe più naturale, soltanto dalle grandi metropoli, ma anche dagli ambienti rurali, dove la lentezza dei cicli naturali, con le sue stagioni, i suoi giorni e le sue notti, è scossa dal ritmo tipico della politica.

Paradossalmente i tempi storici sono stimolati e acquisitano velocità proprio quando viene presa l’insolita decisione di fermarli. Il 12 maggio del 1978 gli operai della fabbrica di camion Saab-Scania, nell’ABC paulista, decidono di fermare le macchine e di incrociare le braccia. Rivendicando un aumento salariale del 20% circa, i duemila operai metalmeccanici di quell’impresa danno il via ad uno sciopero che segnerà quest’epoca. Interrompono così il ritmo cadenzato del cronometro e arrestano i tempi di produzione, adattandosi ai tempi della politica.

Il blocco dei lavoratori della Saab-Scania è la scintilla che ha fatto esplodere l’intenso movimento di rivendicazione, diffusosi in tutta la regione ed oltre. Durante tutto l’anno, scioperano circa mezzo milione di lavoratori e nell’anno seguente il numero raggiunge 3.241.500 scioperanti. Ciò contribuisce a dare luogo ad un lungo ciclo di lotte sindacali, con nuove organizzazioni della classe operaia, che si prolunga, in pratica senza interruzione, fino al 1989.

I movimenti dell’ABC paulista alla fine degli anni ‘70 inaugurano un’ampia stagione di lotte contro lo sfruttamento del lavoro e la legislazione repressiva, che legava il movimento sindacale allo Stato e restringeva ogni forma di rappresentanza dei lavoratori (Antunes, 2002). Caratterizzati dalla spontaneità e dall’efficacia, questi scioperi avviano una nuova pratica sindacale e politica. Rifiutando la collaborazione, il patto sociale e l’immobilismo che avevano caratterizzato buona parte della politica della sinistra brasiliana fino allora, gli scioperi dell’ABC generano un movimento fondato sul confronto sociale e sulla libertà di classe.

La nascita del PT è legata in maniera indissolubile a questo periodo di scioperi. Infatti, verso la metà del 1978, il giornale Versus comincia a divulgare la proposta di creare un partito di lavoratori senza padroni, che sfidasse la dittatura militare in corso. Questa proposta è espressa nella relazione che il Sindacato dos Metallúrgicos de Santo André aveva presentato al 9° Congresso dos Trabalhadores Metallúrgicos do estado de São Paulo, che ebbe luogo nella città di Lins nel Gennaio del 1979 (PT, 1998, p. 47-48).

Il 1° Maggio 1979 viene diffusa una Carta de Princípios do Partidos dos Trabalhadores, nella quale si afferma che: “Ripudiando tutte le forme di sfruttamento politico delle masse, incluso soprattutto quello effettuato dal regime prima del 64, il PT si rifiuta di accettare al suo interno rappresentanti delle classi sfruttatrici. Vale a dire, che il Partido dos Trabalhadores è un partito senza padroni!” (Idem, p. 53).

Le definizioni strategiche del progetto politico del PT, non mancano di mostrare nel suo primo anno un livello d’estrema generalizzazione e ambiguità. Il Programa do Partido, approvato nella Reuniã Nacional de Fundaçã nell’Ottobre del 1980, propone di costruire, nella lotta contro il regime repressivo, “una alternativa al potere economico e politico, smantellando la macchina repressiva e garantendo la massima libertà ai lavoratori e agli oppressi che sostenevano la mobilitazione e l’organizzazione del movimento popolare e che fosse l’espressione del legittimo diritto e della legittima volontà di decidere il destino del paese.” Il Programa definisce questo potere alternativo come costitutivo di una società senza oppressi né oppressori e sostiene che la sua costruzione debba avvenire a discapito degli interessi del grande capitale nazionale ed internazionale, ma non spiega come perseguirlo. (idem, p. 68-69).

Ciò che rende forte il partito nei suoi primi anni non è tanto il suo progetto strategico quanto la sua forza sociale. Quello che attrae i militanti del movimento sindacale e la gioventù, è la possibilità d’agire effettivamente attraverso la partecipazione politica in un partito, che non porta con sé il marchio pesante dell’immobilismo e del burocratismo che aveva devastato la sinistra brasiliana prima del golpe militare del 1964. In questo senso, il PT riassume il processo di riconfigurazione sociale e politica della classe lavoratrice brasiliana, elaborato già negli anni ‘70 attraverso una molteplicità di movimenti sociali, che contestavano le antiche forme istituzionalizzazione della politica delle classi minori. [1] Ciò che rende il nuovo partito promettente è la sua logica della differenza (Keck, 1997).

La costruzione del partito dei lavoratori, e di conseguenza la fondazione di un classismo allo stato pratico, rappresenta la svolta politico-organizzativa di quel movimento spontaneo di scioperi che, alla fine degli anni ‘70, aveva scosso la dittatura militare, alterando profondamente le modalità d’esercizio della politica in Brasile (Bianchi, 2001). Gli elementi di distinzione di questo classismo pratico, sono il rigetto quasi istintivo della politica della collaborazione, della concertazione e dell’alleanza con la borghesia, l’affermazione alla sua origine di una vocazione anticapitalista e la fiducia nel potere taumaturgico della “base del partito”. Questa dimensione pratica e spontanea, è ciò che ha dato al Partido dos Trabalhadores il vigore e la spinta necessari per rinnovare le modalità di fare politica della classe lavoratrice e, di conseguenza, delle stesse classi dominanti. È l’affermazione politica di una forza fino allora inimmaginabile ed insperata.

Le pratiche spontanee di questo classismo si trasformano presto in uno spontaneismo teorico. L’assenza di definizioni strategiche più precise è garantita dalla plasticità del movimento stesso e rappresentata come una gran virtù del partito. Da ciò l’insistenza affinché il PT non nasca “bello e pronto” ma che il suo programma sia il frutto “ della pratica politica delle sue basi sociali” e venga pensato in dettaglio “per l’attività politica dei lavoratori” (PT, 1998, p. 70-71).

Nel discorso di Lula alla 1° Convenção National do Partido nel 1981, questa negazione della teoria è resa esplicita. Rivolgendosi a coloro che vogliono conoscere l’ideologia e la concezione del socialismo del PT, Lula risponde che “queste questioni servono soltanto ad esprimere la diffidenza, in relazione alla capacità politica dei lavoratori brasiliani nel definire il loro stesso cammino”. E più avanti, nello stesso discorso presenta un suo proprio concetto:

“Il socialismo che noi vogliamo si definirà per tutto il popolo, com’esigenza concreta scaturita dalle lotte popolari, come risposta politica ed economica globale a tutte le aspirazioni concrete che il PT sia in grado di affrontare. Sarebbe molto facile, seduti comodamente qui all’interno del Senato della Repubblica, decidere per una definizione o per un’altra. Sarebbe molto facile e molto sbagliato. Il socialismo che noi vogliamo non nascerà da un decreto né nostro né di nessun altro. Il socialismo che noi vogliamo si andrà definendo nelle lotte, giorno dopo giorno, nello stesso modo in cui abbiamo costruito il PT.” (PT, 1998, p. 114.)

La costituzione di un nuovo progetto sociale è ridotta così al movimento spontaneo. Nel conflitto di razionalità che esiste nella lotta di classe in atto, quello che il PT deve fornire è soltanto il suo sostegno alla lotta. Questa tendenza assenteista nel conflitto di razionalità non fa altro che creare una subalternità passiva del partito sul piano ideologico, alimentando un eclettismo teorico sempre più forte. Senza costruire una concezione del mondo alternativa, incatena queste energie ad un orizzonte economico-corporativo, molto lontano dal progetto sociale di affermare un nuovo ordine. L’identità politica che era stata costruita dal partito ne esce limitata. Questa, non è stata tradotta in un’identità teorica che renda conto della maniera innovatrice e radicale dei problemi posti dalla complessa realtà brasiliana e latino-americana. Si limita ad alcune espressioni vaghe e alla riproduzione di un senso teorico comune. Non produce nuove consapevolezze, ma riproduce vecchie verità.

Lo spontaneismo teorico trae la sua forza dall’energia sociale del ciclo di scioperi iniziati nel 1978 e si limita a questo. Ma il classismo pratico che alimenta e rende dinamica la riorganizzazione del movimento politico e sindacale delle classi minori ha vita breve. Non sopporta il peso delle vittorie elettorali del Partido dos Trabalhadores. Il partito, che aveva ottenuto l’elezione di appena due sindaci alla sua prima partecipazione nel 1982, vede eletti nelle elezioni del 2000, 2.485 consiglieri comunali e 187 sindaci, di cui sei in alcune capitali di Stato, inclusa la città di San Paolo, la più grande ed importante del paese. La crescita nelle elezioni nazionali è veramente impressionante: otto deputati federali nel 1982, 16 nel 1986, 35 nel 1990, 49 nel 1994, 58 nel 1998 e 91 nel 2001.

L’ascesa all’interno dell’apparato statale è accompagnata dal rinforzarsi di una burocrazia settaria sempre più lontana dalla base del partito. Già a metà degli anni ‘80, il nucleo che doveva organizzare i militanti della base aveva dato chiari segni d’atrofizzazione. All’inizio degli anni ‘80 questi non esistono praticamente più, sono stati sostituiti da comitati elettorali di candidati che generano così la personalizzazione della politica brasiliana, dettata dal voto nominale e non dei partiti.

Questa trasformazione del partito è chiaramente illustrata dalla crescente presenza di funzionari politici e dalla consistente diminuzione del numero di sindacalisti nelle riunioni del PT. Nell’11° Encontro Nacional avvenuto nel 1997, il 60% dei delegati sono politici di professione tra cui il 18% sono parlamentari, il 13% assessori, il 9% militanti salariati dei movimenti sociali, l’8% occupa incarichi di fiducia nei governi degli Stati e dei municipi, il 6% sono dirigenti salariati del PT, il 2% sono salariati delle correnti interne del partito, l’1% sono funzionari/assessori di quel partito, l’1% sono prefetti o governatori, e soltanto il 13% non sono politici di professione (Garcia, 2001, p. 99).

Il grande spazio occupato da questo corpo di funzionari politici e statali all’interno dell’apparato partitocratico, paga il suo prezzo. A poco a poco, il classismo pratico diluisce il suo riferimento sociale e moderato e la sua dimensione pragmatica. [2] L’orizzonte economico-corporativo modifica il suo contenuto sociale. La logica della differenza che aveva orientato i primi anni della tormentata vita del partito, cede gradualmente il passo alla logica dello Stato, supportata dal gran numero di parlamentari, prefetti, e governatori con il loro seguito d’assessori. Questa logica si basa sulla concezione di uno Stato ambivalente, volutamente estraneo alla determinazione di classe, portatore di un’elevata capacità d’adattamento ai nuovi contenuti incorporati nei suoi dirigenti. [3]

Senza incontrare barriere ideologiche e teoriche, il crudo pragmatismo della realpolitik inonda l’esistenza del partito, ispirando le risoluzioni degli incontri nei congressi e in particolare della pratica politica dei suoi dirigenti. Ma l’adesione alla logica di Stato non è tuttavia un processo semplice e meccanico. Grandi conflitti si svolgono all’interno del partito, determinando l’espulsione di almeno un’importante corrente, quella che, attraverso il giornale Versus, aveva proposto la creazione del PT, l’istituzionalizzazione dei meccanismi statuari che riducono l’espressione pubblica delle divergenze, e la censura alle correnti della cosiddetta sinistra petista. Ma nel giro di pochi anni la logica statale torna ampiamente preponderante.

Quando nel 1991 il Partido dos Trabalhadores annuncia l’inizio di una discussione strategica, al suo 1° Congresso, questa non può più essere la traslazione del classismo pratico. La sconfitta di Lula alle elezioni del 1989, l’insuccesso degli scioperi degli impiegati pubblici nel 1990, e i primi tentativi dell’implementazione del modello neoliberale, dissipa le energie dei movimenti sociali e prepara la strada al consolidamento, all’interno del partito, di una logica statale della gestione della politica.

Fin dall’inizio, nei dibattiti preparatori al 1° Congresso, il consolidamento di questa logica si afferma con una forza ed una chiarezza non usuale per la tradizione petista. Il segretario delle Relações Internacionais del PT, Marco Aurélio Garcia, rileva la sua importanza in maniera cristallina: “La democrazia non può essere solo un mezzo per raggiungere la democrazia sociale o una posizione migliore per lottare per questa. La democrazia è fine a se stessa. È un valore strategico e permanente. Se questa tesi è social-democratica, pazienza! saremo socialdemocratici.” (Garcia, 1990)

La risoluzione finale del Congresso, intitolata Socialismo, non è segnata da un numero d’emendamenti scaturiti dalle tendenze della sinistra, ma non per questo perde il suo carattere fondamentale: una democrazia sansa phrase definita come valore universale. Il socialismo è concepito come una combinazione tra “la pianificazione statale e un mercato orientato socialmente”, e finalmente il potere taumaturgico smette d’essere prerogativa delle “basi” e passa ad uno “Stato [che] esercita un’azione regolatrice sull’economia, attraverso le sue stesse imprese, attraverso meccanismi di controllo del sistema finanziario, della politica tributaria, dei prezzi, del credito, e attraverso una legislazione antimonopolistica e di protezione dei consumatori, dei salariati e dei piccoli proprietari” (PT, 1998, p. 502).

Questo tema è ripreso recentemente in occasione di una serie di dibattiti sul socialismo, realizzati dal Partido dos Trabalhadores. In un intervento che riassume grosso modo la visione maggioritaria del partito, l’economista Paul Singer sviluppa la proposta di un socialismo di mercato:

“La funzione del mercato socialista è quella di rendere possibile la libertà d’iniziativa di persone o di gruppi di persone, con idee nuove o con nuovi progetti. Questi dovrebbero essere incoraggiati ad offrire i loro prodotti senza imbarazzo e senza dover ottenere il permesso da nessun’istanza pianificatrice. (...) La competizione in questo caso dovrebbe durare fino a quando i consumatori abbiano deciso se adottare prodotti nuovi o rimanere con quelli vecchi” (Singer et alli, 2000, p. 47).

Nella sua proposta, Singer non chiarisce perché la competizione dovrebbe fermarsi, né perché questa non generi relazioni di sfruttamento. Analizzando il ragionamento di Singer, Lula, intervenuto nel dibattito, scopre una contraddizione:

“L’essere umano è particolarmente competitivo. Nella dimensione in cui si blocchi la capacità competitiva dell’essere umano e si consenta a tutti di ottenere la stessa cosa all’interno di una fabbrica, si riducono le possibilità di successo della fabbrica stessa. Le persone così sono spinte verso il basso e non verso l’alto. Il socialismo non potrà risolvere questo problema” (Idem, p. 72).

Evidentemente non esiste un programma possibile in assenza di un soggetto in grado di realizzarlo. Per questa ragione, nel cuore del progetto petista, accanto al mercato, incontriamo lo Stato. La soluzione al problema, presentata da Lula, riprende così il tema del protagonismo statale:

“Il mercato funziona soltanto con uno Stato molto forte che lo regoli e lo obblighi a seguire alcune regole sociali. Il mercato lasciato a se stesso non è la soluzione. Rendere compatibili il mercato con uno Stato regolatore, capace di garantire i bisogni delle persone, sarebbe l’ideale. Come arrivare a questo è compito del PT” (Idem, p. 73).

Questi argomenti, così come la soluzione presentata, non mancano di ricordare Proudhon. La competizione, e pertanto il mercato, è rappresentata come il meccanismo capace di proporzionare l’eguaglianza e il coinvolgimento sociale. Tuttavia, ha nel lato negativo della concorrenza, il suo risultato più probabile quello, ossia, di rivoltarsi contro coloro che ne sono parte. La soluzione di Proudhon è analoga a quella petista. Direbbe il filosofo Francese: “Qui non centra la questione di distruggere la concorrenza, cosa tanto impossibile quanto distruggere la libertà; qui si tratta di trovare un equilibrio - io direi di buon grado: la polizia” (citazione da Marx, 1982, p. 136).

Un mercato naturale e una caratteristica umana (la competizione) inamovibile corrispondono alla situazione sulla quale dovrebbe essere costruito il socialismo. Questa non sarebbe altro che l’esorcizzazione del male del mercato attraverso lo Stato, salvando ciò che avrebbe di potenzialmente positivo, ossia la possibilità di consentire scelte basate su opinioni. Il mercato è il luogo della libertà. Lo Stato poliziesco-proudhoniano è il suo guardiano.

Definito in tal maniera, il socialismo petista si trasforma in una base solida per un programma di governo capitalista, che abbia per obiettivo quello di superare la crisi del modello neoliberale. Non si tratta di costruire il futuro, ma di gestire il presente eliminando ciò che è cattivo o indesiderabile. Un governo del PT renderebbe possibile quest’esorcizzazione del male e valorizzerebbe ciò che il mercato comporta di buono, rendendolo più umano. Guido Mantega, il nuovo ministro della Pianificazione e uno dei principali sostenitori di Lula durante la campagna elettorale, riassume così quest’obiettivo quando gli viene chiesto cosa ci si può aspettare dal governo Lula:

“Io affermerei che il PT è un partito della sinistra moderna, simile al Partito Socialista francese, al Partito Laburista inglese e alla sinistra italiana. Io lo collocherei in questo ruolo di partiti che rivendicano e desiderano ardentemente una società capitalista - poiché il socialismo oggi è qualcosa totalmente indefinito e non esiste più. Noi cerchiamo un capitalismo più efficiente ma più umano.” (Mantega, 2002.)

Così come in Proudhon, la dialettica è qui mutilata. La contraddizione immanente si manifesta, trasformandosi in qualcosa che può essere eliminato attraverso la gestione statale. In questa maniera la dialettica è ridotta ad un gioco d’opposti, buono/cattivo, soggetti ad essere soppressi attraverso l’eliminazione di uno dei suoi poli. Ma, l’eliminazione (al contrario del superamento dialettico) dal gioco, attraverso la cancellazione politica dell’aspetto cattivo, permetterebbe di ricreare la realtà su una nuova base. Il risultato di quest’operazione è una costante riproduzione di ciò che già esiste, attraverso un processo di perfezionamento e armonizzazione del reale.

Ricorderemo ciò che Gramsci disse riguardo alla “dialettica” proudhoniana:

“Si ha nel Proudhon una stessa mutilazione dell’hegelismo e della dialettica che nei moderati italiani e pertanto la critica a questa concezione politico-storiografica è la stessa, sempre viva e attuale, contenuta nella Misura della filosofia. L’errore filosofico (d’origine pratica!) di tale concezione consiste in ciò che nel processo dialettico si presuppone “meccanicamente” che la tesi debba essere “conservata” dall’antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene “preveduto” come una ripetizione all’infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata.” (Gramsci, 1977, p. 1220-1221)

Se utilizziamo come metodo una dialettica mutilata, come programma politico otteniamo una rivoluzione passiva. Questo, e nient’altro, è il contenuto del programma petista: l’attualizzazione graduale della struttura economica del capitalismo attraverso fasi successive volute dallo Stato, evitando in questo processo l’intervento attivo delle classi minori. Quindi, attualizzazione e non superamento del capitalismo, come spiega chiaramente il ministro Mantega nella sua dichiarazione. Questa strategia riproduce, con un nuovo ordine politico, la storia dello stesso sviluppo capitalista brasiliano, segnato da trasformazioni passive permanenti concluse da uno Stato guida. Lontano dall’aver realizzato la speranza del Brasile come “paese del futuro”, tali processi non farebbero altro che ricreare il passato attraverso la gestione del presente.

3. Il social-liberalismo come programma

La prospettiva della rivoluzione passiva sopra accennata è ciò che orienta il Programe de Governo 2002 Coligação Lula Presidente (PT, 2002). Nonostante qualche riferimento al socialismo (la parola non compare nelle 88 pagine del documento), il programma petista, per uscire dalla crisi del neoliberalismo, si basa principalmente sulla proposta più ampia d’implementazione del “nuovo contratto sociale”, tutelato da uno Stato proudhoniano di tipo social-liberale. Spoglio di qualunque governo, lo Stato social-liberale assumerebbe, attraverso il nuovo contratto sociale, il ruolo di mediatore tra le rigide leggi del mercato e i fabbisogni della società, e tra gli interessi delle classi più alte e di quelle minori:

“Il nuovo modello non potrà essere il prodotto di decisioni unilaterali del governo, come già accade oggi, né dovrà essere implementato per decreto in maniera volontaristica. Sarà frutto di un’ampia negoziazione nazionale, che dovrà condurre ad un’autentica alleanza per il paese e ad un nuovo contratto sociale capace di assicurargli una crescita stabile. Le premesse per questo cambiamento saranno naturalmente il rispetto dei contratti e degli obblighi del paese.” (Lula da Silva, 2002)

Moderatrice di conflitti e forza motrice della “speranza”, l’economia, con la diffusione di questa politica amministrativa improntata sull’azione di un governo proteso allo sviluppo, smetterebbe di essere concepita come un’istanza autonoma. Cercando di incorporare pacificamente la classe lavoratrice, lo Stato social-liberale modellerebbe l’universo mercantile feticcio a forza d’iniziative tese a regolare i prezzi, i salari, gli investimenti, i sussidi, eccetera. Così come indicato nel Programma de Governo 2002 “il gran compito di creare un’alternativa economica per affrontare e vincere la sfida storica dell’esclusione sociale, esige la presenza attiva e l’azione regolatrice dello Stato sui mercati, così da evitare comportamenti monopolistici ed oligopolistici predatori” (PT, 2002, p. 8)

Con l’eliminazione delle incoerenze, integrando in seno al suo apparato elementi che provengano dalle classi minori, lo Stato social-liberale sarebbe in grado di costruire una corrispondenza tra obiettivi economici e politici, in modo da garantire la circolarità della politica amministrativa, la quale, a sua volta, attraverso aspetti puramente economici, promuova politiche sociali e miri anche, per mezzo dell’espansione del mercato interno, al perfezionamento della stessa economia. L’autorità dello Stato si troverebbe immersa nell’economia per la gestione della domanda globale, nel momento in cui le coercizioni del mercato sarebbero conservate all’interno dello Stato social-liberale:

“Lo Stato non può limitare la sua azione all’amministrazione di breve termine e alle questioni d’emergenza, ma deve improntarsi ad una visione strategica di lungo termine, articolando gli interessi e coordinando gli investimenti pubblici e privati affinché imbocchino la strada di una crescita sostenuta. Questo comporta la reintroduzione di una pianificazione economica che assicuri un orizzonte più lungo agli investimenti” (Idem, p. 42)

Attraverso la pianificazione economica, la cosmologia petista cerca di combattere gli “irrazionalismi estemporanei” di una storia lacerata dagli scontri sociali. “_ possibile prevedere soltanto la lotta”, direbbe Gramsci. Basta. “_ possibile prevedere soltanto il consenso” conclude il programma del PT. Sotto il primato della “crescita stabile” non si tratta più d’imporre con forza, da qui in avanti, un mondo migliore, ma si cerca anzi di facilitare quelle fasi di transizioni che ci permettano progressivamente di approssimarvisi. Questa rappresentazione della storia non si dissocia dal feticismo dello Stato. _ esattamente un “attore principale” con il quale condurre tale strategia, obbligare i compagni ad accettare “obiettivi sensati”, aver cura del “rispetto per i contratti”, promuovere la trasformazione dei suoi dirigenti, e garantire infine il nuovo contratto sociale.

Il governo petista cercherà di costituirsi come alternativa per eccellenza, sia tra coloro che difendono la passività della classe lavoratrice di fronte allo sfruttamento (il blocco di potere articolato dal governo di Fernando Henrique Cardoso), sia tra i sostenitori della lotta di classe (l’MST e le correnti politiche integrate petiste e non petiste della sinistra). Uniti nel rifiutare la negoziazione, neoliberali e “esquerdistas” si troverebbero prigionieri di un’intesa limitata, sacrificata dalle ampie possibilità di crescita stabile del compromesso sociale, nel crepuscolo di un periodo storico segnato dalla crisi contemporanea.

Nel pieno della crisi del progetto sociale neoliberale, gli accordi originari sulla istituzionalizzazione del contenuto delle lotte sociali garantirebbero spazio per una nuova focalizzazione del problema della “esclusione sociale”. I conflitti non sarebbero più risolti attraverso la “gestione monetaria” degli accoliti del mercato, né la società sarebbe sovvertita dalla sindacalizzazione delle lotte. Si tratterà di negoziare un nuovo contratto sociale in grado di superare l’emarginazione sociale, evitando, in questo modo l’estremismo dei “sostenitori” della violenza classista:

“Soltanto un nuovo contratto sociale che favorisca la nascita di una cultura politica di difesa delle libertà civili, dei diritti umani e della costruzione di un paese più giusto economicamente e socialmente, permetterà di approfondire la democratizzazione della società, combattendo l’autoritarismo, la disuguaglianza e il clientelismo” (Idem, p. 8)

La vecchia problematica riformista sul rispetto dell’integrazione delle classi nel “destino comune” del progetto di sviluppo nazionale, emerge con forza dal discorso del PT. La sua interpretazione del ruolo di Stato social-liberale, che si ponga come terza parte tra gruppi con interessi contrastanti, esprimerebbe il modo di agire specifico di un modello statale che gestisca sia il conflitto che la riappacificazione. In altre parole, la politica del governo Lula sarà segnata dalla mobilitazione, ma con fiscale contesa, di una parte dei beni della nazione, nel tentativo di assicurare il loro controllo e la loro coesione interna:

“Il rafforzamento dell’economia nazionale è il secondo asse di sviluppo proposto. Al di là di un ruolo più attivo nel conseguimento degli obiettivi relativi alla ridistribuzione dei redditi, all’appoggio alle cooperative di credito e di lavoro e alle piccole e medie imprese, lo Stato dovrà impegnarsi in un ruolo strategico per la costruzione d’infrastrutture, e per il finanziamento alla ricerca scientifica e tecnologica, che è di fondamentale importanza per aumentare l’efficienza di un qualsiasi sistema economico. Lo Stato inoltre ha una responsabilità essenziale nell’articolazione di politiche che aumentino le capacità competitive e le esportazioni del Paese” (Idem, p. 42).

Il nuovo contratto sociale, voluto da Lula, tende a radicalizzare l’apparente esteriorità gestionale di uno Stato legittimato dal rinnovamento di un preciso concetto di sviluppo (detto “neodesenvolvimentista”)
 che sia in grado di condurre l’investimento produttivo, in maniera possibilmente accessibile “a tutti”, nella direzione della crescita economica e del progresso materiale. Non si tratta di una grande novità. Bisogna ricordare che, durante la campagna, tutti i quattro candidati con reale possibilità di vittoria, incluso il candidato del governo Josè Serra, si sono dichiarati sostenitori di un cambiamento nell’orientamento della politica economica verso una ripresa dello sviluppo.

Non è difficile comprendere che l’ideologia “neodesenvolvimentista”, alimentata dal contratto sociale petista, ha contributo alla politica di gestione della crisi con una “autonomia” delle classi, da tempo criticata dallo stesso PT. Lo Stato social-liberale pianifica il futuro sfruttando i conflitti attuali, ma non si preoccupa di prestare attenzione alle esigenze di mercato, attraverso la reiterazione di un’ortodossia monetarista: “Il nostro governo creerà una situazione di stabilità, con inflazione sotto controllo e solidi fondamenti macroeconomici, affinché il risparmio nazionale aumenti e sia orientato e stimolato, attraverso la tassa sugli interessi, da investimenti produttivi e dalla crescita. Soltanto in questo scenario la politica per traguardi dell’inflazione può funzionare.

Infine:

“La responsabilità fiscale e la stabilità dei conti pubblici segneranno le politiche del nostro governo. Uno scenario con solidi fondamenti macroeconomici e con un’inflazione sotto controllo, contribuirà alla discesa graduale della tassazione sugli interessi e alla riconversione delle risorse del paese, per investimenti più produttivi e per la crescita economica” (Idem, p. 48).

L’importanza durante quasi tutta la campagna elettorale, di un certo atteggiamento “desenvolvimentista” nei concetti tradizionali neoliberali è chiaro. Tuttavia, com’è ben evidenziato nel programma del governo “petista”, quest’assertività rimane valida solamente nella condizione in cui sia vincolata all’idea di un nuovo contratto sociale, che indichi un’alternativa “progressista” alla crisi del neoliberalismo latino-americano e brasiliano. Alternativa, questa, che collochi in primo piano il dibattito relativo alla ripresa degli investimenti pubblici, alla gestione democratica degli apparati dell’egemonia dello Stato e agli interventi regolatori nell’ambito dei meccanismi del mercato. Un contratto che riorganizzi gli interventi e le iniziative dello Stato brasiliano in modo da ottenere maggiore efficienza ed equità nella crescita economica:

“L’implementazione di un modello di sviluppo alternativo, che abbia il sociale come asse portante, potrà portare al successo soltanto se accompagnato dalla democratizzazione dello Stato e delle relazioni sociali, dalla diminuzione della dipendenza dall’esterno, e quindi da un nuovo equilibrio nell’Unione a livello di stati ed amministrazioni locali” (Idem, p. 8).

Il raziocinio programmatico non smette di essere così inquadrato: nello stesso momento in cui lo Stato neoliberale sembra irrimediabilmente malato, l’alternativa deve essere trovata... all’interno dello Stato! Lo Stato social-liberale proposto dal “petismo”, in grado di decentrare le sue “pratiche democratiche” e garantire una soluzione progressista alla crisi, permetterebbe di prefigurare la strada della transizione dalla crisi neoliberale al rinnovamento del progetto “desenvolvimentista distributivista”:

“Il nuovo governo avrà al centro delle sue attenzioni la costruzione e l’implementazione di strategie tese a migliorare la ridistribuzione dei redditi e a rinforzare la conservazione delle diversità locali, della pluralità e della singolarità delle nostre differenze culturali” (Idem, p. 68).

Questo terreno privilegiato si troverebbe sedimentato, sempre più profondamente, dalla diffusione dei valori della democrazia. Nell’evoluzione di questo modo di ragionare, si svolge il dibattito sull’alternativa pragmatica petista.

4. Tra borsa e politica della compensazione

Come già evidenziato, la proposta del nuovo contratto sociale petista segue fondamentalmente la direzione della modernizzazione dei compromessi istituzionali, in modo da conciliare le esigenze del mercato e quelle sociali. In questi termini, il programma di governo di Lula ricopre un ruolo essenziale nella proposta di rinnovamento e di rafforzamento del mercato azionario brasiliano attraverso l’utilizzo dei fondi salariali e dei fondi pensionistici:

“Fondi pensione devono essere costituiti come meccanismo di crescente importanza per lo smobilizzo del risparmio dei salariati. Questo darebbe anche l’opportunità di far confluire risorse addizionali alle istituzioni speciali del credito, in maniera da rinforzare i fondi presi in prestito”. (Idem, p. 43-44).

Fare in modo che il mercato azionario brasiliano si trasformi in un efficace strumento di stimolo per investimenti produttivi mostra, in gran misura, l’intenzione centrale del programma di Lula, di un coinvolgimento, stimolato dai lavoratori brasiliani, nel sentimento di “rafforzamento futuro del mercato interno”. La proposta petista sul finanziamento delle garanzie salariali propone l’utilizzo di fondi pensione - in particolare, ma non solo, d’accantonamenti provenienti dai fondi salariali (ad esempio il Fundo de Garantia por Tempo de Serviço brasiliano) - in investimenti azionari con presumibile partecipazione dei lavoratori nella gestione di beni realmente smobilizzati o potenzialmente utilizzabili.

Non si deve inoltre dimenticare che il governo di Fernando Henrique Cardoso è stato pioniere nell’utilizzazione di accantonamenti di fondi salariali per la capitalizzazione di imprese statali come la Petrobrás o di imprese privatizzate come la Companhia Vale do Rio Doce. Più recentemente, è stato autorizzato l’impiego di accantonamenti provenienti dal Fondo de Garantia por Tempo de Serviço per l’acquisto di azioni del Banco do Brasil. Quindi il rafforzamento del mercato dei capitali brasiliano attraverso l’utilizzazione degli accantonamenti dei fondi salariali o dei fondi pensione si ricollega ad una politica già iniziata dal governo precedente, e in termini concettuali non rappresenta una grande novità.

La novità politica, tuttavia, consiste nell’aver fatta propria di un partito della sinistra, la proposta di finanziamento dei fondi salariali attraverso un programma di governo, con l’oggettiva intenzione di avviare la controriforma previdenziale. In verità, la stessa tesi sul nuovo contratto sociale, secondo la quale la collaborazione tra classi garantirebbe una prosperità comune, incontra, nella proposta petista, una mediazione sufficientemente emblematica su quale terreno potrebbe possibilmente consolidare entrambi gli interessi del mercato e quelli dei lavoratori: il terreno dello “sviluppo nazionale”, Da un lato, il mercato dei capitali avrebbe accesso a fondi dell’ordine di 27.5 miliardi di Real (circa 7,4 miliardi di Euro) e dall’altro i lavoratori potrebbero prevedere, sempre per ipotesi, un miglior pensionamento.

In accordo con il Programma de Governo da Coligação Lula Presidente:

“ Quanto al terzo pilastro del sistema previdenziale attuale, la previdenza complementare, che può essere esercitata attraverso due fondi pensione, patrocinati dalle imprese o istituiti dai sindacati (in conformità alla Lei Complementar 109), e rivolta a quei lavoratori che vogliono rendimenti addizionali oltre quelli garantiti dal regime base, deve essere intesa anche come un poderoso strumento di rafforzamento futuro del mercato interno e come una fonte di risparmio a lungo termine per lo sviluppo del paese. È una forma necessaria di crescita e di rafforzamento per quest’istituzione attraverso meccanismi d’incentivazione” (Idem, p. 27).

Non c’è dubbio che il messaggio petista è sufficientemente chiaro: sarà possibile umanizzare il capitale solamente con astuzia e rassegnazione, e infine la pianificazione concorrerà in favore del progresso. Senza fretta o avvenimenti spettacolari, la politica riesce a trasformarsi in una tecnica di negoziazione. Il finanziamento di garanzie salariali, sulla base della gestione dei fondi pensione, sintetizza l’iniziativa petista di tentare di articolare gli interessi dei risparmiatori e dei lavoratori. I sindacati brasiliani, per esempio, incontrerebbero nei fondi salariali o nei fondi pensione una mediazione decisiva capace d’influenzare le norme del pensionamento. Di fronte ad un appello così chiaro alla collaborazione tra classi, è sempre utile ricordare le parole di François Chesnais sulla versione francese di questa proposta:

“L’acquistare credito dei nostri governanti e dei loro assessori, sarebbe, nel frattempo, quell’investimento in azioni, che porterebbe ora alla soluzione miracolosa del “problema dei pensionamenti”, mentre la borsa sarebbe il luogo nel quale si produrrebbe in maniera indolore la magia della “moltiplicazione dei pani” nella sua versione contemporanea. Pura menzogna che nessun sindacalista può appoggiare o trasmettere senza demoralizzarsi completamente. Prima di essere ripartito sotto forma di dividendi, il valore, o la ricchezza, deve essere prodotta. Per chi? Per i salariati nazionali o per gli stranieri che lavorano nelle imprese che faranno tutto per abbassare i salari e imporre la massima flessibilità nel lavoro. È così che le borse si trasformeranno nel cavallo di Troia di tutte le forze che chiedono la distruzione del sistema pensionistico ripartito e realizzare, con pochi salariati privilegiati, il vecchio sogno capitalista della collaborazione capitale-lavoro, o infine una nuova formula di partecipazione dei salariati nella gestione capitalista delle imprese maggiori” (1999, p. 15).

Per democratizzare lo Stato e assicurare la crescita stabile, il programma del governo Lula diffonde apertamente il vecchio sogno capitalista della collaborazione tra classe lavoratrice e borghese. Qui risiede il grande obiettivo della realizzazione di un nuovo contratto sociale negoziato tra imprese e sindacati, intorno alle proposte del nuovo modello di sviluppo con crescita, al finanziamento di fondi salariali, alla riabilitazione della competitività nazionale o di qualsiasi altra mistificazione.

Inoltre, il nuovo contratto sociale si deve mostrare in grado di mantenere il lavoro come valore principale per l’integrazione sociale. Pertanto, la principale battaglia del nuovo modello di sviluppo sarà intavolata nell’ambito della lotta contro l’esclusione. Bisognerà chiarire e diffondere i principi ugualitari nella ripartizione dei redditi, in modo che la ridistribuzione del valore aggiunto non sia più così sfavorevole alle classi minori. Lo Stato social-liberale, in questi termini, deve assumere, “il ruolo di induttore dei progetti in grado di stimolare lo sviluppo di politiche d’integrazione e la protezione dei segmenti sociali più fragili”, in conformità a quanto detto da Antonio Palocci, ex sindaco della città paulista di Ribeirão Preto, coordinatore del gruppo di transizione del nuovo governo e attuale ministro delle Finanze del governo Lula. (cfr. Palocci, 2002)

In sostanza, tutto l’aspetto radicale del programma di Lula deve essere considerato in base alla sua capacità di distribuire ricchezza ai “segmenti sociali più fragili”. Si tratta di creare mezzi economici adatti a sostenere i diritti incondizionati del cittadino, evitando che gli aspetti negativi prevalgano su quelli positivi. In base al progetto d’inclusione petista, spiccano le politiche sociali di compensazione come il programma Fame Zero, presentato dal gruppo di transizione petista tra i principali interventi della politica pubblica, nel primo anno del nuovo governo. Si tratta, per il PT, di un’iniziativa affinata con i nuovi tempi, poiché in grado di combinare le esigenze del mercato e quelle sociali, nel tentativo di correggere le brutali disuguaglianze verificatesi nella formazione della società brasiliana, come nel caso del flagello della fame che colpisce all’incirca 10 milioni di famiglie. Nelle parole di Frei Betto, attuale coordinatore della mobilitazione sociale per il progetto Fame Zero: “Il progetto Fame Zero, voluto dal governo Lula, si prefigge lo scopo di ridurre significativamente le discriminazioni sociali che fanno del Brasile uno dei tre paesi più ingiusti del mondo” (Betto, 2002).

Dopo l’annuncio fatto da Lula, il primo dalla sua elezione a presidente, in cui si evidenzia la lotta alla fame come priorità del suo governo, il programma Fame Zero, uno dei molti programmi presentati durante tutta la campagna presidenziale, assume un ruolo di risalto. Ottiene l’attenzione di tutte le maggiori testate giornalistiche e un’ampia copertura da parte di tutti i mezzi di comunicazione di massa. Il dibattito sul problema della fame in Brasile si riaccende. Rapidamente ottiene un grande consenso nazionale ed internazionale. Nonostante alcune critiche, arrivano consensi in abbondanza dai più disparati settori della società brasiliana e dalle strutture del potere transnazionale.

In una recente visita allo Stato brasiliano del Pará, per esempio, James Wolfensohn, presidente della Banca Mondiale, ha dichiarato di essere entusiasta dello sforzo del governo, recentemente eletto, nel combattere la fame in Brasile. Ha elogiato Fame Zero e confermato l’intenzione di “sostenere e comprendere” il governo Lula: “Noi [della Banca Mondiale]” è arrivato a dire Wolfenshon “intendiamo interpretare un ruolo migliore per il paese, se il governo lo desidera. Il progetto [Fame Zero] è di estrema urgenza, possibile e pratico da applicare” (Folha de S. Paulo, 27 Novembre 2002). Evidentemente, l’approvazione del presidente di uno dei principali strumenti dell’imperialismo capitalista mondiale rappresenta molto in termini di risorse e credibilità internazionale. Importante contributo al consolidamento del consenso intorno al programma petista.

Nonostante l’obbiettivo del programma sia quello di affrontare effettivamente la drammaticità della situazione delle classi minori brasiliane, un’analisi un po’ più dettagliata della sua struttura e delle sue modalità di funzionamento, ne evidenzierebbero decisamente i problemi. In primo luogo, tenendo conto delle limitazioni preventive riconosciute ed accettate dal nuovo governo, le modalità di finanziamento di Fame Zero corrisponderebbero, senza molte alterazioni, alla logica neoliberale della “razionalizzazione” dei beni per garantire la normalità fiscale. Fondamentalmente, il denaro dovrebbe arrivare da fonti già esistenti ed essere utilizzato attraverso le antiche politiche sociali di compensazione implementate dal vecchio governo.

Se andassimo a considerare gli ultimi dibattiti sull’adeguamento del salario minimo brasiliano al costo della vita, sulle negoziazioni per la riforma della previdenza e sulla riforma fiscale, non ci sarebbero dubbi sulla mancanza delle risorse per progetto proposto dal PT. In questo senso, Fame Zero non va molto oltre le politiche sociali di compensazione, già esistenti o già concordate e quindi ampiamente insufficienti a risolvere il problema brasiliano della fame. Quindi, oltre al discorso sul rispetto “morale” dell’utilizzo del denaro pubblico, lo sfruttamento delle risorse non va molto oltre ciò che già esiste o si trova a disposizione del governo. Il mutamento avverrebbe tramite un’alterazione della “focalizzazione” delle politiche di compensazione. La lotta al flagello della fame si trasforma in “priorità”, per la politica sociale petista e molteplici programmi si focalizzano su di essa.

In verità difronte alla crisi politica e alla certezza di un inizio di mandato incentrato sulla gestione di questa crisi economica, Fame Zero interpreta un ruolo essenziale: garantisce, davanti alle classi minori brasiliane, una “cortina di fumo” al primo anno di governo Lula. L’adeguamento salariale al costo della vita degli impiegati pubblici federali (da otto anni senza adeguamenti), l’aumento del minimo salariale, il debito pubblico statale, la crisi del debito estero, l’aumento dell’occupazione, il calo degli investimenti esteri, la possibilità di nuove guerre, la recessione, il ritorno dell’inflazione, eccetera. Lo scenario della crisi risulta in pratica tutta una montatura e, ad esempio, la “speranza”, chiaramente manifestata dai lavoratori brasiliani per il cambiamento d’orientamento della politica economica recessiva, non tarda ad esaurirsi di fronte al consenso petista alle “regole” imposte dall’accordo con il FMI. Ora, se la crisi arriverà con la forza attesa e appariranno fatalmente esazioni, si potrà sempre affermare che il governo Lula è principalmente occupato a combattere la fame.

In questo senso, Fame Zero differisce dalla politica di compensazione del governo di Fernando Henrique Cardoso: il richiamo alla logica di mercato e a quella politica è molto più efficiente. Il programma è in grado di far in modo che la logica neoliberale dell’amministrazione della crisi sociale ottenga un evidente appello del popolo. Oltre a tentare di incorporare trasformisticamente l’MST, attraverso la riattivazione della piccola agricoltura, la politica dello Stato nella gestione della crisi, deve depoliticizzare parte della sua tattica in un chiaro tentativo di frenare la lotta sul campo. Non è a caso che l’insediamento dei senza terra e l’appoggio ai piccoli agricoltori si trovano tra le priorità sollevate da Fame Zero per il prossimo anno.

Insomma, Fame Zero rappresenta uno strumento sufficientemente ingegnoso di diminuzione dei potenziali conflitti tra PT e classi minori. La delusione popolare per un governo di sinistra, che si rifiuta di vedere che il tutto comporta un risultato minimo in direzione di un piano anteriormente difeso dagli stessi parlamentari petisti, potrà essere realmente ridotta con una propaganda frutto dell’implementazione del programma. Lo sforzo controriformista del governo eletto, sarà ugualmente rafforzato, e alla fine le riforme sul lavoro, quella tributaria e fiscale, ma prima di tutto, la riforma previdenziale - lasciata incompleta dal vecchio governo - avranno una funzione “sociale” sufficientemente visibile.

Quindi la lotta alla fame sarà realizzata sulla base dell’eliminazione dei diritti e delle garanzie sociali - soprattutto nel caso della funzione pubblica - conquistati dalle classi minori brasiliane durante decenni di lotte.

5. Conclusione: per un’”antitesi vigorosa”

Il bandito prezzolato Ribaldo, del maestro Guimarães Rosa, aveva pienamente ragione. Avviare questo progetto di umanizzazione del capitalismo attraverso la rivoluzione passiva alla brasiliana può essere molto più pericoloso di quanto immaginato dalla direzione del Partido dos Trabalhiadores. Il movimento molecolare delle transizioni graduali richiede tempo ed è questo ciò che il nuovo governo sta chiedendo. Ma non otterrà il tempo che richiede. Chi gli ha negato questa opportunità è stato lo stesso Fernando Henrique Cardoso che termina il suo mandato in una situazione economica critica, con il ritorno dell’inflazione, con livelli di indebitamento interno ed estero allarmanti, con lo svuotamento delle riserve di valuta estera, con la distruzione di una parte importante delle capacità produttive nazionali e con circa 1,8 milioni di disoccupati soltanto nella regione del Grande São Paulo.

Come se non bastasse la pressione causata dalla situazione impone una certa urgenza nell’agenda. Nei primi mesi di governo, Lula dovrà prendere alcune decisioni d’importanza cruciale per le sue relazioni con i movimenti sociali, tra le quali partecipare alle negoziazioni sull’Área de Livre Comèrcio das Américas (Alca) e definire il valore del nuovo salario minimo.

Il governo Lula dovrà accettare le negoziazioni sull’Alca? Bisogna ricordare che a settembre del 2002, più di 10 milioni di brasiliani, oltre ad un gran numero di sindacati, hanno partecipato ad un plebiscito non ufficiale organizzato dall’MST, per la Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (CNBB). Adesso, gli organizzatori del movimento hanno insistito affinché il nuovo governo si faccia urgentemente promotore di un plebiscito ufficiale sulla questione.

Già durante la preparazione del plebiscito, il PT si era ritirato dalla commissione organizzatrice. Le divergenze d’opinione tra i sostenitori della candidatura di Lula e gli organizzatori del movimento contro l’Alca erano ricorrenti. Lo sdoppiamento politico degli interventi programmatici petisti implica un evidente appello indirizzato ai lavoratori in direzione di una difesa possibilmente più attiva degli “interessi nazionali” nella competizione, coinvolgendo gruppi corporativi nazionali e blocchi commerciali suddivisi per aree geografiche, come per esempi nell’Alca: “Le negoziazioni nell’Alca non saranno effettuate in un clima di dibattito ideologico, ma saranno messi in conto essenzialmente gli interessi nazionali del Brasile” (PT, 2002, p. 13).

Alcuni mesi fa Lula è arrivato ad affermare che “il PT è un partito pronto ad ottenere il primato alle elezioni nazionali e non può permettersi di scherzare sul plebiscito”, (Folha de S. Paulo, 25 agosto. 2002). Non è stata soltanto una contraddizione nel modo di condurre la lotta, come aveva chiaramente dimostrato l’allora candidato alla vicepresidenza, che aveva inoltre sostenuto che le persone si schieravano contro l’Alca senza sapere cosa significasse e che aveva concluso il suo intervento con l’elogio liberale: “Libero commercio significa, per l’esattezza, la fine delle frontiere economiche. Significa che i paesi vivranno in una economia rigorosamente aperta. È questa una cosa buona per il Brasile? Io penso di si” (Folha de S. Paulo, 26 ottobre, 2002).

Il valore del nuovo salario minimo è l’altro tema delicato. Durante la campagna elettorale, il programma della candidatura annunciava il raddoppio del salario minimo pari attualmente a 200,00 Real (circa 54 Euro). La proposta del programma andava bene secondo quanto determinato dalla stessa Costituzione, che definiva il salario minimo come l’indispensabile per il mantenimento di una famiglia, sopperendo alle spese per l’alimentazione, l’abitazione, l’educazione, la salute, i trasporti, il vestiario, l’igiene, il tempo libero e la previdenza, ed equivalente, secondo il Departamento Intersindical de Estudos Sócio-Econômicos (Dieese), a 1.357,43 Real (circa 364 Euro) nel mese di novembre del 2002. Ma anche questa proposta è in difficoltà. Per raggiungere la meta del 3,75% del PIL concordata con il FMI, il nuovo governo avrà bisogno di ridurre i salari.

José Dirceu, ex presidente del PT, aveva avvertito subito che difficilmente ci sarebbe stato un aumento significativo in questo momento del salario minimo:

“L’impegno del candidato Lula fu di raddoppiare il salario minimo in quattro anni. Quando si discutono proposte che fece il PT, si dimentica che quello scenario economico non esiste più, in una situazione sperata che non esiste più. (...) Discuteremo con la società la situazione che stiamo ereditando, non la situazione di un anno fa” (Folha de S. Paul, 5 novembre 2002).

Sfortunatamente per il PT la contraddizione non può essere eliminata dall’amministrazione dello Stato. Occupati a gestire la situazione attuale, i dirigenti petisti rischiano d’urtare contro le speranze per il futuro suscitate dalla stessa candidatura di Lula. La nomina alla nuova presidenza del Banco Central (BC) di Henrique Meirelles, ex presidente della Câmara Americana de Comércio, dirigente della BankBoston e deputato del Partido da Social-Democracia Brasilera (PSDB), il partito di Fernando Henrique Cardoso, quella dell’industriale Luiz Furlan come ministro dello Sviluppo e quella di Roberto Rodrigues, rappresentante dell’agrobusiness, al Ministero dell’Agricoltura, possono essere indicativi di ciò che accadrà

L’indicazione di Meirelles è stata particolarmente irritante per i movimenti sociali. Il nuovo presidente del Banco Central ha portato all’interno del nuovo governo il punto di vista degli investitori internazionali, come lui stesso esige evidenziare:

“Oggi la tassa sugli interessi in Brasile è, in realtà, decisa a New York o a Londra, e la gente qui in Brasile non conosce il mercato di là. Io ho vissuto gli ultimi sei anni a Boston, seguendo e analizzando i mercati internazionali, effettuando operazioni in Brasile, Argentina, Cile, Messico, Corea, Indonesia e Hong Kong. Ho operato tutto il tempo in questi mercati, La mia visione della gestione della crisi è molto più ampia della maggior parte della gente qui in Brasile. Presso BankBoston Corporation, io ero responsabile della tesoreria. Ero responsabile del tavolo delle operazioni, e non solo di quello dei mercati emergenti, ma anche di quello americano. La posizione che io gestivo là era più grande di quella che io gestisco qui al Banco Central. Alla BankBoston gestivo 80 miliardi di dollari e in Fleet 200 miliardi” (Barros, 2002).

Nella discussione avvenuta al Senato, Meirelles aveva reiterato il suo discorso e aveva affermato che la sua gestione del BC sarebbe stata segnata dalla continuità: “Se stiamo seguendo la politica del signor Armínio Fraga [presidente del BC durante il governo Cardoso]? Si”, e poi per concludere aveva affermato, riferendosi all’amministrazione dell’ex presidente, “è una politica economica che condusse il Brasile verso considerevoli progressi economici” (Folha de S. Paulo, 18 dicembre 2002). L’indicazione di Meirelles aveva generato le prime proteste provenienti dalla sinistra. La senatrice petista Heloísa Helena aveva affermato che non avrebbe sostenuto la candidatura del nuovo presidente del BC al Senato, neanche sotto tortura. Anche dopo le pubbliche minacce del nuovo ministro della Casa Civil, José Dirceu, la senatrice aveva mantenuto la sua posizione e non era comparsa alle votazioni.

L’episodio, che coinvolge l’elezione del nuovo capo del BC e la senatrice Heloísa Melena è indice delle tensioni che esistono nella gestione della condizione presente e le aspettative per il futuro.

Come abbiamo messo in evidenza precedentemente, i risultati elettorali del 2002 sono stati espressione di un profondo desiderio di mutamento delle condizioni sociali e di un nuovo rapporto tra forze sociali. Questo desiderio di mutamento è incompatibile con la continuità delle politiche economiche neoliberali. Un’azione energica e immediata da parte del nuovo governo sulla questione delle negoziazioni nell’Alca e sul dibattito per il salario minimo, che segnalino, da un lato un atteggiamento volto ad affrontare la politica estera nordamericana e dall’altro un’inversione di tendenza nelle priorità della politica economica, avrebbero un impatto profondo e potrebbero agire come catalizzatore per un processo di riattivazione dei movimenti sociali, volto a sostegno di una trasmutazione nei contenuti e nelle forme politiche.

Tale atteggiamento indicherebbe la possibilità di un mutamento nel progetto sociale brasiliano, diventando elemento di rottura con i padroni delle disuguaglianze sociali e della subordinazione esterna, prevalsi fino ad ora. Ma questo atteggiamento implica una strategia di confronto teorico e sociale, un rinnovamento pragmatico militante, che si sostituisce agli appelli per una transizione passiva e graduale, portata all’estremo da una politica antirivoluzionaria passiva in grado di opporre all’ordine attuale del capitale una “antitesi vigorosa” (Gramsci, 1975, p. 1827). La costruzione di questa “antitesi vigorosa” sul campo della politica e della teoria è la disgregazione, più attuale che mai, della sinistra brasiliana.


[1] Vedere per esempio Sader (1995)

[2] Per una critica del pragmatismo politico in Brasile, vedere le indicazioni di Lessa (1994).

[3] Per una critica dello Stato ambivalente, vedere cap. V de Braga (2003).