Sul potere globale e l’egemonia

José Luis Fiori

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“La mera preservazione dell’esistenza sociale esige, nella libera competizione, una espansione costante. Chi non sale cade. E l’espansione significa il dominio sui più vicini e la loro riduzione a stato di dipendenza (...) In termini molto rigorosi, ciò che abbiamo è un meccanismo sociale molto semplice che, una volta posto in movimento, funziona con la regolarità di un orologio.”

Norbert Elias, Processo Civilizzatore, p. 94

1. Egemonie, regimi e governi internazionali

Fu all’inizio degli anni ’70, che Charles Kindelberg e Robert Gilpin formularono la tesi fondamentale che poi si chiamò della “teoria della stabilità egemonica”. Il mondo affrontava le prime manifestazioni della crisi internazionale che seguì la fine del Sistema di Bretton Woods e la sconfitta degli Stati Uniti nel Vietnam, ed i due autori erano preoccupati che si ripetesse la crisi e la grande depressione degli anni 30, per mancanza di una leadership mondiale. Fu allora che Kindelberger affermò che il buon funzionamento di “una economia liberale mondiale, ha bisogno di uno stabilizzatore; un solo paese stabilizzatore”. Un paese che assumesse la responsabilità e provvedesse il sistema mondiale di alcuni “beni pubblici” indispensabili per il loro funzionamento, come è nel caso di una moneta internazionale e del libero commercio, o della coordinazione delle politiche economiche nazionali e della promozione delle politiche anti-cicliche di efficacia globale. La tesi di Kindelberg aveva una natura chiaramente normativa, ma si appoggiava su una lettura teorica e comparativa della storia del sistema capitalista. Come sintetizzò Robert Gilpin: “l’esperienza storica suggerisce che in assenza di una potenza liberale dominante, la cooperazione economica internazionale si mostra estremamente difficile da raggiungere o da mantenere...”

Kindelberg parlò inizialmente di una “leadership” o “supremazia”, ma poi, un numero sempre maggiore di autori passò ad utilizzare il concetto di “egemonia mondiale”. A volte, con la connotazione pura e semplice di un potere al di sopra di tutti gli altri poteri, altre volte, con una connotazione più “gramsciana”, di un potere globale legittimato dalla maggior parte degli altri stati, grazie all’efficacia “convergente” dei loro governi mondiali.

La tesi non era completamente nuova, già era stata formulata quasi letteralmente da Edward Carr, nel 1939, nel suo saggio classico sul “The twenty years crises”. Carr era un realista e stava discutendo il problema della Pace tra stati sovrani - nel momento in cui cominciava la Seconda Guerra Mondiale - ma la sua conclusione era molto simile a quella di Kindelberger e Gilpin: “the condition of international ligislation is the world super-state”(1939: p211). Una traduzione verso il campo internazionale del vecchio e conosciuto argomento hobbesiano: “ prima che si determini il giusto e l’ingiusto ci deve essere della forza coercitiva”. Alcuni anni dopo, Raymond Aron dirà praticamente la stessa cosa, nell’affermare che non potrà esserci pace mondiale “fin quando l’umanità non si sarà unita in uno Stato Universale” (1962: p 47). Aron privilegiava “l’impero della legge”, con la visione cosmopolita e liberale di Kant, ma riconosceva l’importanza della “politica di potere”, come anche Kant che a suo tempo disse, che “l’uomo è un animale che vivendo tra altri della stessa specie, ha la necessità di un signore che lo obblighi ad obbedire ad un volere universalmente valido”. Tutti stavano parlando della preservazione della pace e non del buon funzionamento dell’economia internazionale, come Kindelberger e Gilpin, ma tutti riconoscono, in ultima istanza, la necessità di un potere politico sopranazionale come condizione di un ordine mondiale stabile, sia esso economico o politico.

Durante gli anni ottanta, la “teoria della stabilità egemonica” fu sottomessa ad una critica minuziosa per le sue inconsistenze teoriche e storiche (Mc Keown, 1983; Ragowski, 1983; Stein, 1984; Russet, 1985; Snidal, 1985; Strange, 1987; Walter, 1993). Vari autori sostennero l’idea che l’Inghilterra avesse promosso intenzionalmente, nel secolo XIX, l’adesione della maggior parte dei paesi al modello-oro; e dimostrarono storicamente, che nella maggior parte dei casi il comportamento dei paesi egemonici si orientò verso i propri interessi nazionali, trasformandosi, a volte, in ostacolo più che in condizione di stabilità internazionale.

Suzan Strange, in particolare, mostrò come le crisi che si ebbero sistematicamente durante la storia furono causate da fattori interni alla società e all’economia egemonica molto più che dai comportamenti dei paesi che usufruiscono e contestano il sistema. Sulla stessa linea di Strange, l’inglese Andrew Walter conclude “the hegemonic function of rule provision and maintenance was seen to be of limited descriptive value. The distinction between roles of rule enforcement, the encouragement of policy coordination between states and the management and prudential supervision of the international monetary and financial system enabled us better to understand the different claims have been made for hegemony”. (1993; p. 249)

D’altra parte, anche la storia di questi ultimi decenni del secolo XX, ha contraddetto la “teoria della stabilità egemonica”. In questi ultimi trent’anni, in particolare dalla seconda metà degli anni 80, il mondo è stato sotto la “leadership” incontestabile di una sola potenza orientata da un forte commitment liberal. Come proponeva Kindelberger, durante questo periodo, gli Stati Uniti arbitrarono isolatamente il sistema monetario internazionale, hanno promosso attivamente l’apertura e la deregolamentazione delle economie nazionali e il libero commercio, hanno incentivato la convergenza delle politiche macro-economiche, e si sono comportati, per lo meno in parte, come last resort lender in tutte le crisi finanziarie che hanno sconvolto il mondo dei commerci, mantenendo, allo stesso tempo, un potere incontrastato sul piano industriale, tecnologico, militare, finanziario e culturale.

Nonostante tutto ciò, il mondo ha vissuto in questo periodo, una congiuntura di grande instabilità sistematica, nel campo finanziario come sul terreno delle relazioni politico-militari.

A dispetto delle critiche teoriche e le inconsistenze storiche, la preoccupazione iniziale di Kindelberger e Gilpin si trasformò nel denominatore comune di una estesa letteratura, soprattutto negli Stati Uniti, sulla “crisi dell’egemonia nord-americana”. E la sua tesi universale rispetto alla necessità mondiale di “paesi stabilizzatori” o “egemonici” si trasformò, durante un lungo dibattito accademico sul concetto e le funzioni delle “egemonie mondiali”, che si prolungò tempo dopo, nella discussione su quello che si passò a chiamare del “governo globale”. Da un lato, si allinearono, dall’inizio, i “realisti” o “neo-realisti” di vari tipi, approfondendo la discussione sull’origine e il potere degli stati egemonici e sulle forme della loro “gestione globale”, basata sulla capacità materiale e sul controllo delle materie prime strategiche, dei capitali d’investimento, delle tecnologie di punta, delle armi e dell’informazione. Kindelberger e Gilpin appartenevano a questo gruppo inaugurato da Robert Carr. Ma tra loro c’erano anche gli “strutturalisti”, come Suzan Strange, che criticavano la teoria della stabilità egemonica, ma riconoscevano l’esistenza di “poteri strutturali globali”, controllati da successive potenze dominanti, e capaci di indurre comportamenti collettivi, senza necessità dell’uso della forza. Allo stesso modo un gruppo di autori marxisti o neo-marxisti, come Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi, che partivano dal concetto del “Modern World System”, per concludere che la competizione tra gli stati nazionali europei non degenerò in caos politici e economici, solo grazie al comando, durante gli ultimi 500 anni, di tre grandi potenze egemoniche che furono capaci di organizzare o “governare” il funzionamento gerarchico del sistema mondiale creato in Europa, durante il secolo XVI. Una specie di “cicli egemonici” comandati successivamente, dalle Province Unite, nel secolo XVII; dalla Gran Bretagna, nel secolo XIX, e dagli Stati Uniti, nel secolo XX. Più recentemente, Antonio Negri e Michael Hardt hanno introdotto nel campo marxista la tesi secondo la quale il mondo già sarebbe governato da una nuova forma di “impero” post-nazionale, una specie originale di “super-struttura politica” corrispondente ad una economia mondiale che già sarebbe stata globalizzata dall’azione denazionalizzante del “Capitale”.

In una posizione opposta a quella dei realisti, si collocarono, fin dall’inizio del dibattito, i “liberali”o “pluralisti” come Joseph Nye e Robert Keohane, veri creatori dell’idea del “governo globale”. Erano convinti, come Negri e Hardt, molto più tardi, della perdita d’importanza degli stati nazionali e della possibilità della creazione di un nuovo ordine politico ed economico mondiale, stabilizzato e gestito con base nei “regimi sopranazionali” legittimi, capaci di funzionare con efficacia anche nell’assenza di potenze egemoniche. Veri “networks of rules, norms and procedures that regularize behaviour and control effects... that once established will be difficult either to eradicate or dramatically to rearrange” (1977; p. 19 e 55). Ma gli stessi Keohane e Nye riconoscevano l’esistenza di situazioni “where there are no agreed norms and procedures or when the exceptions to the rules are more important than the instances of adherence” (1977, p. 20).

In questi casi, la gerarchia e il potere degli stati continuerebbero ad essere decisivi per la definizione dei regimi e delle soluzioni imposte alla comunità internazionale. Una determinazione necessaria ma che riapre il problema della coordinazione o governo di un sistema che continua ad essere interstatale. Raymond Aron cercò di risolvere questa difficoltà proponendo una distinzione tra due tipi di sub-sistemi internazionali che coesisterebbero lato a lato. Uno più “omogeneo” e l’altro più “eterogeneo”, a seconda dal grado col quale gli stati coinvolti condividano o meno le stesse concezioni e valori internazionali. Ma Raymond Aron non riesce a spiegare perché le grandi divergenze e le guerre si ebbero sempre nei sistemi “omogenei”, ciò rinforza la tesi realista che afferma l’impossibilità di un governo mondiale, senza una chiara definizione della supremazia tra le Grandi Potenze.

Riassumendo, non c’è dubbio che la teoria della stabilità egemonica non resiste alla prova della storia, ed i concetti di “egemonia” e “cicli egemonici” sembrano eccessivamente associati ad una visione funzionalista del Sistema Mondiale. Come se “l’egemone” fosse un “ente virtuale” più che reale, una specie di esigenza funzionale del sistema politico, creato dalla Pace di Vestfalia, e dal sistema economico creato dall’espansione e globalizzazione delle economie nazionali europee: l’esigenza funzionale di un “potere stabilizzatore” dell’economia, e di un “potere pacificatore” delle relazioni tra gli stati sovrani.

Ma chi furono attraverso la storia questi poteri o gestori globali? Come definirono le norme e regole proprie dei “regimi di governo mondiale”? Qual’è la relazione che esiste tra questi poteri con il processo di globalizzazione dei mercati e dell’economia capitalista? Sono domande che non hanno risposta a meno che non si faccia una ricostruzione analitica attenta del processo di organizzazione dei primi stati e economie nazionali che furono capaci d’espandersi al difuori, e imporre la loro leadership o egemonia sulla maggior parte degli altri stati del Sistema Mondiale.

2.Origine ed espansione del potere e dell’economia globale

Nello studiare la formazione dei primi “mercati nazionali” europei, nel terzo volume della sua storia della “Civilizzazione Materiale, Economia e Capitalismo dei secoli XV-XVIII”, Fernand Braudel sostiene la tesi secondo la quale “ l’economia nazionale è uno spazio politico che fu trasformato dallo Stato, dovuto alle necessità e alle innovazioni della vita materiale, in uno spazio economico coerente, unificato, le cui attività passarono a svolgersi uniformemente verso la stessa direzione”(1985; p. 82). Pertanto, per Braudel, i “mercati”e le “economie nazionali” furono creati dal potere politico dello stato nazionale. Furono un’opera di potere e una strategia politica dello Stato, che modella il nuovo “spazio economico” dall’interno di un congiunto più ampio e pre-esistente, che Braudel chiamò “dell’economia-mondo europea”. Karl Marx descrive questo stesso momento della nascita dell’economia nazionale inglese, nel capitolo XXIV del suo Capitale, sul processo dell’Accumulazione Originaria:”le diverse tappe dell’accumulazione originaria ebbero il loro centro, con ordine cronologico più o meno preciso, in Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Ma fu in Inghilterra, alla fine del secolo XVII, che questo processo si riassunse e sintetizzò sistematicamente nel “sistema coloniale”, nel “sistema del debito pubblico”, nel “moderno sistema tributario” e nel “sistema protezionista”.

In gran misura, tutti questi metodi si basano nella più oppressiva delle forze. Tutti loro si avvalgono del potere dello stato.”(1980: p. 638) In questo nuovo contesto economico nazionale, diceva Marx, “il debito pubblico si converte in una delle più ponderose leve dell’accumulazione originaria. Funziona come una bacchetta magica che infonde virtù procreatrice al denaro improduttivo e lo converte in capitale senza esporlo ai rischi...come se fosse un capitale piovuto dal cielo...”(idem; p. 685)

La relazione tra il Potere ed il Denaro, o tra i Principi e i Banchieri è molto antica, e risale alle città del nord d’Italia, dove nasce il sistema bancario moderno legato al commercio di lunga distanza e all’amministrazione dei debiti del Vaticano. Da li vengono i primi prestiti per le guerre dei capi del potere, come Edoardo II d’Inghilterra, che si indebitò con la Banca di Siena, nel secolo XIV, per finanziare la presa del paese dei Galli. Uscì vittorioso dalla guerra, ma non pagò il suo debito e portò il sistema bancario di Siena al fallimento, trasferendo a Firenze, l’egemonia finanziaria dell’Italia. La stessa cosa si ripeté più volte, come nella relazione di Carlo V con i banchieri tedeschi che finanziavano l’espansione continua delle loro guerre e territori, fin quando egli decretò la moratoria del 1557, responsabile del fallimento della Casa dei Fuergers. Ma ciò che Marx descrive nel secolo XVII, è una relazione assolutamente differente tra il potere e il denaro, che fu possibile soltanto dopo la “rivoluzione economica”, di cui parla Braudel. Una volta che l’Inghilterra costituì una sua economia nazionale, la relazione tra i governanti e i banchieri cambiò natura. Non si trattava più di una relazione e di un indebitamento personale del Principe con una casa bancaria di una qualunque nazionalità. In questa nuova realtà, la relazione di indebitamento era tra lo stato e le banche di una stessa unità territoriale, o di una stessa economia nazionale, per questo, il Debito Pubblico era interno, amministrato da un modello precursore della Banca Centrale e poté trasformarsi nella base del sistema bancario e di credito dell’Inghilterra. Come conseguenza, nasce un”interesse nazionale” inglese, che è simultaneamente economico e politico, e questa unità si trasforma in una forza propulsiva gigantesca e senza eguali nella storia passata dell’accumulazione del potere e della ricchezza, una forza che oltrapasserà le frontiere nazionali dell’Inghilterra. Fu un vero salto qualitativo nella storia del potere, del denaro e del sistema mondiale. Cominciò in quel momento, la scalata del potere nazionale inglese, verso il potere globale, o della egemonia mondiale. Ed è questa espansione che creerà le basi “materiali” di una nuova “economia mondiale”, differente dall’“economia-mondo” della quale parla Braudel, che ancora era organizzata attorno alle grandi città mercantili dell’Italia e del nord Europa. All’epoca di questa rivoluzione l’Inghilterra non era sola. Al contrario, già esisteva un “sistema politico” ed una rete di stati europei, che si consolidarono, dal secolo XIV, attraverso una successione quasi infinita di conflitti che culminarono nella “Guerra dei 30 Anni”, tra il 1618 ed il 1648, vera culla delle sovranità nazionali. Con la Pace di Vestfalia, firmata nel 1648, si consacrò il principio della “sovranità nazionale” e si diede inizio al “sistema politico-statale europeo”. Ma, nel consacrare il principio della sovranità, creò un sistema di potere anarchico, dove l’esercizio “dell’equilibrio di potere” o della guerra si trasformarono nelle due forme conosciute e possibili di risoluzione dei conflitti tra gli stati sovrani. Una prima forma primitiva di governo sopranazionale. Pertanto, il nuovo sistema statale nacque competitivo mosso dalla possibilità permanente della guerra.

È in questo contesto, che si deve comprendere la radicalizzazione del mercantilismo inglese, praticato da Cromwell subito dopo la rivoluzione del 1648. In quel momento, creare un’economia nazionale, fu soprattutto una strategia di guerra, di un paese inferiore rispetto al potere economico olandese, e di fronte al potere militare di Luigi XIV. A partire da lì, e dall’esplosione del potere inglese, la maggior parte degli stati europei tentarono di ripetere la stessa strategia, moltiplicando così il numero delle economie nazionali, ma già allora, senza lo stesso successo degli inglesi. In sintesi, le prime “economie nazionali” nacquero come una strategia difensiva di guerra, dei primi stati territoriali europei, e dopo si trasformarono in una imposizione del sistema politico inter-statale la cui regola numero uno, era la continuità e intensificazione permanente della competizione politico-militare tra i suoi stati-membri. Come risultato, dall’inizio, il sistema politico europeo poggiò sul controllo compartito o competitivo di un piccolo numero di stati che imposero alla maggior parte la loro leadership politico-militare ed economica. Furono le grandi potenze, che non furono mai più di sei o sette e che si trasformarono, fin dal principio, nel nucleo dominante di tutto il sistema. All’inizio del secolo XVIII, dopo la decadenza di Portogallo, Spagna, Svezia e Polonia, il potere restò confinato a Francia, Olanda, Inghilterra, Russia, Austria e Prussia, delimitati dalle loro frontiere militarizzate con l’impero Ottomano. Ma anche tra loro esisteva una gerarchia, dove si distingueva tra tutte, la Francia di Luigi XIV, al lato dell’Olanda e dell’Inghilterra. Nel 1478, Federico II di Prussia diceva, senza dubbio “l’Inghilterra e la Francia con la loro volontà determinano ciò che succede in Europa”. D’altra parte, la mobilità in questo sistema è stata sempre molto lenta, e le “barriere all’entrata” di nuovi “soci”, create dalle potenze vincitrici, furono sempre molto alte.-----

A questo punto della storia, si colloca una domanda teorica decisiva per la discussione del problema della “governabilità mondiale”. Sapere perché sorge e si mantiene, attraverso la storia di questo tipo di sistema politico, la voglia imperiale di espansione - degli stati e delle economie nazionali - che sta all’origine di tutte le guerre? Il sociologo nord-americano Charles Tilly, uno dei più importanti ricercatori dell’origine del sistema statale, risponde: “gli europei seguirono una logica standardizzata di provocazione della guerra: chi controllava mezzi sostanziali di coercizione cercava di garantire un’aria sicura nella quale poteva sfruttare dei vantaggi della coercizione, e ancora una “zona-tampone” fortificata, per proteggere l’area sicura. Quando le potenze adiacenti stavano seguendo la stessa logica, il risultato era la guerra” (idem: p. 127). Tilly non pone, frattanto, la questione perché i principi e gli stati sentono la necessità iniziale della creazione delle sue prime “zone di sicurezza”. Per Charles Tilly, la guerra è una consequenza inevitabile del processo di espansione territoriale degli stati, ma non spiega la ragione di questa espansione. A parte ciò, non è difficile capire che la creazione delle “zone calde di confine” risponde ad una necessità e ad un sentimento difensivo, e se è così, la guerra non è una conseguenza dell’espansione territoriale degli stati, come pensa Tilly, è la sua principale causa. La guerra non si trova alla fine del processo di espansione territoriale, si trova alla sua origine e finisce per divenirne la prima causa o primo motore.

Norbert Elias espone questa tesi in una forma estremamente chiara nel suo “Processo Civilizzatore”: “la mera preservazione dell’esistenza sociale esige, nella libera competizione, un’espansione costante. Chi non sale cade. E la sua espansione significa il dominio sui più vicini e la loro riduzione a stato di dipendenza. (...) In termini molto rigorosi, ciò che abbiamo è un meccanismo sociale molto semplice che, una volta posto in movimento, funziona con la regolarità di un orologio. Una configurazione umana nella quale un numero relativamente grande di unità di dominio, in virtù del potere che dispongono, concorrono tra loro, tende a sviarsi da questo stato di equilibrio e ad avvicinarsi ad un diverso stato, nel quale un numero ogni volta minore di unità di potere compete tra loro. In altre parole, ci si avvicina ad una situazione nella quale soltanto una unica unità sociale emerge in chiave di dominio, attraverso l’accumulazione, o il monopolio delle contese probabilità di potere” (1976; p. 94). In sintesi, la Grande Potenza, sarà sempre obbligata a continuare ad espandere il suo potere, anche se dovesse essere in periodi di pace. In primo luogo, perché la guerra è una possibilità costante ed inevitabile, nelle relazioni tra le Grandi Potenze; in secondo luogo, perché questa solamente può essere rimandata dalla conquista o accumulazione di più potere; e finalmente, in terzo luogo, perché in questo sistema, come sentenzionò Norbert Elias, “chi non sale cade”.

Riassumendo il nostro punto di vista, il sistema politico ed economico mondiale, non è il prodotto di una somma semplice e progressiva di territori, mercati, paesi e regioni. Dal punto di vista storico, il sistema mondiale è stato una creazione del potere, del potere espansivo e conquistatore di alcuni stati ed economie nazionali europee, che si sono costituiti e trasformati, durante il secolo XVII, nel piccolo gruppo delle grandi potenze. Fino al secolo XIX, il sistema politico mondiale si restringeva quasi esclusivamente agli stati europei, ai quali si aggregarono, nel secolo XIX, i nuovi stati indipendenti americani. Fu solo nella prima metà del secolo XX, che il Sistema incorporò nel suo nucleo centrale, due potenze “espansive” e extra-europee, gli Stati Uniti e il Giappone, un poco prima che si generalizzasse, nella seconda metà del secolo XX, lo stato nazionale come la forma dominante di organizzazione del potere politico territoriale, attraverso il mondo.

A parte questo, dal nostro punto di vista, il sistema mondiale non esisterebbe nella sua forma attuale, nel caso in cui non ci fosse stata l’unione, in Europa, tra gli stati e le economie nazionali. E a partire da questo momento, ciò che viene chiamato globalizzazione, è il processo e il risultato di una competizione secolare tra questi stati-economie nazionali. La gerarchia, la competizione e la guerra, nel nucleo centrale del Sistema Mondiale, segnò il ritmo e la tendenza complessiva, nella direzione di un impero o stato universale, e di una economia globale. Ma questo movimento non ha niente a che fare con il progresso di una specie di “ragione Hegeliana”di natura globale e convergente...Al contrario, è un movimento che avanza sempre guidato da qualche stato e economia nazionale in particolare. Proprio per questo, non si completa mai, perché finisce per scontrarsi con la resistenza delle “vacazioni imperiali” del sistema. I vincitori transitori, di questa competizione, furono sempre quelli che riuscirono ad arrivare più lontano e garantire in una forma più permanente il controllo dei “territori politici ed economici” sovra-nazionali, mantenuti in forma di colonie, domini o di periferie indipendenti, ma poco sovrani.

Ma solo due delle Grandi Potenze riuscirono ad imporre il loro potere ed espandere le frontiere delle loro economie nazionali, fin quasi il limite dalla costituzione di un impero mondiale: l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Questo processo ha fatto un passo enorme, dopo la generalizzazione del modello “dollaro-flessibile” e della deregolamentazione finanziaria, promossa dagli Stati Uniti, a partire dagli anni ’70.

3. Possibilità e limiti di un “governo mondiale”

Per discutere le reali possibilità di “governo”, di questo sistema mondiale di cui stiamo parlando, è necessario partire da queste premesse teoriche per poter analizzare meglio l’esperienza storica conosciuta. Come abbiamo visto, si tratta di un Sistema mosso da due forze politico-economiche contraddittorie. Da un lato, attua la tendenza in direzione di un impero o stato universale, che non ha niente a che vedere con il sogno federativo e cosmopolita di Kant. Sarebbe sempre un impero imposto da uno stato alla maggior parte degli stati nazionali. In questo caso, il progetto del “governo collettivo” dovrebbe confrontarsi con il problema che “gli imperi non hanno interesse ad operare dentro un sistema internazionale; essi aspirano ad essere loro stessi il Sistema Internazionale” (Kissinger, 2001; p.84). Ma per un altro lato, il Sistema contò sempre con una contro-tendenza ai progetti imperiali, che indicano l’anarchia creata dalla pace di Vestfalia ed il suo rifiuto a qualsiasi tipo di potere superiore a quello dei sovrani nazionali. Ma l’esperienza storica insegna che se non ci fu un impero mondiale, non ci fu neanche il caos, perché il sistema si gerarchizzò e creò, in pratica, varie forme individuali o collettive di gestione sopranazionale di pace, della guerra e dell’economia.Forme di gestione imperfette e transitorie, quasi sempre investite e distrutte da nuovi impulsi della tendenza imperiale. In questa dinamica contraddittoria del sistema mondiale si deve pensare a ciò che è stata, o possa essere, una situazione di egemonia e di governabilità globale. Un “egemone” non può essere e mai sarà solo un gestore funzionale, né tanto meno una forma o funzione istituzionale che possa essere occupata da qualsiasi tipo di governante collettivo. Al contrario, l’egemonia mondiale fu e sarà sempre una posizione di potere disputata e transitoria, e non sarà mai il risultato di un consenso o di una elezione democratica. La posizione egemonica, pertanto è una conquista, una vittoria dello stato più poderoso, in un determinato momento, e in questo senso, è pure, allo stesso tempo, un “punto” nella curva ascendente di questo stato, in direzione all’impero mondiale. È un tipico punto di passaggio, un momento di negoziazione o un movimento tattico imposto dalla strategia ascensionale dei candidati all’impero globale. Ma è stato quando occuparono questa posizione transitoria, che i paesi egemonici hanno potuto esercitare le funzioni di un governo globale, più o meno favorevoli allo sviluppo economico e politico della maggior parte dei membri del sistema. Da un altro lato, e fu una vera egemonia, nella storia del sistema mondiale, quando si ebbe coincidenza o convergenza tra gli interessi ed i valori della potenza ascendente con gli interessi della maggior parte delle Grandi Potenze sconfitte, o superate, transitoriamente, dalla scalata imperiale, dai due unici grandi vincitori di questa storia: l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Solo nei momenti eccezionali nei quali si ebbe questa convergenza accadde ciò che si può chiamare egemonia, e allo stesso tempo si può pensare alla possibilità dell’esistenza efficace di regimi internazionali capaci di sostenere o regolare un governo mondiale.

In questo senso, si può parlare di una vera egemonia mondiale solo in due momenti della storia del sistema moderno: tra il 1870 e il 1900, e tra il 1945 e il 1973. Solamente in questi momenti di convergenza e armonia d’interessi si vennero a creare dei “regimi internazionali” e istituzioni multilaterali efficaci. A parte queste circostanze, nell’assenza d’armonia e convergenza d’interessi tra le Grandi Potenze, il “governo mondiale” supporrebbe l’esistenza di un unico sistema politico, dove le divergenze potessero essere risolte democraticamente. Ma nel sistema mondiale in cui viviamo, l’unica possibilità d’esistenza di una giurisdizione politica unificata, sarebbe sotto l’egida di un impero globale, che è per definizione, l’opposto di un sistema internazionale.

La cooperazione che ci fu tra le Grandi Potenze in questi due unici periodi egemonici della storia, si basò su situazioni oggettive, regole ed istituzioni completamente differenti. Nel caso dell’egemonia inglese, non ci furono regimi né istituzioni multilaterali o sovra-nazionali e, la cooperazione risultò dalle proprie caratteristiche dell’Inghilterra, che aveva un’economia estremamente aperta e dipendente dal suo commercio estero. La stabilità della sterlina dipese sempre da ciò che residuava dell’economia coloniale dell’India, e dalla cooperazione delle banche centrali della Francia e della Germania. Il sistema monetario internazionale basato sulla moneta inglese non fu oggetto di nessun tipo di accordo o regime monetario pattuito tra le Grandi Potenze. Al contrario, fu un sistema che nacque dall’adesione progressiva della maggior parte degli stati ed economie europee, obbligate ad utilizzare la sterlina negli investimenti commerciali e imperiali, in un mondo che era già “territorio economico” inglese. In questo periodo la coordinazione mondiale dell’Inghilterra fu fatta senza forme di governo o istituzioni multilaterali, con l’uso dei “poteri strutturali” dei quali l’Inghilterra disponeva, e dei quali parla Suzan Strange.

L’unico periodo di tutta la storia del “Sistema Mondiale Moderno”, nel quale fu tentato l’esercizio di un “governo globale”, basato su un sistema di tipi di governo e istituzioni sovra-nazionali, fu tra il 1945 e il 1973, durante l’egemonia nord americana, conquistata con la vittoria della II Guerra Mondiale. È importante ricordare che vari di questi regimi e istituzioni concepiti nella prima ora di vittoria militare, non si concretizzarono mai, come nel caso dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, e della realizzazione degli accordi di Bretton Woods. In realtà l’economia americana è sempre stata un’economia chiusa, al contrario di quella inglese, e solo nella seconda metà del secolo XX accellerò il suo processo di globalizzazione, nel momento in cui gli USA esercitano il loro potere politico per organizzare un “ordine mondiale”, dove la cooperazione e la convergenza tra i principali paesi capitalisti dovevano molto più alla minaccia della Guerra Fredda e alla paura della mobilitazione delle grandi masse insoddisfatte, dentro e fuori l’Europa, piuttosto che all’opzione di un regime democratico di “governo internazionale”. Adesso, dopo il 1973, la prima cosa che fu abbandonata dagli Stati Uniti, fu il sistema monetario internazionale pattuito nel Bretton Woods. E la fine di quel “regime monetario” non portò il sistema a nessuna crisi terminale. Al contrario, sollecitò la vocazione imperiale degli Stati Uniti che accumulano da allora, guadagni di potere continui, con il nuovo sistema monetario dollaro-flessibile. Dopo il 1991, con la sparizione del “regime geopolitico bipolare”, si dissolse anche la base etico-ideologica sulla quale si fondava la cooperazione tra le grandi potenze capitalistiche.

Il decennio 1990, forse è stato il momento della storia nel quale il sistema mondiale arrivò più vicino al suo limite imperiale, dal punto di vista politico, economico e ideologico. Ma dal 2000, assistiamo ad una rapida reversione di questo processo e al ritorno di un’altra tendenza del sistema, la tendenza all’anarchia. Ciò che sembrava essere la vittoria finale del liberalismo anglo-sassone cedette il posto, una volta ancora, alla difesa degli interessi nazionali e delle zone d’influenza di ognuna delle grandi potenze. Ciò che sembrava essere una vittoria quasi religiosa del liberalismo, è stato di fatto la fine di un’era “quasi religiosa” ed il ritorno al mondo nudo e crudo dei sovrani e degli interessi nazionali. D’altra parte, dal decennio dell’80, ma in particolare negli anni ’90, sparì completamente la convergenza d’interessi economici tra le grandi potenze. In questo periodo, l’economia americana è cresciuta quasi continuamente, mentre le economie della maggior parte delle potenze stagnarono, e la possibilità di mobilità dalla periferia all’interno del sistema, è rimasta praticamente ridotta ai casi dell’India e della Cina, due paesi che disputano potenzialmente la leader-ship nord-americana.

Da tutti i punti di vista, il mondo non è mai stato tanto lontano da qualcosa che possa chiamarsi egemonia o ordine mondiale. La potenza mondiale del momento difende da due decenni la regolazione di tutti i mercati e sistemi di comunicazione, energia e trasporti. E sta abbandonando tutti gli accordi, compromessi e regimi internazionali che intralciano la sua capacità di azione unilaterale. La sua moneta adesso è rigorosamente universale e non obbedisce a nessun regime, appena alle decisioni sovrane del FES. La sua economia internazionale ha conquistato spazi fondamentali nella direzione della globalizzazione della sua moneta, debito e sistema di tassazione. Ma allo stesso tempo si è ridotto l’appoggio alla sua leader-ship morale-internazionale, e ognuna delle grandi potenze si dedica oggi a “raccogliere i casi” e ridefinire i loro interessi e spazi d’influenza, voltando le spalle agli Stati Uniti.

In questo scenario internazionale, l’idea o il progetto di un “governo mondiale”, mantiene la sua bellezza etica kantiana, e continua ad essere una bandiera o un’utopia politica valida, ma non è una realtà probabile e la sua esistenza quasi impossibile in questo momento, non può servire da base per nessun calcolo strategico durante il prossimo decennio, forse durante i prossimi decenni. A meno che sia il caso della governabilità mondiale lodata dai conservatori, come Nial Ferguson, professoressa di Hervard e una delle più applaudite tra gli storici inglesi contemporanei: “Far from retreating like some snail behind an eletronic Shell, the United State should be devoting a lager percentage. But like free trade, these are not naturally occurring, but require strong institutional foundations of law and order. The proper role of an imperial America is to establish these institutions where they are lacking, if necessary-as in German and Japan in 1945-by military force” (2001;p.416).

La stessa utopia e progetto “liberale” dei fisiocrati francesi del secolo XVII, che credevano anche loro, che il buon funzionamento di una economia di mercato, richiedesse un “governo tirannico” che eliminasse i conflitti della vita politica. Ma un tiranno che fosse, di preferenza, economista, liberale e fisiocrate.

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Bibliografia

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[1] Questo lavoro è stato scritto per il Seminario “the first Conference Innovation Systems and Development Strategies for the Third Millenium”, realizzato a Rio de Janeiro, dal 3 al 5 novembre 2003 e inviato a Proteo per la pubblicazione autorizzata.